Dieci dischi per gli anni Dieci: Edoardo Giardina

Pensavo che trovare dieci album rappresentativi del decennio 2010-19 sarebbe stato più complicato, ma in realtà ho impiegato più tempo a trovare il modo di avere una lista con tutti gli album che ho ascoltato in questi dieci anni che poi a scegliere effettivamente quali per me fossero i migliori. Più che altro perché mi sono dato un criterio che inevitabilmente ha escluso molti lavori che pure reputo di valore: ho voluto scegliere i dischi che ho ascoltato di più proprio da un punto di vista quantitativo. E ciò non è andato a discapito della qualità perché, va da sé, se ho ascoltato così tanto un album vuol dire che lo reputo anche ottimo. Ciò però forse comporta anche che, se già è difficile mantenere una supposta oggettività in qualsiasi giudizio, questa lista sarà più soggettiva del solito e, soprattutto, non si preoccuperà di nasconderlo. Infine, l’ordine è strettamente cronologico.
SÓLSTAFIR – Svartir sandar (2011)
Per quanto abbia poi apprezzato sia Ótta che il più recente Endless Twilight of Codependent Love (Berdreyminn assolutamente no), Svartir Sandar rimane il mio album preferito dei Sólstafir. È sicuramente un po’ lungo per i miei gusti (doppio disco); ma per me i dieci minuti e rotti iniziali di Ljós í Stormi sono puro godimento: una grammatica normativa di come si dovrebbe suonare post-metal o atmospheric sludge (ancora non ho capito come andrebbe definito questo genere). La successiva Fjara sicuramente smorza la tensione, ma anche di questa canzone non saprei neanche indicare la quantità di volte che l’ho ascoltata a ripetizione. Il resto dell’album forse non è sugli stessi livelli del duo iniziale, ma rimane comunque ottimo. E poi il vinile comprato al concerto è uno dei più belli della mia collezione.
WOODS OF YPRES – Woods 5: Grey Skies & Electric Light (2012)
Ho già avuto modo di scrivere quanto siano stati importanti per me David Gold e i suoi Woods of Ypres, in generale, e quest’album, in particolare. Dopo quell’articolo a così stretto giro, era forse scontato e altamente prevedibile che Woods 5 sarebbe finito nella lista dei dieci dischi che mi hanno segnato di più durante tutti gli anni Dieci. Ad ogni modo, quello che penso di quest’opera e dell’artista che l’ha composta l’ho già scritto approfonditamente in quel pezzo. Qua posso solo ripetere che il lascito filosofico e artistico di David Gold ha avuto la sua influenza su di me sotto vari aspetti, poiché quest’album mi ha accompagnato nella crescita post-universitaria quando ho iniziato la vita vera e la ricerca di un lavoro alienante che portasse allo sfruttamento del mio plusvalore da parte del padrone di turno. Non poteva non finire in questa lista.
SHINING – One One One (2013)
A costo di passare per il radical chic della redazione, in questa lista devo inserire gli Shining norvegesi e non quelli svedesi. Sono sempre stato un grande amante del sassofono (prima o poi comincerò anche a suonarlo, lo prometto) e, ogni qualvolta l’ho trovato ben inserito all’interno di una qualsivoglia canzone metal, finivo per innamorarmi anche della canzone stessa. Inutile dire che se andate a controllare chi suona il sassofono, per l’80% delle canzoni metal il credito è di Jørgen Munkeby. Da lì a scoprire il suo gruppo il passo fu breve. Se gli album precedenti erano o troppo vicini al jazz puro per le mie orecchie o eccessivamente cervellotici persino per i miei gusti, questo One One One trova una sua dimensione piuttosto diretta, ai limiti dell’industrial, che funziona meravigliosamente. Considerando, poi, che successivamente hanno sbagliato qualsiasi cosa potessero sbagliare e che questo è stato il loro canto del cigno, non ho potuto fare altro che continuare ad ascoltarlo anche solo per mancanza di alternative o di qualcosa che ci si avvicinasse anche minimamente. Non solo: nella recensione dell’EP A Forest dicevo che l’ultimo stadio dell’involuzione del sassofonista norvegese sarebbe stata proprio una collaborazione con l’ultima versione di Nergal. Ebbene, ho poi scoperto che tutto ciò in realtà era già accaduto nei Me & That Man, progetto country solista del polacco, ma io non lo sapevo. Bravo Jørgen, continua così, mi raccomando.
