Proposta di sceneggiatura per un biopic su MIKE MANGINI
La commessa del centro di collocamento osservò con sospetto il suo nuovo cliente, un ragazzone dai lunghi capelli scuri, muscoloso e sorridente, ma che sicuramente stava tentando di giocarle un brutto scherzo. E così, subito dopo averlo schedato gli pronunciò la domanda che teneva a mente fin da principio: “Signor Mangini, perchè si sta rivolgendo a noi? Ci risulta che ha appena trovato un impiego in Canada, come batterista, presso una band di nome Annihilator”.
Mike alzò gli occhi nella sua direzione e si limitò a rispondere: “Appunto”.
Un anno più tardi negli Annihilator non rimaneva più nessuno, come se la regione dell’Ontario fosse stata distrutta da insostenibili venti provenienti da Nord. O meglio, un tale di nome Jeff Waters, nel pretendere di fare tutto da solo, assunse giusto Randy Black per registrare la batteria ai limiti dell’osceno di King Of The Kill.
Mike fece ritorno in Massachusetts, dove trovò conforto presso un piccolo box garage acquistato per lavorare in proprio. E iniziò subito: lontano da occhi indiscreti fuse l’acciaio, allineò gigantesche barre di metallo e forgiò dischi taglienti come rasoi, e al termine d’ogni giornata chiudeva il bandone con un enorme lucchetto. Perché lì dentro non custodiva altro che il suo piccolo ma pesante segreto.
L’attività di Mike Mangini come insegnante di musica e batterista proseguì negli anni, e in particolar modo, ebbe a che fare con James LaBrie dei Dream Theater in più di un’occasione. Archiviata la parentesi Extreme, registrò la batteria su un paio d’album dei Mullmuzzler. Non era un lavoro di quelli che ti garantiscono un futuro certo, ma il loro cantante gli sembrò un tipo dall’aria familiare e questo finì con l’attenuare ogni attrito. Nonostante il tutto procedesse senza rilevanti intoppi, Mike avvertì l’impulso di doversi ripresentare al centro di collocamento. E fuggì, come calamitato dalla medesima commessa, ora bolsa e con un’evidente ricrescita di capelli bianchi che non si degnava più di nascondere agli interlocutori.
“Avrei per te un posto nella band solista di James LaBrie”.
Il primo giorno di prove tutti aspettavano Mike, che era in leggero ritardo. Si era perso in quel maledetto garage a segare e assemblare, fondere e saldare parti. Appena aprì la porta dello studio c’era una sola figura a dargli le spalle, e doveva trattarsi del cantante, poiché gli altri erano tutti alle prese con i rispettivi strumenti. Il lungocrinito figuro si voltò, e per poco, nel riconoscerlo, Mike non ebbe un malore: era lo stesso tizio dei Mullmuzzler. Quest’ultimo capì d’essere stato tradito dal miserabile mercenario della doppia cassa, e per quanto i Mullmuzzler non fossero altro che il prologo del suo nuovo progetto, prese la più ferrea delle decisioni. Lo costrinse. Usò la forza per farlo partecipare all’agghiacciante Elements Of Persuasion, idea della voce dei Dream Theater di suonare un indecoroso crocevia tra power e thrash metal anni Novanta, ovvero quello che era riuscito anche agli Eldritch, ma a lui proprio no. Mentre il cantante di Awake oziava su un divano, degustando una tisana al cardamomo e cannella e godendosi in cuffia il suo capolavoro dell’Orrido, Mike si rese conto di cosa avesse appena combinato e lentamente aprì la porta dello studio di registrazione. Uscendone lesto e non facendovi più ritorno. Successivamente avrebbe avuto una tale paura del centro di collocamento da restarne alla larga per cinque lunghi anni.
Ricomparve in Canada quando un vecchio amico gli fece promessa di avere per le mani del “brutto materiale per almeno due dischi, dopodiché magari ti butterò fuori come ho fatto con tutti gli altri”. E così suonò la batteria su Metal, l’album degli Annihilator in cui c’erano tutti quegli ospiti estratti a casaccio: Alexi Laiho, Michael Amott, e probabilmente anche un ispirato Nino Frassica (uncredited). Se ne vergognò così tanto che il suo mal di stomaco prese a restituirgli un forte reflusso a metà tra la sbornia alcolica e la tisana al cardamomo e cannella di James LaBrie. Fuggì dal Canada, ma stavolta non tirava alcun vento distruttivo dal Quebec: era la semplice accettazione, da parte di Jeff Waters, del concetto basilare che “fare schifo nel senso più assoluto” non fosse una cosa così brutta. Piuttosto una sorta di libidine nel fango, come il maiale che si crogiola e si rinfresca in quel che agli occhi di noi tutti è soltanto un denso mix letale di sporcizia e batteri. Questo era Metal degli Annihilator, una pozza di feci e lurida terra piena d’ospiti rotolanti dalla felicità, con Jeff Waters su un bordo rialzato a lanciar loro ghiande e indicazioni.
