Piccoli Belardi crescono (ovvero come sono diventato metallaro)

L’automobile di mio padre, non fosse per il modello station wagon, sarebbe stata perfetta per quei film italiani dove tutti inseguivano tutti sparando dai finestrini. Era un’Alfa Romeo, e le due cose che adoravo di essa erano il rumore del motore, inconfondibile, e il contenuto del cruscotto. Sfortunatamente, nella tranquilla Badia a Settimo, qualcuno diede fuoco a un furgoncino bianco per una qualche ritorsione, e indovinate quale veicolo era parcheggiato di fianco.

Se ne andò tutta una fiancata, in parte carbonizzata e in parte come liquefatta, e se ne andò il contenuto del cruscotto, autoradio compresa. Male minore: tutta l’elettronica della macchina era fottuta, e si dovette rottamarla. Nel cruscotto non c’era una rivoltella carica come nei film con Maurizio Merli, ma i primissimi compact disc che abbia ascoltato in vita mia.

A fine anni Ottanta vidi il mio primo lettore cd, nient’altro che il frammento di un impianto grosso quanto un’astronave. Mi perdevo a cazzeggiare con le levette dell’equalizzatore e nel farlo mi feci l’idea che quell’aggeggio avesse un qualche potere. Ma all’epoca la musica era soltanto quella d’accompagnamento ai film, e, in linea di massima, non ne conoscevo altra. Le musiche di Predator mi galvanizzavano come poco altro al mondo, benedetto sia Alan Silvestri. Poi arrivò il video di Thriller alla televisione, insieme a tutto quel che sto per raccontarvi.

Il mio amore per la musica rock in un certo senso nasce nel lontanissimo 1991. Che la domenica andassimo a pescare o da qualunque altra parte, mi toccavano in automatico i Greatest Hits dei Queen. Il secondo divenne subito il mio preferito: glielo vidi comprare in diretta e quel gesto di far tuo un album sarebbe stata la mia rovina solo alcuni anni più tardi, anche se in quel momento non potevo saperlo. In quella pubblicazione erano presenti molte delle loro canzoni che preferivo, ma non Princes of the Universe, la mia numero uno in assoluto. Il primo volume era troppo radiofonico, e, a soli otto anni, avevo già stabilito che le più radiofoniche dei Queen, come Another one Bites the Dust e Don’t Stop me Now, non facevano affatto per me. In compenso mi sarei ritrovato Don’t Stop me Now nientemeno che al mio matrimonio.

Un anno più tardi fu il turno degli 883 di Hanno Ucciso l’Uomo Ragno, un altro ancora e sarebbe toccato a Terremoto dei Litfiba. Riflettete su un dettaglio: entrai in quell’auto e ci trovavo un cd, e ciclicamente il cruscotto ne ospitava uno nuovo senza che gli altri dovessero cedergli il posto. Erano pochi, e lo spazio complessivo permetteva la convivenza a cinque o sei di loro, non uno di più. Dal 1996 al 2006 ne avrei portati in casa circa 1.300 e mi riferisco solo agli originali, con una media di album a settimana che non tenterò di calcolare per spirito di conservazione: una cazzo di vergogna. Quanto tempo avevo per assimilare un album musicale da bambino, quanto ne avevo in pieni anni Novanta, e quanto poco me ne sarebbe rimasto dall’avvento di Napster in poi? È un aspetto sul quale rifletto molto spesso e che mi aiuta a comprendere perché memorizzassi uscite tutt’altro che significative.

Ma ritorniamo ad allora: Terremoto fu appunto un Terremoto. Oggi, senza che le mie orecchie provino alcun ribrezzo, ascolto, rilassato sul divano, gentaglia come Parabellum e Slaughter Lord. Ciò non è possibile se non attraverso un processo di avvicinamento assai graduale e che, per forza di cose, necessita di un punto d’inizio. All’epoca Terremoto mi consegnò le chitarre di cui ero convinto d’avere bisogno, una voce sufficientemente incazzata e un capolavoro come Maudit. Iniziai a pormi troppe domande: se i Litfiba erano il rock e il rock era un mondo assai vasto, i Queen potevano esserlo alla stessa maniera? Un anno ancora e avrei scoperto MTV, il solito luogo di profanazione dove già avevo assaggiato quella Thriller. E il paziente sarebbe irrimediabilmente peggiorato.

