Avere vent’anni: OPETH – Still Life

Trainspotting: Still Life è l’ultimo album della prima fase degli Opeth, prima dell’esplosione di Blackwater Park che ne sancì il successo commerciale. Qui dentro sono sommate sia molte delle caratteristiche che resero grandi i due capolavori iniziali Orchid e Morningrise sia – neanche troppo in nuce – le idee di Blackwater Park e di ciò che verrà successivamente. Non è un disco semplice, o forse è solo che io personalmente ci ho messo tanto a entrare nelle sue corde; ma ad un pezzo come Godhead’s Lament, nonostante sia proiettato in avanti verso la fase per me meno rilevante della loro discografia, non riesco sinceramente a trovare difetti. Altri momenti iniziano a essere invece già troppo sbrodolati, come la parte centrale di Moonlapse Vertigo, prodromo di ciò che verrà. Still Life è forse l’album degli Opeth in cui si percepisce maggiormente la sensazione di essere su una linea di demarcazione, una sorta di Giano con uno sguardo all’affascinante passato e un altro al futuro che si stava iniziando a delineare compiutamente. Il pezzo che più restituisce quest’immagine è forse Serenity Painted Death, a metà tra rifferama in pieno stile Svezia anni ’90 e fascinazioni prog. Con l’inizio del nuovo millennio inizieranno anche i nuovi Opeth, e io smetterò di avere cose da dire su di loro.

Marco Belardi: Venti o venticinque anni fa il mestiere del metallaro scandinavo era assai difficoltoso, ma fu facilitato da una cosa presente all’interno del suo DNA. Fu così che norvegesi, svedesi, finlandesi e popoli vicini individuarono il loro denominatore comune nella creazione di intramontabili melodie. Una faccenda molto diversa da come la intendiamo oggi, ad esempio, nelle terre americane già debitamente rase al suolo dal Carrozzi. La difficoltà del compositore nordico risiedeva nel dover mantenere malinconia, tristezza, rancore, odio oppure disperazione saldamente ancorati alla sua musica nonostante tutta questa esuberanza melodica. Che non doveva affatto stuccare, ma fungere da traino a tutti questi elementi qua. E ci riuscirono in moltissimi. Ciò che abbiamo osservato e amato a trecentosessanta gradi in quelle nobili terre, e che ha riguardato il black metal così come il doom e il death metal, generi che spesso si fondevano tra di loro dando luce a un qualcosa di relativamente o completamente inedito, è stato un fenomeno inerente agli anni Novanta. Dopodiché ha perduto gran parte del suo vigore iniziale.

Nel 1999 eravamo un po’ all’apice di tutta questa faccenda, come se il tramonto si trovasse dietro l’angolo e il cielo iniziasse a colorarsi di toni caldissimi, sparando il giallo e l’arancio su tutto quel che c’è a terra. È bellissimo, ma sai che ben presto sarà buio pesto. Ma, in preda all’entusiasmo per tutte quelle uscite di assoluto rilievo, io all’epoca neanche lo ipotizzai un tracollo del genere. E gli Opeth? Loro erano all’apice proprio come molti altri, anzi, erano esattamente all’apice. Still Life è il disco che meglio dosò la componente estrema con quella progressive, evitando di porre eccessivamente in risalto le ballate pur facendone un manifesto in Face of Melinda attraverso il suo crescendo, e – dettaglio non da poco – rispetto al suo buon predecessore vantò un suono da urlo. Come spesso accade, però, agli Opeth mancava ancora un ingrediente per completare l’opera e quell’ingrediente sarebbe stato presente nel successivo album, Blackwater Park. Entrambi dispongono di qualcosa che l’altro non ha, se non in piccole dosi.

Agli Opeth di Still Life mancava la paraculaggine, quella accennata componente easy listening che in Blackwater Park si sarebbe un po’ presa la scena: avrà un gusto più “rock”, concedetemi il termine, e quel senso melodico non solo si limiterà a svolgere il compito che ho indicato a inizio articolo. Mirerà ad essere acchiappone senza con ciò risultare sfacciato. Per cui ribadisco che, se Still Life rappresenta il meglio della produzione degli svedesi in direzione di un pubblico strettamente settoriale, con l’album seguente gli Opeth avrebbero messo un punto, collegando le esigenze di un po’ tutti al costo di dover rinunciare a certa spigolosità e pesantezza che, di fondo, negli Opeth avremmo sentito anche in futuro seppur in dosi variabili. La loro evoluzione a quel punto si sarebbe come completata, lasciando a Ghost Reveries l’intelligente e arduo compito di introdurci in modo graduale ai passi successivi, che avrebbero previsto un forte e disorganizzato ripescaggio dal passato. Ma al novanta percento, quando gli Opeth produssero questo bellissimo album, ed a seguire Blackwater Park, per loro si era già fatto tardo pomeriggio. Oltre a The Moor e alla potentissima Godhead’s Lament vorrei spezzare una lancia per la conclusiva White Cluster, un brano dal dinamismo inarrivabile, e che oltre a concludere un disco quasi inattaccabile sancì di fatto la raggiunta maturità e consacrazione dei suoi capaci autori.

