Avere vent’anni: gennaio 2000

MÜTIILATION – Remains of a Ruined, Dead, Cursed Soul

Trainspotting: A cavallo tra i due secoli ci fu un’interessantissima recrudescenza del black metal primordiale, provocata anche dalla fine del ciclo creativo dei maestri scandinavi. Uno dei fenomeni più affascinanti furono le Legiones Noires, un circolo di gruppi francesi tra cui spiccavano su tutti i leggendari Mütiilation, autori di due capolavori assoluti come il maestoso debutto Vampires of Black Imperial Blood e questo in oggetto. Da sempre c’è dibattito su quale tra i due sia il migliore, ma io preferisco proprio Remains, secondo me più riuscito da tutti i punti di vista. Musicalmente non c’è niente di troppo intricato da dire: un perfetto incrocio tra Burzum e Darkthrone, con la registrazione più amatoriale possibile, una batteria quasi costantemente fuori tempo e un senso di raggelamento che pervade ogni riff e ogni urlo lancinante di Meyhna’ch. Un pezzo come Possessed and Immortal fa venire la pelle d’oca, Through the Funeral Maelstrom of Evil è un viaggio cosmico, e The Fear that Freeze mette paura. Ma qui dentro si raggiungono altissime vette di Sublime, difficili da comprendere per chi non ha vissuto quel periodo in cui da tutta Europa giravano vorticosamente demo, cassettine e cd autoprodotti con copertina fotocopiata, suonati e registrati con strumenti di fortuna e con un’attitudine che in quegli anni riusciva ancora ad essere sincera. Remains of a Ruined, Dead, Cursed Soul è IL black metal, un monumento maledetto che servirà nei secoli dei secoli a ricordare all’umanità quali sensazioni possa riuscire a dare questa musica che dischi come questo hanno reso immortale.

DISMEMBER – Hate Campaign

Ciccio Russo: Perso per strada Richard Cabeza, trasferitosi in Texas dopo aver sposato un’americana, e reclutato alle quattro corde l’allora ubiquo Sharlee D’Angelo, i Dismember se ne uscirono con uno dei loro album meno incisivi di sempre, complice l’ostinazione del batterista Fred Etsby nel volersi produrre i dischi da solo, suscitando improbi paragoni con il suono che usciva dai Sunlight Studios. Rimasti gli unici esponenti della vecchia scuola svedese a non aver cambiato genere (Grave e Unleashed si erano presi una lunga pausa), Matti Karki e compagni si erano forse un po’ adagiati sul ruolo di depositari del verbo primigenio di Stoccolma in quello che fu un periodo non proprio positivo per il death metal. All’epoca fu una delusione pazzesca (ma per me lo fu anche il tanto celebrato Death Metal in confronto al quel monumento di Massive Killing Capacity): pilota automatico e manco un pezzo davvero memorabile. Riascoltato oggi, dopo avere nel frattempo speso parole indulgenti per decine di gruppi clone grossomodo analoghi, Hate Campaign può meritare un orecchio più benevolo. Ma solo fino a un certo punto. 

THE GATHERING – Superheat

Trainspotting: Nel 2000, pochi mesi dopo il live album in oggetto, i The Gathering avrebbero fatto uscire If_Then_Else, intraprendendo così il sentiero dell’hipsterismo e delle sperimentazioni ad mentulam canis con bizzarri strumenti esotici. Tuttavia non diventarono mai davvero un gruppo di merda, e dunque Anneke sentì il bisogno di correre ai ripari mollando i compagni per andare a spalare il letame delle porcilaie olandesi e compattarlo diligentemente in forma di dischetti ottici con il proprio nome stampato sopra. Ma ai tempi di Superheat tutto questo non c’era ancora: ai tempi di Superheat i The Gathering erano uno dei migliori gruppi della Terra e non c’era alcun motivo per non pensare che Anneke van Giersbergen fosse la Madonna rediviva, a parte quei cazzo di capelli rasta. Questo live album rappresenta l’ultimo capitolo della fase migliore dei The Gathering, un ultimo sguardo all’indietro verso quei tre dischi fenomenali che rispondono al nome di Mandylion, Nighttime Birds e How to Measure a Planet?. La scaletta è pesantemente sbilanciata sull’ultimo dei tre, con una peraltro non ottima scelta dei pezzi, cosa che peraltro ha sempre pesato sui concerti dei The Gathering. Però la chiusura con Sand and Mercury è pura poesia, che da sola vale il prezzo della giostra.

