Avere vent’anni: DEFTONES – White Pony

Sospeso tra frammenti, immagini e associazioni mentali libere, White Pony riesce a significare tutto senza dire realmente nulla in maniera esplicita. La sua essenza è sfuggente e il suo senso invisibile. È un’allusione a qualcosa che vuole rimanere nascosto, un suggerimento da cogliere, un sottinteso che deve essere interpretato. Una riflessione esplicita sui suoi meccanismi e significati rischia di avere come unico approdo una banalizzazione del contenuto. La sua lirica criptica e indecifrabile, unita alla tensione continua che lo percorre, lo rendono un oggetto comprensibile solo al di sotto del livello della coscienza, con significati che immagino siano innumerevoli a seconda di chi lo ascolta.
“Un disco che tocca le corde profonde dell’anima”, dissi (senza neanche vergognarmi) ad un mio amico con il quale ne stavamo discutendo.
Se proprio devo provare a cercarne le ragioni in posti che non siano la mia testa, direi che il nocciolo della sua emotività è tutta all’interno della sua intensa dualità e delle sue atmosfere. È un disco a tratti notturno e rilassante, ma proprio nei suoi momenti più romantici dà la sensazione costante che qualcosa di destabilizzante stia sul punto di accadere, che le cose stiano per degenerare.
Un romanzo Harmony con la trama da film horror. O forse il contrario.Una doppiezza che le cronache dell’epoca riportavano come esito di una gestazione resa difficoltosa dalla contrapposizione fra Chino Moreno e Steph Carpenter. Da una parte il cantante che decideva di abbracciare appieno la sua vena new romantic e spingeva per integrare elementi esterni nel suono complessivo (elettronica, rumorini ambient, ecc) e dall’altro lato il chitarrista che voleva tutto fosse estremamente rumoroso e a palla (bellissime le foto in sala prove in cui il suo ampli era posto strategicamente sotto un posterino dei Maiden). Questo tipo di frizioni in genere danno come risultato il classico album di transizione, in questo caso però la band sembra già arrivata al suo approdo finale. L’esito di questo mutamento inaspettato è una maturità accelerata quanto insospettabile.
White Pony è l’affermazione della propria individualità, il distacco da qualsivoglia cliché diviene una sobrietà che si manifesta fin dalla enigmatica copertina. Il 2000 fissa il sound dei Deftones una volta per tutte; tutti i dischi successivi, che siano più o meno riusciti, saranno sempre e solo una variazione sul tema. La distanza che l’album segna con i gruppi ai quali erano generalmente associati diviene di colpo incolmabile, tanto che oggi gli accostamenti a gente tipo i Korn suonano più come un insulto che un paragone. Colonna sonora esclusiva di un viaggio estivo irripetibile, quei primi mesi di ascolti compulsivi ebbero come acme assoluto il concerto di Bologna dei primi di settembre. I Deftones presero il palco mentre il sole calava e il vento gonfiava il telone rosso alle loro spalle. Pochi minuti prima che iniziassero finsi di perdermi nella folla (grande trucchetto che ogni tanto ancora utilizzo) perché me lo volevo godere da solo senza commenti o cazzate che rischiassero di violare quella che ritenevo dovesse essere un’esperienza in qualche misura privata.
Negli anni a seguire il mio culto personale dell’album si accrebbe, arrivando ad ottenere uno status inarrivabile.
Nel tempo ci ho letto molte cose, suggestioni che la sua ineffabilità rende teorie del tutto discutibili. L’ho utilizzato come lente per rileggere i miei eventi personali dell’epoca, giungendo addirittura ad attribuirgli il valore di una sospensione del tempo in preparazione ad eventi successivi. Sono arrivato a conferirgli carattere rivelatorio, quasi fosse un’intuizione che può essere compresa solo a posteriori. Quello che reputavo qualcosa di simile ad una profezia è divenuto oggi un rifugio, una pillola che in qualche modo mi tranquillizza. Mi dice che alla fine è tutto a posto. E in caso non fosse così mi ricorda che le cose accadono, le situazioni possono cambiare e generalmente ad un certo punto lo fanno. In venti anni di ascolti mi ha accompagnato in maniera costante attraverso tutto quello che c’è stato. Una premonizione, il mio personale panta rei made in California.
Disco della vita, forse proprio il mio album preferito in assoluto, o giù di lì. (Stefano Greco)
È l’ unico CD dei nostri che ho comprato perché mi aspettavo un paio di Adidas in omaggio ! Scherzo, disco bellissimo.
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Io c’ero a quel concerto, il mio primo a 16 anni.
Che spettacolo i sassi che volarono sui Blink182.
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come paragone un insulto ai Korn infatti
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Sicuramente un grandissimo disco. Alla faccia ditutti quelli che il nu-metal è tutta merda. I Deftones vanno oltre.
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Nella mia memoria The white pony si porta appresso il rimpanto per la fine di qualcosa (forse dell’adolescenza o forse di una scena musicale intera), e la consapevolezza dolorosa che non potrà più tornare o essere superato né dai sui autori né da chiunque altro, perlomeno non su quello stesso campo da gioco.
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A parte il discorso sul paragone con i korn, perchè mi piacciono sia i korn che i defton, sono d’accordo su tutto. Disco immenso.
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Grande album, e grande band. E’ proprio il contrasto tra l’anima Metal di Carpenter e quella più new wave/elettronica di Chino che a mio avviso ha reso il loro sound un qualcosa di unico.
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