Avere vent’anni: ottobre 2000

THE HELLACOPTERS – High Visibility

Lorenzo Centini:A sedici anni ero il più figo del liceo. Avevo i capelli lunghi e lucenti, indossavo camicie slim fit, pantaloni a zampa di elefante e riuscivo a fare gli assoli di chitarra dietro la testa. Manco per il cazzo. I miei capelli erano incrostati di sebo, il camicione a quadri non nascondeva la panza per quanto fosse di un paio di misure più grande e i pantaloni avevano ancora il taglio deciso da mia madre. La chitarra, e chi l’ha mai saputa suonare. Ovviamente non trombavo. Però avevo uno specchio molto più figo di quello della strega di Biancaneve. Era High Visibility degli Hellacopters ed è un sogno per chi non ha vissuto in diretta gli MC5 di Back in the USA e High Time. Se gli preferite i primi due degli Hellacopters, vi rispetto perché sicuramente siete più vecchi di me e perché, che cazzo, se c’è Nicke Andersson, che almeno le chitarre siano distorte. Ma a me non me ne fregava nulla, perché le chitarre di questo disco sono perfette così come sono, perché il pianista fa gli straordinari al punto giusto e il batterista ha la rullata più esaltante che mi viene in mente su di un disco r’n’r (ok, ci vado piano che quello stesso anno era uscito pure Nightmare Scenario dei New Bomb Turks). Nemmeno quei due/tre pezzi che scimmiottano Bob Dylan riescono a rovinare il bilancio complessivo. Neanche Bob Dylan in persona ci sarebbe riuscito. E il trittico finale non perdona, puro swing’n’roll infuriato. Non avrei saputo come ballarlo, ma nemmeno quella s*ronza che non mi si filava all’epoca e che non sapeva manco chi fosse Rob Tyner. Peggio per lei. Scopro solo ora mentre scrivo che il meraviglioso chitarrista Robert Dahlqvist è morto a 40 anni nel 2017. Beh, l’immagine restituita dallo specchio era in realtà la sua e anche suo il merito di un disco così. Porca troia. Mi piace pensare che almeno sia in buona compagnia.

MARDUK – Infernal Eternal

Trainspotting: Credo che questo fu il primo cd che recensii in vita mia. Non su un quadernone come feci per The X Factor, intendo proprio recensione su un sito specializzato. Quindi eccoci qua, abbiamo fatto tutto il giro e per la prima volta un Avere vent’anni riprende un disco che già avevo recensito all’epoca. Non ricordo assolutamente cosa scrissi e non ho modo di recuperarlo, ma di sicuro tutto il discorso verteva sul fatto che questo doppio live dei Marduk apre il culo alle montagne rocciose grazie al copioso utilizzo di bazooka e bombe atomiche, e usando i lanciafiamme come lubrificante. Anche perché non c’è molto altro da dire: qui la band di Norrkoping è immortalata all’apice del suo periodo tamarro, subito dopo i devastanti Nightwing e Panzer Division Marduk, e l’approccio live tende più a evocare carri armati e calci in bocca che atmosfere lugubri e sulfuree. Analogamente a quanto detto da Ciccio per Live Cannibalism dei Cannibal Corpse (gruppo che peraltro ha attitudinalmente svariati punti in comune con i Marduk di questo periodo), una delle cose più gustose di Infernal Eternal è il modo con cui Legion annuncia i pezzi, del tipo THIS IS A PESTICIDE FOR CHRISTIANITYYYY – BAPTISM BY FIREEEE!, ovviamente tutto in screaming. Oppure THIS IS A SONG ABOUT TURNING ALL THE FUCKING CROSSES UPSIDE DOOOOOWN! per annunciare Sulphur Souls. O ancora, prima di Slay the Nazarene, IF YOU DON’T KNOW WHAT THIS ONE IS, WHAT THE FUCK ARE YOU DOING HEEEEREEE?. Insomma, è tutto veramente meraviglioso e quest’album dovrebbe troneggiare in ogni scaffale di dischi che si rispetti, per rendere il vostro salotto un grande protagonista del Novecento. I Marduk dell’anno 2000 erano talmente in stato di grazia che persino Materialized in Stone, uno dei loro pezzi più evocativi in assoluto, viene resa splendidamente in versione tamarra. Sul serio, ascoltatelo subito a volume disumano perché Infernal Eternal ha il potere di guarire immediatamente ansia, tristezza, depressione e qualsivoglia male dell’animo. This is a pesticide for depression.