ACKERCOKE – Rape of the Bastard Nazarene

Trainspotting: Gli Ackercoke sono un caso da studiare: hanno sempre fatto schifo al cazzo, ma non gli sono mai mancati gli estimatori. Capisco che i londinesi abbiano sempre molto puntato sull’immagine, specie all’inizio, presentandosi vestiti come se dovessero presentarsi al royal wedding di Edoardo VII nel 1863 (anche sul palco) e contemporaneamente mettendo tette e culi ovunque, ma il seguito che hanno non può spiegarsi solo per queste contingenze. E per cosa, allora? Mistero. Rape of the Bastard Nazarene è il debutto, e non saprei dire se migliore o peggiore degli altri perché il livello è troppo basso per mettersi a questionare. Sono un gruppo fondamentalmente death metal che si comporta come se suonasse black metal, con tutto il carico di cianfrusaglie avantgarde che qui è totalmente fuori contesto. Il disco è registrato malissimo, con cadute di tono clamorose come nel caso degli assoli, che oltre a essere orribili suonano come i pernacchioni fatti con le ascelle; in certi momenti invece sembra un incrocio tra Tool, Marilyn Manson e Cradle of Filth, o quantomeno un incrocio tra la caricatura degli stessi. Il cantante poi ha questo growl basso dal timbro abbastanza standard, ma quando canta in pulito sforzandosi per essere epico ed enfatico sembra una versione svantaggiata dei Primordial rimediata al mercatino dell’usato degli zingari sotto al ponte di viale Marconi. È veramente tutto tremendo e inspiegabile, e io mi rendo conto di non riuscire a esprimere bene quanto schifo faccia ‘sto disco. Concludo ricordando la loro risposta quando gli chiedevano del perché andassero vestiti come Oscar Giannino: “perché se ci vestissimo in modo normale non ci accetterebbero nei circoli satanisti”. Ora io so già che ci sarà qualcuno che commenterà dicendo che non capisco niente, che questi spaccano tutto e sono un gruppo della madonna etc. Tutto normale: il mistero degli Akercocke è destinato a continuare.

RAGNAROK – Diabolical Age

Michele Romani: I Ragnarok sono da sempre considerati come un gruppo di seconda fascia all’interno della scena black norvegese della seconda metà degli anni ’90. Un’entità che, assieme a illustri colleghi come Gehenna, Obtained Enslavement, Perished, Isvind, Helheim ecc. ecc., pur avendo sempre tirato fuori ottimi lavori non è mai riuscito a raggiungere lo status di gruppi ben più noti. Diabolical Age è il disco che in qualche modo conclude la prima parte di carriera dei Ragnarok, sia perché è l’ultimo registrato con la storica formazione Thyme – Rym – Jonto – Jerv (R.I.P.) e soprattutto perché è l’ultimo a mantenere quel suono cupo e atmosferico tipico del primo periodo, visto che da qui in avanti opteranno per sonorità decisamente più violente e brutali. Da questo punto di vista il disco in questione rappresenta una sorta di ponte tra queste due anime dei Ragnarok, alternando momenti di una violenza inaudita (l’attacco di It’s War è una delle cose più devastanti che abbia mai sentito) a parti più riflessive e tastieristiche che riportano un po’ alla mente Arising Realm, che per molti (me compreso) è considerato il punto più alto mai raggiunto dalla band di Sarpsborg. È innegabile come, andando avanti con l’ascolto, la magia e l’oscurità dei primi due lavori sia andata un po’ perduta, anche se, beninteso, Diabolical Age rimane comunque un disco ben suonato e con alcuni picchi notevoli (Devastated Christ ad esempio), ideale per chiunque voglia ascoltare del sano black metal norvegese vecchia scuola.