BEHEMOTH – The Satanist (2014)
Lo stesso discorso vale più o meno per The Satanist – a proposito di Nergal e del parallelo con Munkeby. Considero quest’album il lavoro più black metal dei Behemoth sebbene dal punto di vista strettamente stilistico sia in certo qual modo lontano dai canoni classici del genere. Segnato artisticamente, con ogni probabilità, dalla lotta di Nergal contro la leucemia, dimostra una volta di più come un’opera veramente sentita derivi quasi sempre e automaticamente da un’esperienza, se non per forza di cose negativa, quantomeno segnante. Pur non condividendo il topos del genio e sregolatezza di romantica memoria, c’è da ammettere che opere non comuni, salvo qualche eccezione, difficilmente scaturiscono da vite ordinarie. Quest’album mantiene sicuramente una certa teatralità, cifra stilistica del nostro polacco che, fondamentalmente, è un uomo di spettacolo; ma la teatralità qui è un mezzo e non il fine, e raggiunge esattamente lo scopo di farmi riascoltare l’album all’infinito. Come con One One One, forse ha influito anche il fatto che con I Loved You at Your Darkest i Behemoth non sono riusciti a ripetersi neanche lontanamente.
TRIPTYKON – Melana Chasmata (2014)
Quasi mi ero scordato che Tom G. Warrior ci aveva deliziato di una delle sue perle anche negli anni Dieci. Ammetto di non averlo ascoltato parecchio negli ultimissimi tempi, ma quando uscì ne consumai il disco regalatomi da un amico almeno per i successivi tre anni. E riascoltandolo in occasione di questa piccola e breve rubrica mi sono reso conto che difatti mi ricordo a memoria quasi tutte le canzoni – quindi possiamo dire che il criterio della quantità di ascolti è comunque rispettato. Un album fantastico di uno degli artisti migliori che il metal abbia mai avuto. Nel 2014, quando avrebbe potuto vivere di rendita (artisticamente parlando) e, nel pieno rispetto peraltro della tradizione nazionale, guardare tutti gli altri affannarsi dall’alto delle montagne svizzere, Thomas Gabriel Fischer decise di indossare il suo iconico cappello di lana ancora una volta e mettersi in gioco dando anche una lezione di stile a tutti (meglio di come aveva fatto qualche anno prima con Eparistera Daimones). Davvero, che je volete di’?
NE OBLIVISCARIS – Citadel (2014)
L’album progressive death metal moderno perfetto, che non pensa neanche a scimmiottare gli Opeth d’antan ma, anzi, trova una propria dimensione originale, complessa ma diretta, senza per questo scadere in quella produzione posticcia che ha caratterizzato in negativo il death metal dell’ultimo decennio. La prima traccia, Painters of the Tempest, mi è rimasta da subito impressa nonostante i suoi venti minuti di durata totale e i diversi movimenti che la compongono; così come le altre due canzoni che compongono l’opera, Pyrrhic e Devour Me, Colossus, sebbene non raggiungano le stesse vette. Quest’album mi è piaciuto talmente tanto che sono andato fino a Montréal per vederli live – ok, non è del tutto vero, perché mi trovavo già sul continente, ma il viaggio che ho fatto per arrivarci da Gettysburg dimostra in pieno la mia devozione, ve lo assicuro. Purtroppo non sono riusciti a ripetersi agli stessi livelli con il successivo seppur buono Urn, ma a loro discolpa si può dire che era molto difficile fare di meglio.
