Avere vent’anni: settembre 2005
GOJIRA – From Mars to Sirius
Edoardo Giardina: Mi rendo conto solo ora, con il ventennale di From Mars to Sirius, di essermi perso quello di The Link, episodio più sperimentale, in un certo qual modo, e che preferisco, della discografia dei Gojira. Gravi dimenticanze a parte, questo terzo album dei francesi è l’anello di congiunzione tra i primi due dischi e gli ultimi, successivi quattro – per inciso, col tempo ho rivalutato in positivo Magma, ma non L’enfant sauvage né Fortitude. Ci si trovano i suoni di The Link, i ritmi maggiormente serrati di Terra incognita e la maggiore linearità di The Way of All Flesh e degli altri che lo seguiranno. È fondamentalmente un album metal per tutte le stagioni che accontenta e mette d’accordo tutti e nessuno, a partire dalle trite e ritrite tematiche ecologiste e naturaliste cui (almeno all’epoca) era difficile dire di essere contrari, fino alla bella voce di Joe Duplantier, arsa e roca, passando per la prova alla batteria di Mario Duplantier e i ritmi affatto banali che spuntano ogni tanto (sentire la strofa di From the Sky) contrapposti a quelli molto più dritti e regolari di alcuni singoloni (Backbone su tutte, ma anche Flying Whales e Global Warming). From Mars to Sirius è l’album che chiunque ascolti i Gojira, sia i fan della prima ora che quelli dell’ultima, può dire di apprezzare in qualche misura. Ed è grazie a quest’album se sono arrivati a suonare alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi.
BESEECH – Sunless Days
Barg: L’estate 2005 fu un periodo piuttosto florido per quel tipo di gothic metal all’acqua di rose che andava di moda all’epoca. Il mese scorso avevamo parlato di Charon ed Entwine e stavolta tocca ai Beseech, altri grandi eroi del movimento in questione. In verità questi ultimi, anche a causa della diversa provenienza (Svezia invece che Finlandia), non potevano essere definiti un gruppo derivato dai Sentenced come i due predetti, potendo vantare uno stile molto più personale, con produzione e arrangiamenti che contribuiscono a farli variare dimolto sul canovaccio. Rispetto alla media del genere i Beseech erano un gruppo molto più rispettabile: Sunless Days, loro quinto full, è un album particolarmente interessante, assai orecchiabile e molto ben studiato, vivamente consigliato a tutti gli amanti di un certo tipo di sonorità, con una serie di pezzi bellissimi che non solo non tendono a ripetersi (sempre a differenza di quanto accadeva con gli altri due gruppi succitati) ma che rivelano una sorprendente varietà di stili e idee. Ottimi poi i cantanti, Erik Molarin e Lotta Hoglin, con un timbro simile a quello di Anneke van Giersbergen. Questo è anche l’ultimo disco prima dello scioglimento; si sono poi riformati nel 2012, hanno fatto uscire un album nel 2015 con due cantanti diversi ma sia Lotta che Erik risultano poi tornati in formazione. Chissà se faranno mai uscire qualcos’altro.
APOPTYGMA BERZERK – You and Me Against the World
Michele Romani: C’è stato un periodo della mia vita (diciamo dal 2003 al 2007, più o meno) in cui sono stato un assiduo seguace di tutto quel movimento sonoro denominato Electronic Body Music, meglio conosciuto con l’abbreviazione EBM, che in quel determinato contesto storico era vista un po’ come la “dance del metallaro”. Fidatevi che in quel periodo se ne parlava anche nei forum metal: molti magari lo facevano per farsi fighi o per acchiappare strappone gotiche, ma a me semplicemente piaceva proprio. Non tanto il ramo industriale di gente come Combichrist o Hocico ma, ovviamente, quello più pipparolo di gruppi come Icon of Coil, Blutengel, Assemblage 23, VNV Nation e Apoptygma Berzerk, gruppo norvegese dal nome impronunciabile che in quel periodo era sulla bocca di tutti. Partiti con un’intrigante miscela tra synthpop e appunto EBM, i norvegesi cominciarono a mutare con Welcome to Earth e Harmonizer, che avevano più influenze industriali e future pop, per arrivare al successone (o pietra dello scandalo, a seconda dei punti di vista) di questo You and Me Against the World. Lo stile della band qui infatti subisce un drastico cambiamento in favore di un innocuo pop rock con venature synth parecchio facilone, tanto che a volte sembra di sentire più i Placebo che gli stessi Apoptygma Berzerk. Una svolta commerciale per nulla apprezzata dai fan della prima ora della band, ma che sicuramente ne ha attirati molti altri soprattutto grazie alla megahit In This Together, ai tempi in rotazione dappertutto, composta allo scopo di vendere ma indubbiamente bellissima. Poi carucce Love to Blame e Back on Track, ma il resto è una discreta rottura di palle. Da qui in poi non li ho più seguiti e non ho neanche idea se siano ancora in giro.