THEATRE OF TRAGEDY – Musique

Michele Romani: Tutto si può dire dei Theatre of Tragedy tranne che non abbiano voluto provare a rischiare durante la loro carriera. Se già con lo splendido Aegis s’intuiva la voglia del gruppo di uscire dai classici schemi del gothic metal modello beauty and the beast (che loro stessi praticamente avevano inventato), con Musique la rivoluzione è a dir poco totale: di gothic metal non resta più neanche l’ombra, la componente industrial/elettronica risulta predominante ed i brani che prima erano sempre piuttosto lunghi si riducono alla media di 4 minuti scarsi. Il tentativo di dare una svolta più fresca e commerciale al proprio sound è fin troppo palese, secondo uno schema abbastanza semplice e riconoscibile di strofa-ritornello con alternanza tra la voce supereffettata di Raymond e quella, come sempre magnifica, di Liv Kristine, che dimostra essere a suo agio anche in uno stile quasi esclusivamente pop. Devo ammettere che ai tempi, da cultore dei primi TOT versione gothic doom, feci parecchia fatica a digerire questo lavoro, anche se col passare del tempo lo apprezzai sempre di più grazie anche a composizioni veramente belle pur nella loro semplicità come Fragment, City of Light o Chrash/Concrete. Eppure la band di Stavanger purtroppo dovette appurare come il pubblico metal non fosse ancora pronto per una svolta simile, così come avevano capito qualche tempo prima gruppi come Moonspell, Tiamat o Paradise Lost, che dopo averci provato tornarono mestamente su lidi più sicuri. Quello che successe pari pari ai Theatre of Tragedy, che dopo l’altrettanto valido Assembly (che reputo anche meglio riuscito) pensarono bene di licenziare Liv e tornare tra alti e bassi a tornare a quello che facevano prima.

MALEVOLENT CREATION – Envenomed

Marco Belardi: Il problema dei Malevolent Creation in quegli anni è che avevano finito la benzina, ma erano ancora piuttosto abili nel mascherarlo. Envenomed avvia un processo secondo il quale, nel giro di tre o quattro dischi al massimo, ogni uscita sarà un filino più pesante della precedente. Inoltre essa si discosterà con buona probabilità dall’attitudine alla Slayer tipica dei loro esordi, culminante in quel The Fine Art of Murder che ho elogiato ed esaltato un po’ di tempo fa sempre su questa rubrica. Envenomed non è niente di tutto ciò: ha un trittico d’apertura semplicemente pazzesco, dopodiché si adagia e si lascia semplicemente ascoltare, annoiando di tanto in tanto. Fa piacere e allo stesso tempo dispiace ascoltare Brett Hoffmann, uno della vecchia scuola che si ritrovò di punto in bianco ad annaspare in un mare di blast-beat tale da far assomigliare i pezzi l’uno agli altri, con il vantaggio offerto da Dave Culross e con l’unico effetto sorpresa causato da una Kill Zone, la quale esordiva a metà tra il black metal e il death scandinavo, ossia, pestando quanto un fabbro e variando intelligentemente sul tema. Gran peccato, ma i Malevolent Creation erano ancora vivi e così sarebbe stato nel successivo The Will to Kill.