L’Alfa Romeo aveva ancora un po’ da vivere e l’ultimo cd entrante s’intitolò Le ragazze, a firma Neri per Caso: e se fosse stato proprio lui a bruciarne una metà, la destra, proprio come farebbe un ictus? Nel frattempo avevo scoperto gli AC/DC, mi ero riproposto la solita domanda marzulliana sui Queen e inoltre, mi era stata copiata una cassetta contenente uno strano miscuglio di musiche e stili: in testa Fast as a Shark degli Accept, subito dopo Restless & Wild, e poi niente più heavy metal puro e consolidato. Deep Purple, Def Leppard, Twisted Sister, tutta roba grossa, grossissima. Ma l’avevo formalmente conosciuto, e il contrasto tra quella musichetta folkloristica e l’entrata di UDO aveva abbondantemente superato l’urlo improvviso di El Diablo, altro celebre titolo della band fiorentina che nel frattempo avevo recuperato in cassetta.

Una sera ero a passeggio per Vingone, una zona di Scandicci confinante con le colline nota per gli scontri fra gang negli anni Ottanta, e perché dava accesso ai noti territori paccianeschi. Su un muro lessi la scritta Metallica, con le punte sulla prima e l’ultima lettera. Non avevo alcun ricordo della band di San Francisco, né avevo intercettato il video di One o Enter Sandman alla televisione, eppure all’istante pensai che si trattasse di una band. Fino a quel momento, onestamente, ero certo che non me ne avesse parlato nessuno. Neppure MTV, giacché ancora riuscivo a starne debitamente alla larga, e neppure il tale degli Accept.

Tramite le sue forniture giunsi a una conclusione: per Nirvana e Soundgarden, oppure Alice in Chains e Kyuss ed altri prodotti ampiamente sdoganati dalla televisione, la presa era spaventosamente rapida, ma con i colossi della musica passata avevo, spesso, un rapporto tristemente complicato. Mi passava roba attuale non perché ne andasse matto: cercava solo di individuare qualcosa di adatto a me, ed era certo che insistendo su Krokus e Steppenwolf, alla lunga, mi avrebbe rotto le palle. Apprezzavo Black Sabbath e Led Zeppelin, Lynyrd Skynyrd e Creedence Clearwater Revival, Cream e The Who. In compenso ero come affetto dalle seguenti reazioni allergiche:

Il cantante dei Dire Straits era uguale a un tizio che ragiona al telefono. Il chitarrista mi sembrava legnoso da morire ma l’avrei riconosciuto tra mille, e quindi andava bene lo stesso.

I Pink Floyd erano una disumana rottura di coglioni, ma ogni volta che transitavo per Astronomy Domine li definivo una goduria. La cosa non è molto migliorata col passare del tempo, ma il primo, Atom Heart Mother, Animals e un altro paio di titoli, seppur di rado, ammetto che li riascolto. Li definirei “tentativi”. Il giorno che è uscito The Division Bell avevo da poco compiuto undici anni. Mi regalai la cassetta e rimasi per qualche motivo particolarmente legato a quell’uscita, che tutt’ora apprezzo.

I Def Leppard, beh, di loro avevo due album. Uno mi piaceva e l’altro mi faceva schifo, quindi ripeterò quel che ripeto sempre: che dipendeva dai dischi. Apprezzo molto i classici Pyromania e Hysteria, ma dubito di esserci ritornato sopra oltre il Duemila.

Rispolverai l’intera discografia dei Queen, realizzando che nella maggior parte degli album non ero capace di apprezzare più di due canzoni di numero. Forse non era un caso che i Greatest Hits rappresentassero il loro più grande successo commerciale. Capitanati da un animale da palco, in quattro diventavano un’autentica fornace di singoli: il guaio è che pretendevano di pubblicare album alla velocità della luce pur di giustificare i tour successivi.