INTO ETERNITY – st

Trainspotting: Gli Into Eternity sono un gruppo canadese abbastanza peculiare che è noto ai più soprattutto per aver gentilmente fornito agli Iced Earth il sostituto di Matt Barlow, Stu Block. Peculiare, dicevamo, perché da sempre autore di un tentativo di sintesi tra un roccioso powerthrash americano e un prog metal in stile Crimson Glory: quest’ultimo elemento a volte è più presente, altre meno. In codesto debutto omonimo lo è bastantemente, e aiuta a dare una cifra personale alla band del chitarrista Tim Roth (giuro), unico membro rimasto dall’epoca e qui presente anche come cantante. Che l’omonimo di mr. Orange si sia sentito poi obbligato a trovarsi un cantante decente spiega parecchio delle sue capacità vocali, anche se il suo vocino accennato in qualche modo aggiunge fascino ad un album già di suo abbastanza amatoriale, così come era successo anche per i primi Iced Earth quando Jon Schaffer abbaiava nel microfono. Into Eternity soffre casomai di una certa confusione d’idee, specie quando non riesce a dosare alla perfezione parti più melodiche e parti più estreme. Ma è comunque un piccolo gioiellino di un gruppo colpevolmente poco considerato.

CRYPTIC WINTERMOON – The Age of Cataclysm

Trainspotting: Autori di quattro album nel primo decennio del 2000, i Cryptic Wintermoon rappresentano perfettamente tutta quella schiera di gruppi che si dilettavano col black metal melodico, giocando con evocativi giri di tastiere, ritmi non troppo veloci e melodie al limite del gotico. Questo quantomeno vale per il loro debutto, The Age of Cataclysm, anche perché il secondo era già meno affascinante e, ahimè, gli altri due non li ho sentiti. Questo in esame è comunque un disco piuttosto riuscito, in cui i bavaresi riescono a combinare bene tutti gli elementi della formula suddetta senza mai scadere nel pagliaccesco tipico di certi dischi di fine anni Novanta. Si sentono forti echi dei Naglfar e più sporadicamente dei Dissection, questi ultimi soprattutto per quanto riguarda arpeggi e linee di chitarra solista. Cose come When Daylight Dies e Gods of Fire and Ice, tra le più melodiche del lotto, le ho ancora stampate in testa dopo vent’anni, e Blood of the Dragon ha un riff spettacolare. Non è un capolavoro, The Age of Cataclysm, ma dischi come questo erano la linfa di un genere musicale che purtroppo, all’apparir del vero, una volta persa l’innocenza, è finito malissimo. Anche per questo ho sempre avuto il timore di ascoltare i loro ultimi due album.

DARK MOOR – Shadowland

Trainspotting: I madrileni Dark Moor erano un gruppo-clone dei Rhapsody il cui secondo album The Hall of the Olden Dreams riscosse un discreto successo tra gli appassionati del genere. Shadowland è il debutto, ed è sempre rimasto piuttosto in ombra rispetto ai suoi successori: dal suono troppo amatoriale e dallo stile ancora troppo incerto per fare davvero breccia. C’era già Elisa Martìn dietro al microfono, segno distintivo dei primi lavori della band, nel bene e nel male: buona estensione ma poca personalità e qualche sfondone tecnico, e già all’epoca ci si chiedeva se fosse stata scelta perché effettivamente apprezzata oppure per mancanza di alternative maschili che riuscissero ad arrivare così in alto con la voce. E insomma Shadowland non è malaccio, sempre che vi piaccia il genere power metal da cartone animato con doppio pedale a elicottero e chitarre che servono solo a fare bilubilubilubilu negli assoli; se così non è girate alla larga e dimenticatevi dei Dark Moor, perché ascoltare anche solo cinque minuti di ‘sta roba potrebbe farvi esplodere qualche organo interno.