GREEN CARNATION – Journey to the End of the Night

L’Azzeccagarbugli: Primo disco sulla lunga distanza (il gruppo nasce nel 1990) e dopo alcuni cambi di formazione per la band di Terje Vik Schei (meglio noto come Tchort) che, dopo aver abbandonato gli Emperor poco dopo le registrazioni di In The Nightside Eclipse, si concentra sul suo progetto più personale. L’esordio del gruppo, il cui titolo richiama il capolavoro di Céline, mette subito in chiaro le intenzioni del suo leader: un sound estremamente ricco che, partendo da un gothic-doom molto personale, si sposta spesso su territori decisamente più progressive, nel contesto di brani che molto spesso superano i dieci minuti. L’ambizione è tanta e il risultato non sempre è dei migliori: soprattutto i momenti più tipicamente gothic, infatti, risultano spesso noiosi e quasi un corpo estraneo rispetto all’atmosfera del disco e, in generale, regna una certa confusione a livello compositivo. Si riescono a cogliere, però, le radici di quello che diventerà il sound tipico dei Green Carnation nella notevole My Dark Reflections of Life and Death (reincisa nell’ultimo lavoro della band) e nella trascinante End of Journey, Pt. III che rappresentano, senza dubbio, i brani complessivamente più riusciti. Al netto di alcune asperità e di una certa confusione, Journey to the End of the Night resta un esordio tutto sommato discreto che lascia intravedere le potenzialità di una band che, solo un anno dopo (e con un’altra line-up), avrebbe composto il suo capolavoro.

CRYPTOPSY – And Then You’ll Beg

Ciccio Russo: Proprio nell’anno della riscossa del death metal, segnata dagli exploit di Nile e Dying Fetus, i Cryptopsy mancarono l’appuntamento con la storia uscendosene con un album ostico e ingarbugliato, che spezzò quell’equilibrio tra sperimentazione e brutalità che aveva fatto apprezzare Whisper Supremacy anche agli orfani più inconsolabili del vecchio frontman Lord Worm. And Then You’ll Beg di primo acchito non mi dispiacque ma mi stufò presto e lo accantonai per non recuperarlo mai più. Riascoltato oggi, colpisce come il quarto full dei canadesi, pur con tutti i suoi difetti, fosse in anticipo sui tempi e avesse precorso alcune derive successive del genere, dalle evoluzioni più contorte del deathcore, quello ibridato con il math che piace ai giovani d’oggi, a quel death tecnico dall’impostazione compositiva quasi jazzistica che si mangia la forma canzone e la ricaca. Un disco non memorabile ma, a suo modo, personale e pionieristico. A salvare dalla noia rimane però soprattutto il mostruoso muro sonoro: volevano puntare al cervello ma i (pochi) colpi ben assestati erano sempre quelli diretti alle parti basse.

AMEN – We Have Come for your Parents

Lorenzo Centini:I nuovi Sex Pistols! Anzi, no, I NUOVI STOOGES!!! Sì, come no… però, a parte il circo mediatico, questo disco non è affatto male anche a risentirlo oggi. Casey Chaos era un caso umano che per qualche ragione si è ritrovato la sua band lanciata dalla Roadrunner e rilevata poi dalla Virgin, che forse voleva capitalizzare quel po’ di maleducazione rimasta in giro in un’epoca in cui il trend punk erano gruppi stupidi come i Millencolin e l’alienazione su MTV aveva la smorfia oscena dei Mudvayne. A noi in fondo andava bene così, che esistesse un corto circuito del genere, intendo. Anche la produzione di Ross Robinson non fa deragliare un’operazione che davvero ci avrebbe messo uno sputo a diventare ridicola. Invece il disco regge bene, fa scapocciare veramente alla grande e ve lo dico, magari uscissero ancora dischi così, ché anche il punk è diventato perbenista, oggigiorno. We Have Come for your Parents gira che è una meraviglia, non avrà forse picchi eccelsi ma non molla nemmeno per un secondo la presa, è un buon disco di punk rock cazzutissimo che guarda al metal e alla decadenza del miglior Marilyn Manson, ma per fortuna non ha nulla della plastica nu metal coeva. Approfittando di una momentanea sospensione di incredulità generale, come quando uno scoreggia in ascensore ma fa in tempo a scendere al piano prima che gli altri perdano il loro contegno elegante, qualche anno dopo Casey Chaos registrò anche un disco a nome Scum con Samoth, Faust, Happy Tom e Nocturno Culto, ma quest’ultimo disco potete benissimo ignorarlo. Che è più elegante così, credetemi.