ROTTING CHRIST – Rituals (2016)
Secondo me Rituals rimane l’album più riuscito quantomeno dell’ultima parentesi di carriera degli immortali Rotting Christ. Qui i greci portano a compimento la destrutturazione dei riff iniziata con Aealo. La differenza è che su quest’album la cosa funziona alla perfezione poiché totalmente al servizio del concept: un rituale mistico in almeno una mezza dozzina di lingue diverse. Questa loro cifra stilistica dell’ultimo decennio, che su The Heretics mi ha sinceramente estraniato, qua va a toccare le corde giuste e necessarie a farti raggiungere la trance che ci si aspetterebbe da litanie di siffatta natura. Gli ospiti importanti e i ritornelli che ti si ficcano in testa per non uscirne più non abbassano il valore di quest’opera, bensì lo innalzano. Lo faccio sempre ascoltare ai neofiti del metal per far capire come si possa risultare ammorbanti e oscuri solo grazie allo stile e all’atmosfera, senza eccessi. Inoltre, cascò a fagiolo quando cominciai a studiare la mistica ebraica e a leggere i libri di Gershom Scholem: non poteva uscire in un momento migliore.
MOONSORROW – Jumalten aika (2016)
Semplicemente il folk metal come dovrebbe essere: allo stesso tempo battagliero, retrospettivo, epico ed atmosferico, senza rinunciare ad una certa complessità. Non saprei neanche dire quante volte ho ascoltato quest’album, in macchina, in camera, di sottofondo mentre gioco ore e ore allo stesso videogioco strategico da cui non riesco a staccarmi. Jumalten aika è anche un album che, nonostante tutto, riesce sorprendentemente a mantenere il suo fascino anche dal vivo. C’è poco altro da dire perché la musica dei Moonsorrow è quella musica che ti entra dentro, ti strega e ti lascia senza parole per descriverne l’esperienza. Il loro miglior album di sempre insieme a Kivenkantaja.
47SOUL – Balfron Promise (2018)
Non so se il fatto che il primo album non metal presente in questa lista sia uscito nel 2018 non significhi nulla e sia solo un caso, oppure sia un indice del fatto che mi sono rammollito e non sono più un vero metallaro che vive la vita hardcore radikult. Ad ogni modo, Balfron Promise è un album fantastico non solo per tutti i riferimenti culturali e storici alla Palestina (a partire dalla celeberrima dichiarazione Balfour da cui deriva il titolo), ma anche dal punto di vista musicale (che poi è quello che conta). L’opera di recupero di storia e cultura palestinesi parte infatti dalla dabke, genere tradizionale della regione, la quale viene poi innestata di rap, hip-hop, elettronica e altri generi moderni che vanno per la maggiore da quelle parti. Il risultato è una musica dai ritmi e dalle melodie coinvolgenti, da riascoltare all’infinito e da ballare così – tradizione vuole rigorosamente tra soli uomini, che ci volete fare… L’album perfetto per fare da sottofondo agli studi approfonditi e alle ricerche appassionate sul Medio Oriente.
LIBERATO – Liberato (2019)
La deontologia dello scribacchino online mi impone di essere totalmente onesto con voi lettori e quindi devo ammetterlo: Liberato è uno degli album che più ho ascoltato in questi ultimi due anni, come confermato dalle statistiche di Spotify di fine 2019. Non voglio cercare di giustificarmi, ma se devo trovare una ragione direi che sono state le contingenze: la storia finita male con la guagliona, il ricordo dolceamaro del tempo passato in Campania, il mio interesse da linguista-dialettologo amatore… Forse quest’album è uscito nel periodo giusto (o sbagliato, dipende dai punti di vista) per finire più e più volte tra i miei ascolti; o forse semplicemente mi sarebbe piaciuto comunque. Ad ognuno i suoi feticci.