Maurizio Diaz: Sono stato un fan degli Opeth abbastanza appassionato fino all’uscita di Ghost Reveries. Inseriti da sempre esclusivamente nel filone prog-death, tenendo in considerazione in particolar modo lo stile e la struttura a “concept”, come attitudine però avevano molto più in comune con il gothic-doom, sia per le atmosfere decadenti sia per i temi trattati (fantasmi, drammi e lutti in generale). Con il senno di poi, Still Life è il vero anello di congiunzione tra passato, presente e futuro della produzione della band di Akerfelt: i pezzi sono sempre molto lunghi, ma alla grammatica usata in precedenza si affianca in modo deciso il suono dolce e ovattato del prog inglese, che tanto assilla la mente del Nostro. Questo disco forse rappresenta il momento in cui la passione per quella musica esce fuori in maniera più genuina, senza tante sovrastrutture o atteggiamenti, tanto che dovranno passare molti anni prima di arrendersi definitivamente a questa sua tensione. Ai giorni nostri, se subito dopo questo disco vi mettete ad ascoltare il recentissimo In Cauda Venenum, vi accorgerete di quanto il distacco da uno all’altro sia molto inferiore di quanto si potrebbe inizialmente pensare, per quanto alla lunga la produzione più recente tenda, a mio parere, ad essere un po’ più stucchevole. Quando lo ascoltai la prima volta ovviamente me ne innamorai fino ad arrivare a preferirlo a Blackwater Park, e pezzi come The Moor o Godhead Lament continuano a rimanermi in testa a distanza di anni. Se volete recuperare questo disco siete perfettamente in tempo, perché l’autunno è decisamente il periodo migliore per struggervi con le romantiche storie di fantasmi degli Opeth.

2 commenti

  • non lo ascolto da tempo immemore, ma questo disco è il primo che abbia mai ascoltato degli Opeth. Me ne innamorai subito e per un periodo ero ossessionato dal riuscire a riprodurre con la chitarra la prima traccia.

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  • A questo disco sono molto legato dal punto di vista affettivo, al di là del lato meramente musicale.
    E’ un lavoro immenso e l’apice della loro carriera, l’unico suo difetto (si fa per dire) è quello di essere venuto prima di Blackwater Park con cui faranno il meritato botto commerciale, per cui ha finito col restare un po’ in ombra. Due dischi quasi speculari, nello stile e nella struttura, tra i quali ho sempre preferito questo per via di un suono più “aperto”, pieno di riverberi e meno secco e metal di quello prodotto da Steven Wilson. Godhead’s Lament varrebbe da solo l’intera discografia di una band normale, con quel break centrale incredibile che, anche dopo vent’anni, mi provoca un un brivido alla spina dorsale ogni volta che lo ascolto e che dire di Serenity Painted Death, con quel groove sabbathiano e delle linee vocali quasi rappate. C’è tutto in Still Life: le atmosfere gotiche anni 90, la feralità del Death svedese, le sezioni acustiche così bucoliche e crepuscolari che si rifanno ai primi due album, il tutto con la naturalezza di chi possiede una tecnica strumentale da paura ma non ha bisogno di sbattertelo in faccia, con buona pace di Dream Theater e compagnia. Credo sia davvero difficile, per chi non li conosceva all’epoca,intuire l’impatto che aveva all’ascolto un disco del genere. Perché ascoltarlo col senno di poi, alla luce di quello che poi sono diventati gli Opeth non è e non può essere la stessa cosa. Si, li potevi collegare vagamente al gothic doom, al Death svedese ma non c’era nulla che suonasse così all’epoca. Gli unici che si potevano accostare erano gli Edge of Sanity di Crimson, ma qua siamo ad un livello molto, molto superiore.
    Purtroppo era davvero uno splendido crepuscolo, Blackwater Park sarà ancora bellissimo ma arriverà in ogni caso quel babbo di minchia di Wilson, una roba brutta e inutile come Deliverance, le tastierine stracciacazzo che fan tanto anni 70, la mutazione di Akerfeldt in un borioso testa di cazzo che Lars Ulrich scansati e via via tutta quella roba omosessualizzante lì che pubblicano ora che vabbè….la vita è una merda.

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