Voglia di andarsene per boschi coi TAROT e i TONNERRE

Anche questa estate ce ne andiamo per boschi, mia moglie ed io. E pure la cagnolina. L’altr’anno, nel Casentino, abbiamo visto un daino adulto, a non più di dieci metri. Maestoso. Nel silenzio della foresta, un raggio di sole sul prato che stava mangiando. Ci voleva quasi Neige a musicarla, quella situazione. Ve lo dico io. Invece la cagnolina ha ringhiato, il daino ha sbuffato minaccioso in direzione nostra e poi si è allontanato in direzione opposta, scalciando. Epifania, comunque. Quest’anno ambizioni maggiori, si va dove ci stanno gli orsi e i lupi perché un’amica mia mi ha detto che li ha visti, i lupi lì, l’altr’anno. Speriamo che la cagnolina non faccia casino. Se va tutto bene, magari vi racconto. Intanto mi carico bene bene con le ultime due uscite Cruz Del Sur che paiono proprio a tema. Boschi, natura, creature selvagge. Milano ti odio. Cominciamo.

Dalla lontana Australia, terra che siamo soliti accomunare a rock stradaiolo, polveroso sì, ma romantico tornano a otto anni dal disco precedente questi TAROT, che in realtà paiono ben albionici e “vecchio mondo” in generale. Si posizionano in un filone retrò del suono tra prog e hard rock, nostalgico di Uriah Heep, Thin Lizzy, per certi versi Wishbone Ash. Più sogni che mazzate. Tanto suono di questo Glimpse of the Dawn ricorda (parecchio) i Pagan Altar di Mythical & Magical. Ovvero, la NWOBHM che da quel prog hard rock sognante deve di più. Così già a partire dalla splendida copertina di Lena Richter si entra in un mondo magico fatto di boschi al crepuscolo ed esseri mitologici (occhio però al grazioso coniglietto in basso a sinistra e a quello a destra). Funghi un po’ ovunque, nel sottobosco. Vi dico la verità, i Tarot, che lavorano parecchio di cesello con le chitarre e i contenuti apporti di tastiere che sanno di anni ’70, restano comunque nel territorio della canzone e non la sfaldano con la psichedelia più libera. Nemmeno è particolarmente cupo, o duro, il disco. Direi ombroso, questo sì. Di raggi di sole ne filtrano pochissimi tra le fronde. L’aria resta magica eppur tesa. Si tratta sicuramente di un disco buonissimo, per gli estimatori del genere. Sicuro un difetto ce lo si può trovare. Mancano quelle due o tre canzoni che svettano per melodie compiute e costruzioni ben fatte e sorprendenti. Insomma, i singoli, quelli che fanno la differenza tra un album buono, anche più che buono, ed uno memorabile per davvero. I dischi degli anni ’70, quelli che rimpiangiamo, erano pieni di singoli. Qua, in quella direzione, ci trovate The Winding Road, di cui è disponibile un lyric video, ma ancora di più Dreamer in the Dark (che vi dicevo?), con un tono melodico che qualcosa deve pure al culto dell’Ostrica Blu. Manca un po’ un cantato di carattere ed un taglio più affilato nella scrittura. Io forse speravo qualcosa di più, l’associazione della copertina e dell’etichetta discografica mi aveva fatto caricare le aspettative. Ma siamo nel campo di un artigianato anni ’70 di buon valore. Musica che in Scandinavia soprattutto custodiscono gelosamente. L’altr’anno un disco simile e forse un po’ più riuscito ce lo avevano proposto gli Hex A.D.. Anche gli albionici Wytch Hazel non sono distanti molto come scuola. O gli americani Tanith. Insomma, un filone circoscritto e già piuttosto affollato. Difficile che i Tarot svettino, ma di voglia di starmene in penombra nel sottobosco a cercare i coniglietti me ne fanno venire parecchia.

Canadesi e francofoni invece i TONNERRE, esordienti ma con dentro gente dei Cauchemar, specie la cantante Annick Giroux. Questo nuovo disco si piazza programmaticamente fuori dall’heavy retrò e dentro un mondo fatto di hard rock secco, asciutto, boschivo o per lo meno agricolo e, sì, anche questo, immancabilmente retrò. Vi dico la verità, i Tonnerre mi piacciono anche più degli stessi Cauchemar. La Nuit Sauvage si presenta con boschi, fulmini e lupi ululanti in copertina. Che bello, sembra l’estate dei miei sogni. La musica, come nel caso dei Tarot, sembra infischiarsene di tutto quello che è successo dal primo gennaio 1980 in poi. Ma il tono è diversissimo. Qui di prog direi che non c’è nulla e invece le strutture delle ritmiche, dei riff, devono tantissimo, guarda un po’, proprio a quegli australiani degli AC/DC. Restassimo in canadà, più che ai Rush guarderemmo a Frank Marino & Mahagony Rush. Ma manco tanto. La realtà è che i Tonnerre hanno un loro carattere piuttosto peculiare. Dicevo: concretezza ritmica figlia di Young & Scott, ma umbratilità che sa di felci e cortecce e vita naturale, selvaggia, non di motori e asfalto. Il tono di Annick si presta qui anche a dare forma a canzoni melodiche, rotonde e quasi glam pop che sono piccole chicche. La Brunante è esemplare. Pure Les Flambeaux du Ciel. Fossero più giocose tirerei in ballo i capitolini Giuda (che stanno registrando il nuovo album ed era ora) e tutto il loro universo bovver rock festaiolo e stradaiolo. Voi non vi spaventate, uscite dall’asfalto e tuffatevi nel bosco. Poche feste ma riff hard quanti se ne vuole. Mouches à Feu e e L’Esprit de la Forêt sono quello che cercate da un disco di rock duro ed isolazionista. Fisso ai ’70 per suono e moda ed orgogliosamente fuori dalla civiltà. Anche da quella elegante, educata e romantica del prog. Qui il ritmo è sempre ben presente in fondo. Il suono è chitarra, le melodie sono cantabili. Non vi piace il francese o la voce femminile? Peccato. Io questo disco lo sto apprezzando tantissimo, davvero tanto. Sembra quasi che qualcuno mi avesse chiesto prima come avrei voluto il disco per accompagnarmi la vacanza. Avrei detto più o meno questi elementi qui, birra, rock’n’roll un po’ hard, odore di vegetazione, qualche animale selvaggio che fa capolino pur facendosi i cazzi suoi, che fa bene a non fidarsi dell’uomo. (Lorenzo Centini)

Lascia un commento