EXPLOSIONS IN THE SKY – How Strange, Innocence

Ciccio Russo: Con l’arrivo del nuovo millennio il post rock diventa mainstream. Se non scrivi dischi solo strumentali, non sei più nessuno. Si crea un canone, che di lì a poco avrebbe contagiato anche il metal (il primo ep dei Pelican è del 2001). La seconda ondata rende meno ostiche le intuizioni dei capostipiti (dai Mogwai ai Godspeed You! Black Emperor, gruppi troppo personali per essere replicati davvero) recuperando lo shoegaze e la cara vecchia psichedelia. È anche alle jam infinite di tanti vecchi adepti di Timothy Leary che guarda il debutto dei texani Explosions In The Sky, un approccio passatista che un po’ è necessità fatta virtù. In un circuito dove i chitarristi girano con valigie stracolme di pedali e l’effettistica ha un ruolo preponderante, How Strange, Innocence viene registrato in due giorni con una strumentazione minimale per poi essere pubblicato in forma di cd masterizzato limitato a 300 copie. L’eco nello storicamente fiorente underground di Austin fu però sufficiente perché la Temporary Residence si accorgesse di loro e li lanciasse nell’Olimpo del genere, dove da allora continuano a volteggiare imperterriti. In occasione del ventennale è uscita un’edizione rimasterizzata ed è superfluo dirvi che non ha lo stesso fascino dell’originale. 

FLOWING TEARS & WITHERED FLOWERS – Swallow EP

Trainspotting: In dieci anni di Metal Skunk non abbiamo mai parlato dei Flowing Tears, tranne per il fatto che due dei loro membri hanno poi fondato i Powerwolf. Qui si chiamavano ancora Flowing Tears & Withered Flowers, denominazione con cui nei ’90 fecero uscire due album e un EP, appunto questo Swallow, prima di cambiare nome. Facevano un gothic metal leggerino, molto liscio e senza troppi fronzoli, privo di barocchismi e piuttosto distante dall’immaginario di pizzi e merletti vagamente vampireschi di Theatre of Tragedy e compagnia gorgheggiante. La voce di Stephanie Duchene è piatta e flebile, ma in qualche modo si adatta benissimo all’attitudine low profile della band tedesca. Swallow ha solo un pezzo originale, l’eponima; dopodiché troviamo un rifacimento di Love Will Tear us Apart e due canzoni dal precedente album Joy Parade. Non sarebbe dunque un’uscita di cui valga la pena parlare (per quanto il suddetto unico pezzo originale sia caruccio), ma i Flowing Tears meritavano quantomeno una menzione su queste pagine.

LULLACRY – Sweet Desire

Trainspotting: I Lullacry erano una specie di mio gruppo-feticcio di cui apprezzo soprattutto il più tardo Crucify my Heart, uscito nel 2003 quando quel tipo di roba finlandese rockeggiante e pseudoromantica andava di gran moda. Come detto per gli HIM, però, anche i Lullacry hanno avuto un inizio di carriera concettualmente più dignitoso, a causa soprattutto della prima cantante, Tanja Lainio, una camionista che non aveva nulla a che vedere con la più melliflua Tanya Kamppainen, che la sostituirà a partire proprio da Crucify my Heart. Sarà peraltro l’unico cambio di formazione nella storia del gruppo, che dal 1999 al 2014 (anno dello scioglimento) sarebbe rimasto sempre con gli stessi membri. Questo Sweet Desire è il debutto della band di Helsinki, e si compone di canzoncine facili e melodiche con un vago retrogusto stradaiolo, ma che – soprattutto grazie all’attitudine birra&salsicce della cantante – riesce a non degenerare in qualcosa di cui ci si debba vergognare. O quantomeno non troppo. È comunque un ottimo compromesso quando vi ritrovate qualche stronzo in macchina che vi chiede di ascoltare Virgin Radio e voi proprio non ve la sentite di fargli subire i Mortician.

KAWIR – Epoptia

Trainspotting: Gruppo greco fino a poco fa fondamentalmente sconosciuto e che solo negli ultimi anni ha raggiunto una seppur minima notorietà, i Kawir sono venuti fuori dall’humus di personaggi che frequentavano il locale gestito ad Atene dai Rotting Christ e che stavano a questi ultimi come i membri dell’Inner Circle stavano ad Euronymous. Pur se con il tempo hanno cambiato genere, diventando sempre più imbarazzantemente simili alla band dei fratelli Tolis, in Epoptia i Kawir hanno molto più a che spartire con il classico black scandinavo piuttosto che con quello greco, tradizionalmente dalle atmosfere più calde e occulte. Il risultato non è esaltante, un po’ perché mancano le idee, un po’ perché manca la personalità e un po’ perché mancano proprio i pezzi. Ci sono episodi più folk come in Zeus e robe più sperimentali e industriali in stile Necromantia come in Empousa, ma arrivare in fondo al disco è piuttosto faticoso.