OVERKILL – Bloodletting

Marco Belardi: Ricordi piacevoli mi scorrono per la testa quando ripenso a uno dei meno significativi album degli OverkillBloodletting. È dal loro disco del 1997 che, più o meno con cadenza annuale, mi occupo delle loro uscite risalenti a vent’anni fa, e debbo ammetterlo: inizio a sentirmi stanco. Nel 2000 si presentarono a Firenze di spalla a Rob Halford e sfasciarono tutto quanto, il locale era il Tenax. Nessun segno di cedimento, anzi, un’iniezione d’adrenalina dovuta niente meno che all’innesto di Dane Links alla chitarra, un tizio più o meno sconosciuto che misero al posto di Comeau e Marino, ricomponendo di fatto una line-up a quattro elementi come ai tempi di Bobby Gustafson. Niente, naturalmente, sarebbe più stato come ai tempi di Bobby Gustafson, eppure gli Overkill avrebbero ripreso a macinare album dignitosi, belli, trascinanti, proprio dopo un iniziale rodaggio con quel Dave Linsk alla chitarra. Bloodletting è l’ennesimo lavoro in cui si ammicca a suoni che vedresti ben appiccicati addosso a Rob Zombie, e infatti c’era di mezzo Colin Richardson, autentico guru degli anni Novanta che a differenza di uno Scott Burns seppe non veder tutto nero e di conseguenza riuscì a racimolare le forze necessarie a reinventarsi: suo il suono di DemanufactureHeartworkBurn my Eyes, per un addetto ai lavori che un tempo operava nel death metal e più o meno in quello soltanto. Con ottimi risultati, aggiungo. Colin Richardson fece sì che passasse in secondo luogo un aspetto degli Overkill anni Novanta: stavano piano piano ributtando dentro il thrash metal (My Name is Pain), e la cosa stavano pensandola con molta gradualità e prudenza. Eppure, furono proprio i suoni dei loro album a impedire a un elemento del genere di risaltare, perché si amalgamavano perfettamente ai passaggi groove, piuttosto che alla “novità” in arrivo. La risultante? What I’m Missin’ prende pari pari un riff portante da Coma e non è detto che ve ne accorgerete. Per il resto Bloodletting aveva qualche pezzo caruccio, o addirittura buono come nel caso di Let it Burn, ennesimo episodio di quelli che puntualmente finiremo col definire “sabbathiani”, ma onestamente ho durato una gran fatica a riascoltarlo per intero. E comincio ad essere stanco, anche perché un anno fa ho barato e lasciato in disparte Coverkill (quel genere di cose che incidi per troncare con un’etichetta discografica), ma tra poco c’è Killbox 13.
Lorenzo Centini:In realtà Albione, come la dirimpettaia Europa, era fuori dai giochi quando si parlava dei due trend che piacevano alla gente che piaceva all’epoca, ovvero il nu metal e il post hardcore. arc’tan’gent venne fuori come la risposta identitaria non richiesta da parte di una band di Nottingham che fino a quel momento non aveva combinato poi moltissimo, ma che qui invece cala l’asso di qualche soldo in più di produzione (Andy Sneap in cabina di regina e infatti la pacca c’è) e di idee decisamente più sul pezzo. All’epoca se ne parlava come di una cosa un po’ misteriosa, un po’ druidica. In realtà a sentirlo oggi non ci trovi molto di diverso da quello che erano i riferimenti principali dell’epoca: Tool pre-Lateralus, Deftones, Helmet, Neurosis (parecchio), Snapcase. Tutta roba americana. Ovvero non molto di diverso da quello che veniva fuori, appunto, in America con Glassjaw e Will Haven, cioè le seconde linee all’ombra dei nomi di qui sopra. Però gli Earthtone9 tirarono fuori un disco davvero molto bello, forse anche qualcosa di più. Un’opener francamente indimenticabile, altri quattro o cinque riff pazzeschi, urla credibili, pochissime cadute di tono nei passaggi melodici, qualche bella coda onirica e inquieta moooolto Tool, l’interludio elettronico di prammatica. Tutto al posto giusto. Anche la barbetta, gli occhiali e la camicia a scacchi. Avessero avuto dei produttori dal budget milionario nei paraggi anziché un impiego in un fish’n’chips notturno, magari staremmo parlando di un nome di punta nei cartelloni dei festival ancora oggi.