I Motorhead? Fine delle reazioni allergiche, avevo fra le mani l’ultimo, Sacrifice. Era rock pure quello? Continuava a rimbombarmi nella testa la solita domanda sui Queen, volevo saperne troppe. Una sera decisi di fare due passi per Scandicci in direzione opposta al luogo della scritta “Metallica”, e di andare a trovare un amico. Era stato in vacanza in montagna e, mi disse, aveva conosciuto “dei metallari”. Iniziò a farmi una testa cubica con i Metallica e mi portò in salotto, dove aveva un impianto stereo dalle casse gigantesche, con il piatto per i vinili, il lettore cd, due supporti per le musicassette per poterle copiare e chissà cosa altro: identico a quello visto da bambino, solo con più casse, bottoni e levette. Dopo avermi bombardato con una serie di concetti del tipo che il bassista era morto malissimo in un incidente, mise una cassetta copiata nel marchingegno e premette play.

Era lenta in partenza e mi avvertì che dovevo aspettare solo qualche secondo, ma tanto mi ero già abituato con Fast as a Shark. Era Battery.

Fine delle domande sul rock e sui Queen: ero metallaro, e lo ero diventato in un attimo.

Alcuni mesi dopo sarei ritornato dallo spacciatore di band storiche, un giovane appena meno giovane di me probabilmente uscito fuori da una Delorean con le ruote ancora infiammate. Non era il suo tempo, neanche un po’. Nel frattempo mi ero ampiamente narcotizzato con Ride the Lightning. Pensate che la mia canzone preferita da Ride the Lightning diventò Escape, forse perché ero talmente assorto dalle sonorità classiche da dover fare l’abitudine con il tremolo picking e con Hetfield che sbraitava di brutto.

Era già il 1996. Ho ricordo del 1994 come l’anno di MTV, della scoperta del grunge, della vaga idea di heavy metal come cosa esistente ma ancora tutta da inquadrare. Ma il 1996 l’ho vissuto in maniera molto nitida, e dall’autunno, ancora tredicenne, avrei cominciato a comprare riviste su riviste perché pretendevo di scoprire sempre più gruppi, nonché di conoscere a fondo quel mondo vasto a cui chissà se davvero apparteneva pure Brian May. Ma certo che sì. La vaga idea che avevo di loro era che con i loro singoli i Queen permettessero a moltissime persone di sentirsi dei rocker, degli alternativi, degli individui spinti a una velocità pazzesca nel reiterarsi della quotidianità che prima o poi ti fa stufare di tutto oppure ti uccide: quella stessa idea l’ho rivomitata in un pezzo sui Pearl Jam non molto tempo fa e non la sposterò mai di una virgola, anche se fra i due nomi c’è un continente di mezzo a livello tecnico, ideologico e di chissà quale altra tipologia.

Tuttavia ero completamente concentrato sull’heavy metal e sul thrash: avevo conosciuto i Cannibal Corpse e mi erano sembrati una roba completamente allucinata, ancora inappropriata per il sottoscritto. Lo spacciatore seppe presto che mi ero appassionato all’heavy metal, e sentite com’è che dipinse gli anni Novanta.

“Sì, hai fatto bene, ma purtroppo oggi non esce più niente.”

Tunes of War era fresco come una rosa, e dava seguito a Heart of Darkness.

Quell’amico un po’ più grande di me di certo non tollerava i Rage Against the Machine e le uscite tribali dei Sepultura, ma la musica rock stava tuttavia percorrendo il suo naturale corso; lui lo sapeva, e fra le cassettine che mi copiò ci mise quegli artisti grunge che avevano già finito di smontare, come farebbero quelli che in un pomeriggio ti svuotano la cantina, il suo bel castello fatto di hard rock da televisione e di artisti glam troppo convinti della propria estetica per pensare che c’è una clessidra che scorre inesorabile sulle loro teste, già a buon punto.