THE DUSKFALL – Lifetime Supply of Guilt
Barg: Scrivo queste righe subito dopo aver scoperto della morte di Tomas Lindberg. L’evento è stato sinceramente devastante per chi ha ascoltato Slaughter of the Soul un migliaio di volte e si è riuscito ad appassionare pure ai progetti minori o per qualche motivo considerati tali a cui Tompa ha partecipato, dai The Great Deceiver a Crowned in Terror, che peraltro è di gran lunga il disco dei The Crown che ho sentito di più nella mia vita. Tutto questo perché volevo, per l’ennesima volta, esprimere il concetto che, se il detto Slaughter of the Soul ha dato vita a una slavina di gruppi, generi e sottogeneri a volte interessanti ma molto più spesso imbarazzanti, questa non è una colpa di Slaughter of the Soul. E così, se nel 2005 usciva l’ennesimo disco death-thrash uguale a mille altri a firma dell’ennesimo gruppo svedese uguale a mille altri, ribadiamo che non è colpa di Slaugher of the Soul. Poi nello specifico Lifetime Supply of Guilt non è malaccio, ha i suoi momenti e sarebbe anche un’ingiustizia paragonarlo a dischi dello stesso identico stile ma infinitamente più brutti. Nel dubbio, comunque, la cosa più giusta da fare è rimettere nello stereo Slaughter of The Soul; e questo è un principio fondamentale che non morirà mai.
HYPOCRISY – Virus
Stefano Mazza: gli Hypocrisy avevano terminato i loro argomenti più interessanti dai tempi di Abducted, per cui nel 2005 nessuno si aspettava nulla dal gruppo, arrivato al decimo album e al dodicesimo anno di esistenza. Partiti come uno dei grandi del death metal svedese, dopo una breve passaggio nel doom, gli Hypocrisy si infilarono nel death melodico di metà decennio, come fecero tanti altri, e qui, dopo esserne stati protagonisti e aver segnato quell’epoca insieme agli altri nomi insigni dell’allora nuovo genere, finirono per perdersi e per diventare irrilevanti, come tanti altri, per l’appunto. Il problema degli Hypocrisy è proprio questo, ovvero che dopo i primi anni di una carriera in cui avevano dimostrato di saper essere personali, indipendentemente dalla fase della loro carriera che si preferisce, diventarono qualcosa di irrilevante, una perdita di tempo da ascoltare. Virus non ha nulla di particolare rispetto alla precedente discografia del gruppo: è un disco di death melodico come potrebbe essere concepito e suonato da tanti altri, per quanto alcune canzoni mostrino un carattere leggermente più duro rispetto a qualche anno prima. Si attribuisce questo fatto all’ingresso del batterista Horgh (dagli Immortal) e del secondo chitarrista Andreas Holma, che avrebbero aiutato a dare maggiore energia alle composizioni. In Virus si può sentire anche una maggiore varietà stilistica, tuttavia non fa che che riprendere formule già note del gruppo o del sottogenere in generale. Dunque questo Virus va bene solo per i completisti o per chi è particolarmente affezionato al gruppo e a Peter Tägtgren. Quando si parla degli Hypocrisy a me, comunque, viene voglia di ascoltare sempre i primi due dischi.