FOREFATHER – The Fighting Man

Trainspotting: I Forefather vengono da un posto alla estrema periferia meridionale della Greater London che si chiama Leatherhead, come un cattivo di un film slasher anni ’80, e suonano una peculiare forma di pagan metal che loro definiscono anglo-saxon metal. The Fighting Man è il loro secondo disco, che, pur caruccio, è ancora parecchio acerbo. L’idea infatti è buona, ma non sviluppata compiutamente: le premesse però ci sono già tutte, e le atmosfere da antica Albione spesso colgono nel segno, perché i nostri eroi Athelstan e Wulfstan sapevano già perfettamente dove volessero andare a parare. Purtroppo, come in ogni loro album, la batteria elettronica toglie un po’ di poesia, anche se il senso di straniamento maggiore la dà The Path of Yesterdays, una specie di omaggio a Beholding the Daughters of the Firmament di Burzum, la cui atmosfera non ha molto di anglosassone. Ad ogni modo, in seguito riusciranno a rendere meglio la formula – e in questo senso consiglio The Steadfast del 2008 – ma ciò non toglie che The Fighting Man abbia comunque il suo perché.

LIMP BIZKIT – Chocolate Starfish & The Hot Dog Flavored Water

Stefano Greco: Chocolate Starfish & The Hot Dog Flavored Water, per la gioia dei lettori più oltranzisti, ci dà finalmente la possibilità di parlare male dei Limp Bizkit. Dopo avere azzeccato un primo ed un secondoalbum entrambi molto diversamente riusciti, un singolo perfetto ed essersi fatti la fama di gruppo pericoloso (il concerto di Woodstock ’99 dove oltre a spaccare di brutto tra il pubblico sarebbe successo di tutto) i Limp Bizkit arrivano all’appuntamento  con la consacrazione definitiva e riescono a disattendere tutte le doverose aspettative. Il disco, fatti salvi forse i singoli e qualche pezzo carino, è una boiata pazzesca che giustificherà tutte le male parole a loro dedicate negli anni a seguire. La formula è la stessa di Significant Other ma mancano i pezzi: il brano di apertura è contemporaneamente osceno e bambinesco (citare i NIN in un contesto in cui si fa la conta dei “fuck” pronunciati è una roba criminale), anche la semi-ballad e il pezzo rap escono malissimo dal confronto con quanto fatto solo l’anno precedente. La band da essere una cosa che funzionava anche su MTV ne diviene il gruppo più rappresentativo, una differenza solo apparentemente insignificante. Il successo sarà enorme e la credibilità minima, alla fine Wes Borland deciderà di mollare la baracca perché la buffonata si era spinta oltre il livello del consentito (tornerà anni dopo, per sua stessa ammissione, solo per la grana – giustamente).  “Bada fratellì, ho sfonnato tutto…” . A sentirsela troppo calda alle volte si rischia di perdere il controllo.

DIE APOKALYPTISCHEN REITER – All You Need is Love

Marco Belardi: Una volta scrissi qualche riga suAllegro Barbaro, e allora vado a ricontrollare e quella volta era semplicemente un anno fa, e non solo: rileggo e avevo scritto più di All You Need is Love nella recensione di Allegro Barbaro, che dello stesso Allegro Barbaro. Un motivo ci sarà. Per il sottoscritto All You Need is Love è l’unico album dei Reiter in cui ci si convince, sbagliando, che la band tedesca fosse in procinto di fare il botto, di diventare il gruppo che ascoltano tutti, che ibridano questo con quell’altro divertendo e allo stesso tempo facendoti scapocciare come un pazzo. Erano perfetti, questo disco aveva quattro o cinque pezzi di un livello semplicemente assurdo ma più generalmente si lasciava ascoltare con piacere da cima a fondo. Non ricapitò mai. Continueranno a sfornare dischi con una cadenza più o meno regolare e alcuni di questi saranno anche di un buon livello, ma il titolo che esalto fra queste righe è l’unico che imponga ascolti ripetuti. Semplicemente bellissimo, e ci cascai come una pera: rimasero quel gruppo che erano in precedenza, più maturo, più estroverso a volte, meno in altre occasioni, ma non fecero quel salto di cui si ebbe con questo disco il sentore.

GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR – Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven

L’Azzeccagarbugli: C’è stato un periodo in cui sembrava davvero possibile che il post-rock potesse diventare la next big thing, un momento in cui non solo le riviste e le radio specializzate, ma anche media più commerciali avevano iniziato a scommettere su questo genere, su queste lunghe composizioni, quasi sempre strumentali, scritte da band che non puntavano sulla propria immagine e che facevano parlare la propria musica disintegrando i timpani dei propri spettatori. Un periodo in cui si rincorreva ancora un “nuovo grunge”, sia come fenomeno musicale che culturale e in cui, soprattutto, la musica contava ancora qualcosa. Sappiamo tutti come sono andate le cose, ma tra le tante “scene” che si sono susseguite dal finire dei ’90 in poi, quella post-rock resta non solo una delle più interessanti, ma anche una di quelle che è stata capace di generare gruppi che sono “rimasti” e che hanno saputo evolversi nel corso degli anni. Tra questi, un posto di primissimo piano spetta ai Godspeed You! Black Emperor, che rappresentano quanto di meglio il genere possa offrire e che nel 2000 hanno pubblicato, senza mezzi termini, uno dei dischi più importanti degli ultimi vent’anni: il monumentale Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven. Quattro macromovimenti di una sinfonia distorta e dissonante capace di travolgere l’ascoltatore ora come vent’anni fa. Insieme a Young Team degli scozzesi Mogwai una sorta di paradigma per tutto ciò che rappresenta un certo tipo di post-rock che, in quegli anni, sembrava evolversi a ritmi forsennati. Un (doppio) disco senza tempo, torrenziale, straripante, totalizzante pur nella sua indubbia complessità e che sin dall’iniziale Storm (di oltre venti minuti) fissa uno standard talmente alto da essere irraggiungibile praticamente per chiunque, forse anche per gli stessi canadesi i quali, comunque, continueranno a pubblicare solo ed esclusivamente musica di grandissima qualità.

REGURGITATE – Carnivorous Erection

Maurizio Diaz:Ho conosciuto i Regurgitate in ritardo, perché qualche malato di mente aveva creato, all’epoca in cui giravano i giochini in Flash sul web, un giochino a scorrimento in cui c’era un ciccione che sparava agli zombie con un fucile a canne mozze e dove lo scorrimento era velocizzato o rallentato in base al ritmo dei pezzi grind che passavano sotto in quel momento (ideona, tra l’altro). Due pezzi erano tratti da Sickening Bliss dei Regurgitate, del 2006, il che fu sufficiente a trasformare questi ultimi in uno dei miei gruppi-feticcio. Questo mese cade invece l’anniversario di Carnivorous Erection, disco di cui non si può non parlare perché la copertina è un fallo cannibale che addenta la lingua della tizia che si accinge alla fellatio. E forse, rispetto a quello del 2006, è anche più bello. Non sono un grande conoscitore del grind, ne ho giusto le basi e non è che ne faccia regolarmente un’indigestione. Però, quando metto su i Regurgitate e mia moglie non è in casa a fare la faccia schifata, dopo un po’ comincio a camminare dando i calci all’aria e a dare una sfumatura più metallara e “live” alla parola couchsurfing. Carnivourous Erection ha forse il suono più pulito in assoluto della loro carriera e sufficientemente brillante da dargli il giusto impatto, e contiene dei bei riffoni grassi e ignoranti quanto basta, ma anche sufficiente perizia da farti venire il dubbio che in fondo non è solo questione di copertine oscene e testi irripetibili. I Regurgitate in Carnivorous Erection in qualche modo rappresentano la sublime bellezza del riff con sotto i blast beat, in modo puro, diretto, semplice. ‘Sta roba gasa sul serio, e se lo fa anche dopo vent’anni non è solo questione di lavandini rotti.

