Avere vent’anni: PARADISE LOST – Host

Host rappresenta la fine di un’era: è il primo disco su major di un gruppo metal affermatosi negli anni ’90, l’ultimo disco dei Paradise Lost e tra gli ultimi dischi metal in generale. Esce su EMI, la stessa degli Iron Maiden, dopo semestri di massimo riserbo, aggiornamenti con il contagocce, scetticismi e malcontenti vari a prescindere (si saranno “venduti” al “nemico”?, e via deliziando) nel pieno dell’ultima fase evolutiva che il genere abbia conosciuto. L’ultimo decennio del ventesimo secolo ha lasciato in eredità una serie di dischi strani, sperimentali nel senso letterale del termine, da gruppi già affermati che comunque volevano spostare l’asticella del discorso: Testament, Kreator, Helloween, Anthrax, Motley Crue, Def Leppard, Napalm Death, Overkill, Amorphis, My Dying Bride (senza contare The X Factor e Load); per chi ricorda il name-dropping potrebbe andare avanti per giorni. Alcuni capolavori, molti dischi soltanto bizzarri, altri inconcepibilmente brutti e scentrati; in tutti i casi, esisteva ancora il coraggio di osare ed era bello vederlo manifestarsi.

Per la maggior parte, gli esperimenti si sarebbero rivelati drammaticamente deficitari in termini commerciali. A quel punto le strade erano due: scioglimento (salvo poi ritornare decenni più tardi), o l’ultima sgroppata prima di rientrare nei ranghi. Il contratto EMI obbligava i Paradise Lost a cacciare il disco della consacrazione o essere ricacciati nella polvere, la pressione alimentata dalle aspettative di una fanbase sempre più consistente e variegata: chi era rimasto a Gothic e malediceva la svolta Black Album ripoff (Metallica non Prince) di Icon, ma nonostante tutto continuava a seguirli; i punk che li avevano visti aprire il reunion tour dei Sex Pistols; chi invece Icon l’aveva amato e Draconian Times ancora di più, e assieme alla marea di darkgotici aperti di mente aveva accolto con gratitudine One Second, quanto di più vicino all’idea di perfezione il gruppo abbia mai raggiunto. Erano tutti lì ad aspettare.

Host sceglie di manifestarsi nel momento meno adatto: primavera inoltrata, lunghe giornate di sole da vivere, la scuola che sta per finire. Non il tempo, il periodo, la stagione per questo: lo sforzo richiesto per arrivare alla fine di un’interminabile, estenuante parata di pezzi brevi quanto anonimi, indistinguibili l’uno dall’altro, andava ben oltre ogni dedizione possibile. Il problema non era il passaggio su major o il cambiamento di stile; il problema era che mancavano del tutto i pezzi. Roba iperprodotta un po’ trip hop un (bel) po’ martingore punteggiata da rumorini e scarichette analogiche e crepitii post-industrial senza un ritornello orecchiabile che fosse uno: bel paradosso.

Potevi percepire il peso delle migliaia di ore di angoscia in studio di registrazione a rifinire canzoni che non c’erano in partenza, le riscritture, scervellarsi per un ritornello che non usciva fuori. Decenni più tardi Nick Holmes dirà che la band al completo, per motivi diversi, assumeva farmaci durante la gestazione del disco (Gregor Mackintosh antidolorifici – si era rotto una mano in tour – gli altri antidepressivi di varia gradazione); verità o meno, ha perfettamente senso per me. Host riflette l’umore di un depresso cronico sotto medicinali soggetti a prescrizione (in altre parole droghe socialmente accettate): spersonalizzato, annebbiato, schermato dalle insidie del quotidiano. Solo simulacri di emozioni, la vera essenza nascosta nei recessi della mente, da qualche parte molto sotto, per proteggersi da altra sofferenza. Non esattamente un bel sentire per chi ha pagato per ascoltare e non per farsi ascoltare da uno bravo.

In 13 pezzi per 53 minuti l’unico a rimanere in testa all’istante è Nothing sacred, il secondo; a voler essere indulgenti, dopo infiniti ascolti per trovare un senso, Behind the grey (che ruba il gancio di A Forest dei Cure senza vergogna alcuna), Permanent solution, il resto scivola via come sabbia tra le dita, annoia molto e infastidisce pure: i dischi costavano, il pensiero di avere bruciato 35.000 lire e mesi di aspettative per questa cosa qui faceva venire voglia di mettere mano alla pistola.