SPIRAL ARCHITECT – A Sceptic’s Universe

Marco Belardi: Il nome del gruppo mi ricordava la fine di Sabbath Bloody Sabbath, e quello del disco, non so perché, lo ricollegai agli Agent Steel a causa di una sola parola in comune. L’album era ideologicamente già mio, quando lessi dell’arrivo di A Sceptic’s Universe dei norvegesi Spiral Architect. In realtà si trattava di una buonissima pastura per carpe con dentro la stessa roba cervellotica di cui ho parlato nell’articolo sul techno-thrash, e nello specifico conteneva più Sieges Even e Psychotic Waltz che Watchtower; e in aggiunta i Cynic. Di questi ultimi mi accorgo più oggi che al primo ascolto di vent’anni fa. Diciamo che la base apparteneva ai primi, mentre l’atmosfera, i connotati, il carattere erano tutti quanti ricollegabili al gruppo di Masvidal. A far pendere il piatto della bilancia dalla parte dei Cynic c’era inoltre questo basso, a dir poco dominante, che faceva un po’ quello che gli pareva. La scaletta era priva di una qualsiasi parvenza di sovrabbondanza di materiale, e perfettamente prodotta da Neil Kernon nel miglior momento della sua carriera entro territori strettamente metallari: nello stesso anno avrebbe lavorato anche con i nostri Labyrinth e Death SS, per poi diventare di lì a poco uno dei produttori più attivi in ambito death metal. Che tu pensassi a Sean Malone (ospite su Occam’s Razor al chapman stick) o a chiunque altro avesse svolto un lavoro tale – in panorama metal – da far eruttare paragoni e aggettivi impropri come quelli che sentimmo per merito e colpa di Focus, con A Sceptic’s Universe avresti ascoltato un ottimo album prog metal con l’accento perennemente posto sulle linee di basso di Lars Norberg. E saresti stato disattento nel perderti un album del genere, anche se, a dirla tutta, proprio per come suona e per la produzione asciutta (tipica più dei primissimi Novanta che dell’anno in cui fu pubblicato), adesso A Sceptic’s Universe mi suona godibile come mai prima d’ora. Certamente c’entra il bombardamento da suoni pompati e fasulli a cui il nuovo millennio ci ha abituato, e risentire adesso una produzione così attenta a valorizzare gli arrangiamenti di ogni singolo strumento mi ha fatto soltanto piacere.

HORNA – Haudankylmyyden Mailla

Trainspotting: Un’intro di rumori ambientali ci introduce a questo impronunciabile secondo album degli Horna, gruppo finlandese che gode di enorme fama tra gli appassionati del black metal underground stupramadonne. La loro fama è ampiamente meritata, anche solo per essere riusciti a mantenere un livello sempre più che dignitoso anche a fronte delle loro 17846739647906 uscite discografiche in poco più di vent’anni. Haudankylmyyden Mailla è uno degli episodi migliori della loro carriera: dodici pezzi (tra canzoni effettive e non), un’ora abbondante di durata e una grande varietà interna. Gli Horna riescono infatti a non ripetersi, o quantomeno non ripetersi troppo, pur suonando un black metal primordiale e totalmente devoto ai Darkthrone del trittico mortale A Blaze in the Northern Sky / Under a Funeral Moon / Transilvanian Hunger. Detta capacità di spaziare all’interno di paletti molto ristretti ha permesso loro di essere così prolifici senza annoiare, ed è questo il motivo principale per cui rimangono tuttora un nome di culto nella scena black.

