Avere vent’anni: giugno 1996

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ARCTURUS – Aspera Hiems Symfonia

Charles: Aspera Hiems Symfonia è uno snodo temporale per tutto il black metal successivo. L’ammorbidimento del canovaccio standard, l’apertura decisa verso la sinfonia classica e la melodia. Aspera, appunto, le asperità concettuali, l’ossimoro, la contraddizione in termini. Questo è uno dei proverbiali dieci dischi da portarsi nella tomba non solo per l’incontestabile apocalittica bellezza nera in esso ma soprattutto perché è termine di paragone per le future, nonché presenti dell’epoca, generazioni di blackster che lo prenderanno a riferimento e che con esso si misureranno per fallire nell’intento. Sempre, o quasi. Ciò che apprezzo di più di questa rubrica è che ti impone di rileggere il passato con gli occhi del presente, di assistere allo spettacolo dell’evoluzione col tuo metro di paragone e la consapevolezza odierni e di fissarne le regole prime. Evidentemente, senza un In the Nightside Eclipse non avremmo mai avuto un Aspera Hiems Symfonia, ugualmente senza quest’ultimo non sarebbe mai esistito un Enthrone Darkness Triumphant e non avremmo vissuto altre meravigliose esperienze emotive (Covenant, …and Oceans). Non nego l’importanza storica di un disco come La Masquerade Infernale per tutto il movimento avant-garde nel black metal ma, e qui è veramente questione di gusti, personalmente ritengo che quello del 1996 sia stato il vero apice artistico degli Arcturus.

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MARDUK – Heaven Shall Burn… When We Are Gathered

Ciccio Russo: Nella percezione comune i Marduk sono quelli delle magliette rozzamente blasfeme, dei fraintendimenti ideologici (fino a qualche anno fa ai concerti beccavi ancora il frescone che faceva il saluto romano) e dell’intransigenza parossistica di Panzer Division Marduk. In concreto, da bravi svedesi, sono un gruppo molto più ragionato e pretenzioso, almeno nelle intenzioni, di quanto voglia la vulgata che li considera il non plus ultra del trucidume stupramadonne, come avranno modo di dimostrare ampiamente nella seconda fase della loro carriera. Disco di transizione, meno ispirato e con meno idee di Opus Nocturne e ancora lontano dalla coesione e della sintesi dei lavori successivi, Heaven Shall Burn era per l’epoca un album poco al di sopra della media del genere, allora stellare. Dietro il microfono arriva Legion, che si era fatto notare l’anno prima su Via Dolorosa degli Ophtalamia. I brani più tirati, come Darkness it shall be, lasciano abbastanza il tempo che trovano e, alla fine, il mio pezzo preferito resta quella Glorification of the black god dove riprendono la melodia di Una notte sul Monte Calvo di Musorgskij. Evidentemente quella sequenza di Fantasia era stata un discreto trauma infantile anche per Morgan Hakansson.

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METALLICA – Load

Stefano Greco: Sarebbe bello possedere la lucidità necessaria per essere indulgenti nei confronti di Load. A conti fatti, rispetto ad alcuni degli abomini usciti in seguito, fa quasi bella figura. Anche il revisionismo più spinto, però, si deve scontrare con i fatti e la realtà è che dall’estate del 1996 ad oggi non ho mai sentito neanche remotamente il desiderio di riascoltarlo. E non credo di essere il solo; trovatemi una persona che quando ha voglia di ascoltare i Metallica decide di sorbirsi un polpettone di ottanta minuti con dentro Mama Said. Al netto di qualche pezzo decente, Load resta il capitolo che rese i Metallica il nemico interno, l’oggetto capace di ribaltare per sempre il ruolo della band agli occhi dei fan e trasformarli da impavidi miliziani del metallo in traditori della patria della peggior specie. Di renderli i buffoni che conosciamo oggi. Load è molto peggio di un qualsiasi album malriuscito, è la negazione ideologica del metal, è il brutale frantumarsi dell’illusione che sia possibile una connessione tra una band e il proprio pubblico, che abbia un senso sentirsi rappresentati da gente che di mestiere gira il mondo su un jet privato. Sono tutte cose ovvie, ma era stato bello crederci fino a che Load arrivasse nei negozi con il suo logo spuntato e le sue foto fatte di capelli corti, sigari, pellicce e frocerie varie. Perché non è possibile parlare di Load senza passare per il suo booklet; di artwork sbagliati ne abbiamo visti a bizzeffe ma mai nessuno che mostrasse un tale disprezzo verso la propria fanbase, un gigantesco sforzo di ridefinirsi come altro dal metal che è interpretabile solo come esibizione di una ingratitudine violenta ed insensata verso il proprio popolo. Un tempo avrei saltato nel fuoco per questi tizi, oggi non si meritano manco un quadratino di stoffa su un giacchetto stracolmo di toppe ridicole. Load è un’offesa incancellabile, nessuno era mai riuscito creare un disasterpiece del genere, e la cosa davvero geniale è che l’album non era poi realmente così brutto. Chapeau!