GREEN DAY – Warning

Marco Belardi: I Green Day segnarono la mia adolescenza con il video di Basket Case. Per questo, anche nel mio momento di massima indigenza metallara, continuai a seguirli: quei tre erano roba mia e mi sentivo in dovere di apprezzarne o criticarne ogni nuova uscita. Nimrod fu indefinibile: tanto era diretto e pesante il precedente album, tanto vario e confusionario era questo. Era il 1997 e feci a pugni con la facilità con cui questi stronzi alternavano la furiosa Platypus a un nuovo tentativo di rifare Basket Case (Nice Guys Finish Last) oppure a ottimi singoli da classifica come Redundant e Hitchin’ a Ride. I Green Day erano a tutti gli effetti una band da classifica, ma non mi irritava quello. Non sopportavo le loro frequenti incursioni in quello stile mezzo stradaiolo mezzo country mezzo fisarmonica in culo che fa due note e poi scappa sull’insopportabile Walking Alone. Poi c’era questa Good Riddance che si era presa letteralmente la scena, e io ero certo che, come accaduto con Basket Case, avrebbero inciso altre Good Riddance. Warning mi fece così schifo al cazzo che arrivai a ripudiarli completamente. Eppure aveva un paio di pezzi, o tre, che ti si stampavano istantaneamente in testa, come Warning e quella Minority destinata a presenziare fissa nei programmi sportivi Mediaset in quegli slide dove rivedi tutti i gol annuali di Maurizio Ganz. Il resto era una moscieria allucinante con titoli come Church on Sunday, che avrebbe inaugurato la saga dei Gesù Cristi proseguita poi con Jesus of Suburbia nel pieno del delirio d’onnipotenza di chi si sente in grado di fare un musical, un triplo album, una roba al teatro e cose così solo perché ha ritrovato “l’ispirazione”. Nel 2000 l’ispirazione nemmeno c’era, avevano praticamente staccato l’elettrico e davano plettrate alla Sting in Macy’s Day Parade in attesa che il mondo li consacrasse a rivali americani delle nuove divinità del pop fattone anglosassone. Era davvero meglio quel polpettone di Nimrod.

GEHENNA – Murder

Michele Romani: Ricordo che ai tempi dell’uscita questo Murder, quinta fatica discografica dei norvegesi Gehenna, mi lasciò totalmente interdetto. Pur da sempre considerata di seconda fascia rispetto ai nomi storici della seconda ondata, la band di Stavanger nel corso degli anni aveva prodotto tre capolavori di black sinfonico dalle tinte oscure (i due Spell e Malice) assolutamente obbligatori per qualsiasi amante di queste sonorità. Se già col precedente Adimiron Black si poteva parlare di un più canonico black death metal col quasi totale abbandono dei synth, in questo Murder di black metal ce n’è poco o nulla. Il disco infatti, della durata di appena 31 minuti, si riduce ad un classico death metal con marcate influenze di thrash tedesco vecchia scuola, con qualche reminiscenza industrialoide che era un po’ il marchio di fabbrica dei dischi editi dalla Moonfog in quel periodo. Il risultato finale è veramente deludente: esclusa forse la title track non c’è un brano che ti faccia saltare dalla sedia o che in generale possa riportare indietro alla magia dei “vecchi” Gehenna. Una delusione totale.

RADIOHEAD – Kid A

L’Azzeccagarbugli: Disco di rottura sotto tutti i punti di vista: col passato – anche prossimo – e con il pubblico che da questo momento in poi si dividerà in due fazioni. Da un lato chi accuserà la band di aver fatto il passo più lungo della gamba e di aver tradito le sonorità dei primi dischi, dall’altro chi inizierà a “considerare” i Radiohead solo da (una parte di) Ok Computer e che reputa Kid A il massimo punto di arrivo del rock post-grunge a cavallo del nuovo millennio. La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. Perché se indubbiamente certe altezzose critiche verso i primi lavori della band sono figlie di un approccio alla musica che, nel 2020, non ha davvero più motivo di esistere (e The Bends resta uno dei dischi più belli di sempre), dall’altro negare la rilevanza di Kid A, a distanza di 20 anni, sarebbe da folli. Un disco che magari non sarà la migliore manifestazione dell’umano ingegno dal Rinascimento in poi (e neanche il miglior album dei Radiohead) e che sconta il fatto di aver iniziato a rendere il gruppo e il suo pubblico sempre più “antipatico” ma che, oggettivamente, contiene alcuni dei migliori brani mai composti dalla band, da Idioteque How to Disappear Completely, da The National Anthem Motion Picture Soundtrack. E se con il senno di poi si comprende che determinate soluzioni, che sembravano davvero innovative per l’epoca, costituivano, in realtà, un tentativo di inglobare nel proprio sound un certo tipo di elettronica, è pur vero che la scommessa è stata vinta. E anche dopo vent’anni, ogni volta che rimetto su il disco e parte Everything in its Right Place non posso fare a meno di continuare a sorprendermi.