CHROMING ROSE – Insight

Trainspotting: Quando si parla di gruppi sottovalutati non si può non sbattere la testa contro uno spigolo vivo ricordando l’ingiustizia subita dai Chroming Rose, che avrebbero meritato di esibirsi in stadi pieni di fronte a platee adoranti con le ragazzine che piangono e strillano e tirano i reggiseni sul palco. Autori di cinque dischi negli anni Novanta, e partiti dal power metal di gran classe del debutto Louis XIV, i quattro bavaresi hanno via via alleggerito il proprio suono fino ad arrivare ad Insight, loro canto del cigno, composto fondamentalmente di ballate a metà tra un raffinatissimo hard rock classico vagamente blueseggiante e una certa scena americana anni ’90, con molti dettagli che a me ricordano parecchio i vecchi Blind Melon. Dieci pezzi che vanno mandati a memoria e cantati sotto la doccia, suonati con gusto sopraffino e sublimati dalla voce strepitosa di Tom Reiners, loro secondo cantante nonché unico membro della band a subentrare in una formazione che per il resto era rimasta sempre la stessa sin dalla fine degli anni Ottanta. Chiunque voi siate, qualunque musica ascoltiate, vi consiglio vivamente di approfondire i Chroming Rose e vi sfido a non affermare che questo è uno dei gruppi più sottovalutati mai esistiti.

CLANDESTINE BLAZE – Fire Burns in our Hearts

Trainspotting: Conobbi la creatura di Mikko Aspa molti anni fa, quando era considerata un nome di culto che i fanatici di black metal si passavano sottoforma di copie masterizzate e che, insieme ad altri gruppi similari, simboleggiava più di tutti l’underground. Le cose hanno cominciato a cambiare quando lo stesso Aspa è andato a cantare nei Deathspell Omega a partire dal bellissimo Si Monvmentvm Reqvires, Circvmspice – collaborazione che continua anche oggi. I Clandestine Blaze non sono mai stati una mia passione, a dirla tutta, ma in passato sono riusciti a creare cose anche molto carine; non è purtroppo il caso del debutto Fire Burns in our Hearts, quaranta minuti scarsi di casino difficilmente intellegibile che sembra più un demo mal registrato che un disco vero e proprio. Qui e lì si intuiscono spunti interessanti, come nelle parti di chitarra di Native Resistance, ma è davvero poca cosa. Facciamo che ne riparliamo il prossimo giugno, quando cadrà il ventennale del secondo album Night of the Unholy Flames.

ENOCHIAN CRESCENT – Omega Telocvovim

Michele Romani: Gli Enochian Crescent sono sempre stati un gruppo piuttosto schizzato, così come parecchio schizzato è sempre stato il cantante e membro fondatore Janne “Dark Wrath” Kuru, uno col vizio di portarsi un paio di forbici sul palco e tagliuzzarsi da tutte le parti. Celebre fu a questo proposito l’episodio che lo vide protagonista al Tavastia (un noto locale di Helsinki) nel 1997 di supporto agli Emperor, quando il tizio in questione, dopo aver un po’ sgravato nello sfregiarsi il corpo, fu portato all’ospedale quasi completamente dissanguato, con la conseguenza che il concerto di Ihsahn e compagnia venne ritardato di quasi due ore per colpa del lago di sangue creatosi sul palco. Sul piano musicale la band finlandese viene inserita storicamente nel calderone black metal, anche se in realtà il suono proposto (almeno su questo disco) se ne distanzia parecchio, inglobando influenze che vanno dal death al gothic, con darkwave, retaggi black e chi più ne ha più ne metta, insomma un guazzabuglio con poco senso logico; il tutto condito dalle urla disperate del cantante in questione. Qualche spunto interessante qua e là si trova (la conclusiva Grey Skin devo dire che è notevolissima), ma in generale per quanto mi riguarda è un lavoro di cui si può tranquillamente fare a meno.

LORD BELIAL – Unholy Crusade

Trainspotting: La parabola dei Lord Belial è emblematica del black melodico svedese. Partiti con la doppietta micidiale di Kiss the Goat e soprattutto Enter the Moonlight Gate, che ho letteralmente consumato da ragazzino, a partire dal terzo Unholy Crusade appesantiscono il proprio suono eliminando le parti più melodiche ed evocative per concentrarsi sull’assalto all’arma bianca e avvicinandosi così sempre più ad un approccio death metal. Il problema è che erano proprio quei lati melodici ed evocativi a rendere i Lord Belial un gruppo unico, con la conseguenza che tutto il resto della discografia, proprio a partire dal presente Unholy Crusade, diventa ampiamente trascurabile. Ad essere sinceri questo in oggetto è un disco di transizione, nel quale qui e lì (come ad esempio in Death is the Gate o Divide et Impera) si ritrovano alcuni stilemi degli album precedenti, ma si tratta più di interventi marginali, decontestualizzati e ficcati a forza in una struttura che guarda da tutt’altra parte. Peccato, muerti loro, perché promettevano benissimo.