Salutati i kamikaze canadesi, Mike se ne tornò in fretta e furia al box garage, che per sua fortuna si presentava privo di segni d’effrazione. Ivi ritrovò la vecchia chiave per il lucchetto, ben nascosta sotto a uno zerbino oramai marcio di muffa. Una volta all’interno riprese a segare, ad assemblare, a costruire nervosamente qualcosa. Modificò il tetto di quella struttura, già fatiscente ma ancora in grado di donargli una incredibile sensazione di privacy: alcuni passanti guardavano in su e mormoravano, teorizzavano, ma nessuno di loro riusciva a capirci granchè. In una pausa accese la tv e si guardò un live dei Dream Theater, in cui Mike Portnoy si trovava alle prese con la sua The Mirage Monster, batteria di concezione himalayana che ben otto alpinisti esperti avevano provato a scalare per non fare più ritorno. Fu la miccia che lo fece sentire pronto a tornare al punto di partenza.
La commessa del centro per l’impiego stava per chiudere l’esercizio, quando al tramonto riconobbe un volto famigliare e gli concesse d’entrare. Mike era ancora tutto sporco di morchia per il gran lavoro svolto nel box, ma si sedette e accettò di partecipare a un provino che si sarebbe tenuto a New York. “Roba grossa”, aveva aggiunto lei, sperando di riuscire a sistemare lo sfortunato precario una volta per tutte.
E così prese il primo aereo diretto a Sud-Ovest lungo la costa statunitense, osservando fiero l’Atlantico nel sovrastare Cape Cod, Martha’s Vineyard, e subito dopo Long Island. Pieno di meraviglia, Mangini atterrò e si diresse rapido dove gli avevano dato appuntamento. L’assembramento militaresco di batteristi, rigorosamente incappucciati vista la gravità dei fatti, era tale da ricordare la scena dell’interrogatorio iniziale de I soliti sospetti: nessuno sembrava in alcun modo attinente con quel che stava accadendo, mentre ognuno, o quasi, pareva finito lì un po’ per caso. Una volta privati del sacco che impediva loro di vedere e orientarsi, in sette si ritrovarono liberi di scorrazzare in questo gigantesco studio con una grossa batteria rossastra posizionata al centro. Un boss coreano dai capelli lisci e neri e un sadico dall’antiestetico pizzetto bianco, formando un macabro Yin-Yang di vecchia peluria in contrasto, li scrutarono uno per uno; mentre il cantante, come per trasmettere un senso di superiorità e distacco, se ne restò di spalle. Quell’altro tale, di nome John Petrucci, Mike pensò d’averlo già visto da qualche parte, forse alla televisione. Il cantante si voltò di scatto, suscitando in un imbarazzato Mike Mangini nient’altro che terrore puro.
Uno dopo l’altro i ritmici si esibirono sulle note di A Nightmare To Remember, The Dance Of Eternity e The Spirit Carries On. Virgil Donati dei Planet X procedette a velocità pazzesche su qualsiasi cosa gli si presentasse davanti. Un sagace Marco Minnemann tentò invano di fugare ogni notizia circa il suo presunto favoritismo tenendo indosso la maglietta più sbagliata al mondo, e con ciò infastidì non poco i quattro esteti del prog metal newyorchese. Aquiles Priester – ex Angra – fece una cazzata davanti allo sguardo severo di Jordan Rudess: fu immediatamente incappucciato e riportato in Brasile, dove venne consegnato al temibile BOPE e costretto ad ascoltare per anni i soli Sepultura dell’era Greene. Il batterista dei Darkane, Peter Wildoer, sorrideva sotto ai baffi forte di un paio d’album registrati insieme al solista James LaBrie da infimo successore del precario Mangini: “un’alleanza destinata ad espandersi e perdurare!”, gli sentirono esclamare in bagno mentre sfogliava un vecchio catalogo della Negative. Derek Roddy, intanto, andava distruggendo ogni parte o sporgenza della solida batteria rossa con blast beat fuori da ogni logica o contesto. E quel fragore aveva appena risvegliato Mike dal torpore e dallo shock subiti attraverso il fatale incontro. Ci avevano provato in ogni maniera, perfino con alcuni catini di tisana al cardamomo e cannella: ma solo il batterista di Black Seeds of Vengeance lo svegliò.