One Second era uscito a luglio ed era stato un successo, perché aveva i pezzi; non è questo il caso. L’estate vola via, ad autunno inoltrato il tentativo in extremis (e decisamente fuori tempo) di risollevare il disco dal dimenticatoio con un secondo singolo – il primo manco era stato distribuito in Italia: Permanent solution in una versione leggermente più lunga, di gran lunga migliore rispetto all’originale per scelta dei suoni, arrangiamenti, alternanza strofe-ritornello più lesta e accattivante. Nel video, di gran lusso, la malriposta speranza di lanciare Nick Holmes come uomo-immagine del gruppo, vendere i Paradise Lost come un progetto legato alla sua persona o chissà che altro. Non funzionerà, ovviamente: anche sbarbato, quell’anodino muso lungo è invendibile al grande pubblico, il mood generale troppo deprimente, e comunque il disco non ha i pezzi. Poi esce The Fragile e il paragone diventa semplicemente impietoso.

Host è comunque una pietra angolare, il vorrei ma non posso che fa collassare l’intero sistema: da allora in poi il metal tornerà a essere solo ed esclusivamente robaccia per ragazzini in età prepuberale che vogliono qualcosa da sparare ad alto volume per fare incazzare gli insegnanti e preoccupare i genitori, poi manco più quello. La EMI li manderà al macello con il successivo Believe in Nothing, più pezzi interessanti ma promozione inesistente, il disco non venderà e loro passeranno attraverso una boiata pura e semplice (Symbol of Life, 2002) per spurgare le tossine e mettersi poi a fare una pessima copia di quel che facevano prima in una serie di dischi intercambiabili che va avanti ancora oggi. Host rimane l’ultimo disco dei Paradise Lost, il 1999 l’anno zero del metal; un attimo prima della fine del millennio, un attimo prima della fine della storia. (Matteo Cortesi)

5 commenti

  • L’ultimo grande capolavoro dei Paradise Lost, un disco semplicemente fantastico che, dopo vent’anni, non mi sono ancora stancato di ascoltare in tutte le sue mille sfaccettature. Peccato non abbiano poi proseguito su questa strada, invece di ripiegarsi pian piano su se stessi. Per quel che mi riguarda il 1999 è davvero un anno limite per il metal, nel nuovo millennio ben pochi saranno i dischi capaci di innovare sul serio. I motivi possono essere tanti ma è così, poco da fare.

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  • Quello fu un periodo strano… di questo non ho grandi memorie, prudentemente me lo ero fatto doppiare in cassetta e adesso piglierà polvere in un cassetto. La boiata peggiore la tirarono fuoi i My Dying Bride con un disco assolutamente tremendo, molto meglio Tiamat, Anathema e Katatonia… anche se anche per loro il tempo di bollire alla fine è arrivato. Oggi sono tutti l’ombra di loro stessi.

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  • Il black album di quei quattro che non voglio nominare per pudore, è il punto di non ritorno, il noumeno che si pone come modello di ogni maldestro tentativo di rendersi mainstream. Però allora c’era anche l’underground, tutta una sotto-cultura fortemente ancorata ai rispettivi Paesi di appartenenza. Scene con caratteristiche proprie e difficilmente replicabili. E venivano fuori cose talvolta eccezionali. Internet ha appiattito, sino a ridurle a zero, le differenze di appartenenza delle scene musicali locali e nazionali. È cambiata la fruizione del metal, è aumentata a dismisura la velocità di consumo, da un lato. Dall’altro si è iniziato a imitare, a riprodurre, ad avvolgersi sulla sterile ripetizione del già detto. Non c’è stato un cambio generazionale delle grandi band perché nessuna band è più diventata grande. O almeno così grande. C’è un corollario però da aggiungere. L’enorme quantità di musica metal ascoltata in ogni luogo del Pianeta sta lentamente prendendo la forma di un’elaborazione che non è semplicemente la somma delle parti ‘studiate’. Negli ultimi anni il metal ascoltato su piattaforme streaming è aumentato del 4 o 500%. È il genere più in crescita da questo punto di vista. Nel prossimo lustro forse raccoglieremo qualcosa di veramente interessante. Vedremo.

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  • per me non è così terribile, ma a me la fase gay dei PL è sempre piaciuta.

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  • secondo me parli di canzoni, ma non sai apprezzare nemmeno una nota. Questo è un disco con le contropalle, c’è una produzione dietro che c’è da impallidire, il problema forse è stato puntare troppo sul fare ritornelli a raffica, mentre the fragile sperimentava loro sono rimasti incastrati nelle logiche pop. Disco enorme. Voto 90 su 100

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