MYSTIC CIRCLE – Infernal Satanic Verses

Trainspotting: I Mystic Circle furono la mia prima intervista in assoluto sul Metal Shock cartaceo, in occasione di The Great Beast, il disco successivo a questo. Mi capitò tra capo e collo: ero entrato da pochi giorni e un “collega” mi chiamò dicendomi che aveva avuto un contrattempo e non poteva intervistare ‘sti bestioni tedeschi, quindi se perfavore lo potevo fare io. Avevo 20 anni e, complice l’esaltazione per tutto il contesto, i Mystic Circle mi presero bene. Non penso di averli mai più ascoltati, o più probabilmente l’ho fatto e me ne sono del tutto dimenticato; questo spiega parecchio della qualità di ‘sto gruppaccio, che in Infernal Satanic Verses era dedito ad un mezzo plagio di Cradle of Filth ed Abigor dei poveri, con addirittura gli inserti di voce femminile di Sarah Jezebel Deva, giusto per non rischiare di dare l’impressione di essere capaci di fare una cosa originale. Ora rispalanchiamo il dimenticatoio, rificchiamoceli dentro e cerchiamo di non aprirlo mai più.

RINGNEVOND – Nattverd

Trainspotting: Al momento di compilare l’elenco di dischi usciti nel gennaio 2000 per mostrarlo agli altri tizi di Metal Skunk mi è cascato l’occhio su questo Nattverd, il cui nome grim & frostbitten ha stuzzicato la mia curiosità – e mi ha fatto sperare che stuzzicasse anche la curiosità di Mighi Romani, solitamente molto attento a questo genere di cose. Lui però non si è offerto volontario per recensirlo, quindi alla fine sono finito a scriverne personalmente. Questo è l’unico disco mai composto dai Ringnevond, gruppo estemporaneo formato da personaggi coinvolti anche in altre band norvegesi: dunque, dopo appena il tempo di fare uscire Nattverd e di posare per qualche foto a torso nudo nella foresta, i quattro si sono separati. Ciò che ci rimane è un interessantissimo dischetto di avantgarde black metal abbastanza devoto ai primi Arcturus di Aspera Hiems Symfonia e che riecheggia un po’ i Limbonic Art quando questi ultimi riecheggiavano gli Emperor. Il risultato è ambiguo: si vede che qui dentro sono state buttate un po’ alla rinfusa varie idee che frullavano loro per la testa, e che spesso certe cose sono rimaste abbozzate. Però è una delle cose in stile Arcturus migliori che abbia mai ascoltato, e in ambito black sinfonico è incomparabilmente migliore delle cacate che i Dimmu Borgir avevano già iniziato a evacuare in serie; consiglio dunque vivamente l’ascolto a tutti coloro che possano essere interessati. Ah, e pare peraltro che Nattverd sia stato composto tra il 1993 e il 1994: se fosse vero, ciò aggiungerebbe molto valore all’album.

3 commenti

  • Gli Ackercocke… ti capisco barg, ne sentivo parlare un gran bene e li ho ascoltati un sacco cercando di farmeli piacere, ma senza mai riuscirci veramente.
    Il loro successo resterà uno dei misteri che ti tormenta, come gli Epica e Kongdogbia all’Inter.

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  • grandissimi gli Enochian Crescent! Ricordo che erano veramente strani e li seguiI abbastanza per un paio di loro dischi. Ottimi gli Horna, che insieme agli Azaghal erano il mio pane quotidiano, mentre ho sempre ritenuto le Black Legions un fenomeno da baraccone, all’epoca ero più interessato dalla robba che arriva dall’Est Europa.

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  • pur essendo classificato tra gli album minori, hate campaign dei dismember resta un ottimo album, ma confesso che sono un loro adepto e non trovo letteralmente nulla di brutto nella loro discografia.
    into eternity: band da riscoprire, piagata da sventure, lutti, formazioni traballanti e quant’altro. l’ultimo sirens è un altro lavoro validissimo, peccato per il sound poco più che da demo.
    ackercocke buoni come fertilizzante, come pure i panda francesi.

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