Tendo sempre a vedere nero, e, da una quindicina d’anni circa, spesso mi soffermo sul fatto che il corso d’ogni cosa abbia un inizio e una sua fine, dopodiché la puoi al massimo rivivere; eppure, l’unica volta che da trentenne ho pronunciato quelle cinque banali parole, “oggi non esce più niente”, Manuel mi disse che non era affatto vero. E sono ancora qui a seguire quel che esce: virus permettendo i gruppi guadagnano facendo concerti, e il djent ha preso il posto dei Pantera senza averne un briciolo della forza, ma ripeto, sono ancora qui a seguire quel che esce. E spero potranno farlo anche i prossimi, finché non sarà tutto finito o del tutto codificato e ridotto a un codice a barre. (Marco Belardi)

8 commenti

  • Bravo Marco. Sei un po’ più giovane di me, a quanto capisco dalle date che scandisci, ma vedo che certi percorsi sono simili. Forse sono universali. Della fine della mia infanzia ricordo che a partire da Europe e Bon Jovi mi misi alla ricerca della musica sempre più veloce e più pesante, come se fosse il Graal, la Spada di Smeraldo o, per essere più in tema, il segreto dell’acciaio. In pochi mesi passai dai Maiden ai Napalm Death, che all’epoca erano un territorio selvaggio e inesplorato. Interessante poi che Michael Jackson sia presente nel passato di molti metallari: ci dev’essere qualcosa in comune nella sua estetica e nel suo funky in minore con la NWOBH, che oggi però non analizzeremo.
    Quanto al discorso “oggi non esce più niente” lo si è sentito dire in tutte le epoche e il motivo è che quando si vive un determinato momento non si riesce a capire cosa sia veramente significativo e che cosa resterà e specialmente quando non c’era internet a volte si faticava ad avere la percezione di quello che stava succedendo.
    Ti perdono infine la scoperta del grunge, anche se avrei preferito sentirti dire scoperta dell’hardcore.

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  • Io ho preferito andare con calma. Per i primi 2-3 anni solo hard rock e heavy metal classico, tanto u.s. power e poco thrash a parte i big 4. Poi pian piano son arrivati i Sepultura, i Carcass e via dicendo…

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  • Sono il “Manuel” citato a fine articolo 🤘. Mi complimento con Marco per il bellissimo articolo e posso ammettere che, nonostante una manciata in più di anni sul groppone (da parte mia), il percorso musicale iniziale è molto simile al mio. Fatto sta che ora come ora, la mia esclamazione sarebbe meno “secca”; ascolto tanta nuova musica tutt’ora, ma molto difficilmente mi affeziono.

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    • Sai Wear anche io sto cercando l’ animale gemella ma in giro ci sono solo cesse. Sono un giovanotto piuttosto attraente merito il top ( cioè una trashona tatuata e sboccata). Primo disco metal ascoltato da adolescente è stato un live dei Judas Priest dopo di che sono passato alla robba pesante con i Cannibal , Celtic e via discorrendo.

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  • Belardi è sposato? Cerca di fermare Barg.

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  • Danilo Serratore

    Che diamine, anche nel mio passato c’è Michael Jackson 😂 Forse è solo colpa degli anni 80.. cmq anche Queen, Dire Straits, ecc. Personalmente ho iniziato con Vulgar ecc dei Pantera, ho continuato col death e con il black, ho avuto un periodo hardcore e metalcore per poi tornare indietro. Ma non ho un giudizio così negativo sullo djent, almeno non per quanto riguarda i Meshuggah. Cmq bell’articolo, è un po’la storia di tutti noi 😉

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  • Alberto Massidda

    Ehehe, mi sarebbe piaciuto aver avuto il vostro incipit.
    Venuto dal rap e da MTV, il numetal fu per me l’equivalente del contrabbandiere che ti aiuta a fuggire da un paese del blocco sovietico: un passaggio su cui preferisco tacere, ma che fu fondamentale per venire a vivere dove mi piace stare ora 🙂
    Il resto è più o meno uguale, direi.

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