Ancora confuso, il due volte ex-Annihilator posizionò i piatti a circa dodici metri d’altezza con alcune aste personalizzate che s’era portato dietro dal box segreto, al costo di compromettere la segretezza dei suoi intenti. Un rischio che si sentì di dover correre! Ubriacato dal susseguirsi di traumi e forti emozioni, Mike si mise a fare il coglione per tutta l’audizione, o almeno, finché James LaBrie non gli urlò con tono ostile di finirla, “perché è tutta una messinscena e avevamo deciso per il tuo nome prima ancora di farti volare fin qui”. John Petrucci sembrava con la testa altrove, come se il suo piano di convocare Derek Roddy per dare un tono più credibile e variopinto all’audizione, non fosse andato poi così bene. Eppure Mike Mangini era il nuovo batterista a tempo pieno dei Dream Theater. Ora osservava avaro i vecchi video di Mike Portnoy a cavallo della bellicosa Siamese Monster. Ora era pronto a spalancare il bandone del suo garage dell’Occulto per prendersi il mondo. Thomas Lang era stato sconfitto, e tutti gli altri pretendenti, o duellanti che fossero, erano andati incontro a eguale fine.
La notte stessa Mike Mangini ebbe gli incubi. Ebbe i peggiori della sua vita, per dirla tutta. Due luccicanti strutture metalliche, fuoriuscite dall’Oceano come in Pacific Rim, stavano letteralmente distruggendo New York in proporzioni non distanti dall’immaginario di Cloverfield. Con l’ausilio di un radiocomando a distanza, Mike tentava invano di fermare colei a cui attribuiva un malsano senso di paternità, e che irresponsabilmente rinforzò con enormi barre d’acciaio e dischi altissimi, i quali roteavano e minacciavano la metropoli dall’altezza dei cumulonembi. Ma questa non voleva proprio saperne di rispondere ai comandi. L’opposizione consisteva in un prodigio d’ingegneria a trecentosessanta gradi, inattaccabile, con una mezza dozzina di rullanti in faretra. Il suo manovriero giaceva semiaddormentato nel Bronx, con la testa appoggiata a una bottiglia di rum scadente, bisbigliando qualcosa a proposito del disco da registrare con gli Avenged Sevenfold. Tra una sillaba e un’altra vomitava succhi gastrici, volgeva un rapido sguardo alla distruzione di massa e se ne ritornava tutto affaccendato a sporcare il marciapiede. I due oggetti giganti si azzuffarono, cozzarono, octaban contro china Zildjian da diciotto, charleston sinistro contro il quinto rullante Tama a prua, mentre New York cadeva a pezzi palazzo dopo palazzo, porto dopo ospedale, con onde gigantesche che si innalzavano dal fiume Hudson verso tutto quel che prosperava nei paraggi. Strumenti musicali, concepiti e costruiti per alloggiare la creatività d’un gran ritmico, ora erano eretti a macchinari di morte come i carri sovrastanti le copertine dei Marduk, e minacciavano i rapporti con stati vicini come il Rhode Island, gli scambi commerciali, e il generale quieto vivere della bellicosa Nazione che mai avrebbe ammesso il generarsi di un simile scempio entro i propri confini. I caccia si levavano in cielo assumendo più formazioni da sei elementi sistemate in parallelo, “sciocchi!”, come se i loro missili potessero qualcosa contro tutti quei timpani e i vigorosi battenti degli Iron Cobra.
Mike si svegliò di soprassalto, un ceffone di James LaBrie lo aveva destato e ora quest’ultimo gli ordinava di andare ad abbassare tutti quei piatti di merda che stavano al secondo piano. E per una volta, ad anni di distanza da Elements Of Persuasion, lo svociato e imbolsito cantante aveva davvero tutta la ragione del mondo. Non c’è rimedio alcuno contro i tamarri, e chi lancia un’accusa, un monito o un insulto contro gli usi e i costumi d’un Yngwie Malmsteen dovrebbe prima dare un occhio al resto del pollaio. Perché certi batteristi si nascondono, ma è ciò che li nasconde a mettere paura. (Marco Belardi)
lol, gran pezzo di narrativa
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