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GORGOROTH – Antichrist

Ciccio Russo: Non ho mai considerato granché i Gorgoroth. Affacciatisi sulle scene troppo tardi per non essere considerati meri gregari (la prima demo è del ’93), pubblicano il secondo lp – se lp si può chiamare: sei brani più intro per venticinque minuti scarsi – nel ’96, ovvero l’anno nel quale il black metal norvegese diventa adulto, con Filosofem e Nemesis Divina che ne chiudono, idealmente, il primo ciclo e Aspera Hiems Symfonia che sancisce l’inizio di una nuova era. Antichrist è, in fondo, una delle loro prove migliori ma, nel periodo preciso in cui l’evoluzione del metal estremo aveva proceduto ai ritmi più futuristi di sempre, nasceva già vecchio: un onesto ricalco di suggestioni già portate da altri ad apici estetici insuperabili, sebbene la presenza di Frost alla batteria conferisca il minimo pedigree di grimness sindacale. Per assurdo, i pezzi migliori sono quelli più d’atmosfera, dove ancora dimostra un senso il moniker tolkieniano: Gorgoroth e la conclusiva Sorg. Dopo essere passati (anche in questo caso in ritardo) per la successiva tendenza superomistico-industrialoide, si consolideranno sull’immaginario satanista d’accatto, diventando un gruppo per ragazzini di quelli che giustificano tutti gli stereotipi più deteriori sul genere.

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DØDHEIMSGARD – Monumental Possession

Giuliano D’Amico: Più passano gli anni, più ho l’impressione che il valore artistico del black metal norvegese sia dovuto a un paradosso; da un lato una certa velleità intellettuale della sua estetica (l’occultismo, il medioevo nordico, i miti, i riferimenti letterari) e dall’altro un’evidente buzzurraggine dei suoi sedicenti artisti, nella maggior parte dei casi braccia rubate all’agricoltura. Monumental Possession è probabilmente uno dei migliori esempi di questo paradosso, al di là del suo valore pionieristico, insieme a Black Thrash Attack degli Aura Noir, uscito lo stesso anno, per il revival del black/thrash. Se in brani come Utopia Running Scarlet o Bluebell Heart i Dødheimsgard si rivelavano, appunto, dei buzzurri, ci misero poi poco (due anni) per mischiare le carte in tavola con Satanic Art e proporsi al mondo come intellettuali. In fondo, non ho ancora capito se siano gli uni o gli altri (probabilmente entrambi, cosa che il debutto, Kronet til Konge, spiega molto bene), ma Monumental Possession resta un ottimo punto di partenza per avvicinarsi al problema.

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GOREFEST – Soul Survivor

Ciccio Russo: Come si diceva a proposito dei Gorgoroth, era un periodo in cui le cose andavano talmente veloce che, in campo death metal, potevi pure uscirtene con il nuovo Effigy of the Forgotten che l’80% delle riviste ti avrebbe comunque bollato come un trombone retrogrado. Un paio di anni prima Wolverine Blues e Heartwork avevano riscritto le regole del genere e gli olandesi Gorefest, in precedenza figli bastardi della scuola britannica, si adeguarono. La transizione è però troppo brusca e Soul Survivor rimane un disco riuscito a metà, che condannò la band allo scioglimento dopo l’ancora più eterodosso Chapter 13, di due anni successivo. I pesanti riferimenti agli Entombed fanno un po’ a cazzotti con la sinistra vena melodica già emersa nello splendido Erase. Si scapoccia il giusto ma certi brani continuano a sembrare troppo tirati via per non tradire la paraculaggine degli intenti. Le intuizioni di Soul Survivor verranno sviluppate con maggiore maturità nei due ottimi album sortiti, negli anni zero, da una reunion purtroppo finita male.

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THE HELLACOPTERS – Supershitty To The Max

Stefano Greco: Ci sono le scene, le novità, le sperimentazioni, i cazzi e i mazzi. Poi ogni tanto qualcuno si ricorda che è solo una cosa piuttosto basilare: si tratta di accendere l’interruttore, dare la scossa e girare la manopola del volume. Fossi uno intelligente starei qui a sproloquiare di proprietà immanenti e altri concetti complessi, ma alla fine credo che il senso di tutto ‘sto circo del r’n’r sia solo soddisfare una qualche pulsione primitiva a sfasciare le cose. Nei primi anni novanta Nicke Andersson (batterista, ancora per poco, degli Entombed) e Dregen (chitarra dei Backyard Babies) mettono su un gruppo con il solo movente di fare un po’ di casino. Nel giugno 1996 gli Hellacopters passano all’azione e abbattono la propria personale vacca sacra. Supershitty To The Max è l’eterna promessa del rock and roll che si rinnova ancora una volta. Feedback omnia vincit.

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ANCIENT – The Cainian Chronicle

Ciccio Russo: Come i Gorgoroth, gli Ancient arrivano troppo tardi per non ascriversi inevitabilmente al novero dei gruppi di seconda fascia usciti con uno dei loro album meno peggiori in un periodo nel quale, in Norvegia, stava accadendo di tutto e quindi noi, tra tape trading frenetico e paghette investite in dischi persino a scapito di alcol e droga, cercavamo di ascoltare tutto, ma proprio tutto. Svartalvheim, l’esordio, non era manco male. La Metal Blade pensò dunque di poter alzare due soldi da Aphazel e compagni, che cercavano di rileggere il genere in maniera più accessibile e melodica, aggiungendo un po’ di paccottiglia vampiresca alla Cradle Of Filth. Certo, rispetto ai Dimmu Borgir di Stormblast facevano ridere i polli. All’epoca, però, se eri norvegese e suonavi black metal, qualcuno un contratto te lo faceva di sicuro. The Cainian Chronicle, alla fin fine, si fece notare per due motivi principali: l’inizio di At The Infernal Portal, dove Lord Kaiaphas (grande nick) declama l’inizio del Canto III dell’Inferno di Dante e il trashissimo video di Lilith’s Embrace, che non possiamo non riproporvi:

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