12 commenti

  • Vi siete scatenati, non riesco più a stare dietro alle pubblicazioni giornaliere.

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    • Si, faccio anche fatica a ricordare quello che ho già ascoltato e no. Sulla roba di vent’anni fa una idea è probabile che ce l’abbia, ma per le novità tenete presente che cominciamo ad avere problemi geriatrici.
      PS: lo so che vi piacciono, ma Limp Bizkit e Radiohead sono una cagata pazzesca.

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  • Tanta roba ma poca qualità per i miei gusti…
    – Terribile quello dei Green Day
    – Atroci i Gehenna, i cui primi tre sono davvero chicche
    – Acerbi i Green Carnation, decollati però subito dopo
    – Tamarri oltremodo i Theatre of Tragedy, carini ma Aegis resta di un altro pianeta
    – Guilty pleasure del mese e forse della vita, i Limp Bizkit. A me sto album fa impazzire (e ho persino smesso di vergognarmene)
    Non amo i live, ma questo entusiasmo mi fa voglia di sentire quello dei Marduk che non ho mai ascoltato…

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  • A ottobre usciva anche carpe diem dei Pretty maids, ci tenevo a ricordarlo perché il cantante ronnie atkins ha un cancro incurabile ai polmoni e probabilmente non gli rimane molto da vivere.

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  • Ci sono due/ tre nomi che voglio approfondire per esempio Regurgitate che non conoscevo ma ho ascoltato qualcosa dopo avervi letto e sono assolutamente privi di principi ed educazione, già lì amo. I Green Day mi sono sempre piaciuti, testi, musica, live, attitudine cazzona sul palco e nella vita e battute nelle interviste.

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  • Envenomed per me invece è uno dei più begli album dei MC. Hoffmann in gran forma, Culross spaventoso, e una produzione mai così “europea” nei suoni e nel riffing. Lo riascolto regolarmente e con gran soddisfazione.

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    • Piace tantissimo anche a me, quando leggevo in giro che molti lo considerano minore e non me ne capacitavo pensavo che ci fossi affezionato solo perchè fu il primo disco loro che ascoltai, ma risentito ultimamente devo dire che è un discone.

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  • High Visibility il miglior disco in assoluto degli anni Duemila.

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  • Su And Than You’ll Beg purtroppo devo concordare con la recensione, anche se non è affatto un disco brutto. Lo riascolto ancora oggi sperando ancora di trovare qualcosa in più, ma a parte una manciata di brani, siamo piuttosto distanti dai primi 3 lavori. Sui Green Day mi sono fermato a quello dopo Dookie, comprato all’epoca tutti ma tutti i compagni di classe se lo ascoltavano, e pur non apprezzando questo punk melodico, il disco ha un gran bel tiro. Ma già il successivo non mi aveva convinto affatto, e poi smisi di seguirli completamente.

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  • Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven è una epopea. I GYBE li vidi nel 1998 o nel 1999 (non ricordo bene) in un locale semisconosciuto in Friuli quando probabilmente nemmeno quelli dell’etichetta che gli pubblicava i dischi sapevano chi erano. Ci saranno state quindici persone. Uno dei concerti più belli della mia vita. Rivisti quindici anni dopo a Roma al Circolo degli Artisti (come A Silver Mt. Zion), gliel’ammollavano ancora. Bei tempi.

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