VINTERRIKET – Der Letzte Winter – Der Ewigkeit Entgegen
Griffar: Il 2005 si colloca più o meno a metà del periodo di iper-produttività di Christoph Ziegler aka Vinterriket, che fino a tutto il 2010 in pratica ha pubblicato qualsiasi idea gli passasse per la testa. Alcune di queste erano indubbiamente molto buone, specialmente per quanto riguarda il black metal; non altrettanto interessanti erano quelle dedicate al suo evidente amore per la musica ambient. Fortunatamente per noi l’unico full da lui pubblicato quell’anno è questo Der Letzte Winter- Der Ewigkeit Entgegen, un sontuoso, oscurissimo black metal per la quasi totalità della sua non indifferente durata (va oltre l’ora). Ci sono sì tre episodi ambient, ma sono tutti brevi, sui tre minuti e mezzo, mentre i sei brani black sono quasi tutti oltre gli otto minuti. Se il suo intento era esplorare il lato oscuro della natura come da lui scritto nel booklet del CD, l’obiettivo è stato perfettamente raggiunto: sarà la produzione estremamente cupa e compressa, sarà la voce in screaming filtrato che sembra provenga da mondi alieni, saranno le tastiere che ammantano i brani, ma l’atmosfera qui è quanto di più invernale si possa immaginare, e rende alla perfezione l’ostilità di una natura estrema e malevola. Der Letzte Winter fa venire freddo, niente di meno. E quindi è un gran bel lavoro che vale la pena riscoprire. Se invece del black metal cupo e misterioso non vi frega nulla e preferite l’ambient, il Nostro pubblicò a settembre anche lo split CD con gli svedesi Northaunt, 61 minuti di musica elettro/dark ambient che boh, deve piacere perché se no diventa noiosa come poche. Io ne faccio tranquillamente a meno, ma ci sarà pur qualcuno a cui quel genere piace, no?
STRATOVARIUS – st
Barg: Devo essere sincero: non ascoltavo l’omonimo degli Stratovarius da esattamente vent’anni, cioè dalla sua uscita. L’avevo sentito qualche volta, un po’ a spizzichi e bocconi, per poi abbandonarlo quasi subito: non mi aveva lasciato un buon ricordo, e non mi è mai più venuta voglia di riascoltarlo. Del resto gli Stratovarius venivano da un periodo terribile, con il rapido declino sintetizzato nel brutto Infinite e nei terrificanti due Elements, il tutto aggravato dal tracollo della salute mentale di Timo Tolkki che a un certo punto aveva cacciato tutti, preso una tizia sconosciuta alla voce (tale Miss K) e inondato l’internet di sue immagini sanguinanti in cui parlava di apparizioni mistiche e tante altre belle cose. Con Stratovarius si fece finta che nulla fosse accaduto, col reintegro dei soliti membri e l’apparente ritorno alla normalità. Le premesse non erano per nulla buone, diciamo così, ma bisogna riconoscere che l’album non è malaccio. Di sicuro è meglio dei tre precedenti, che certo, non ci voleva molto, eppure non se lo sarebbe aspettato nessuno. Qui provano a fare qualcosa di nuovo, a partire dall’iniziale Maniac Dance, scelta pure come singolo, e più in generale abbandonando gli stilemi del power finlandese classico con doppio pedale a frullatore che aveva visto proprio loro come principali interpreti. Non si sta parlando comunque di un capolavoro, chiaramente, ma la principale accusa che si può fare al disco è semplicemente di essere ripetitivo, il che, viste le premesse, è da considerarsi un grande passo in avanti.
ARCTURUS – Sideshow Symphonies
Edoardo Giardina: Devo essere sincero: avevo un ricordo migliore di Sideshow Symphonies. Quando lo ascoltai, da giovane bassista in erba ero abbastanza in fissa con ICS Vortex e mi sembrava del tutto naturale che fosse lui la voce destinata a sostituire Garm al microfono degli Arcturus, così come era successo su stessa indicazione di Garm con i Borknagar verso fine millennio da The Archaic Course in poi – due voci che qualcuno non avrebbe esitato a definire “gallinacee“. Dell’altissimo cantante e bassista norvegese avevo ascoltato e apprezzato quasi tutto, dal periodo con i Dimmu Borgir (ridimensionato solo successivamente), al suo progetto doom, i Lamented Souls (una chicca e suo vero lascito). Sideshow Symphonies, col senno di poi va ridimensionato di molto (così come i suoi lavori con i Dimmu Borgir): nei fatti è uno scimmiottamento dell’ottimo The Sham Mirrors, sia come atmosfere spaziali, sia come struttura dell’album e delle canzoni. Hibernation Sickness Complete è una Kinetic che non ce l’ha fatta; stessa cosa per le seconde tracce, Shipwrecked Frontier Pioneer da una parte e Nightmare Heaven dall’altra. Se poi comunque Sideshow Symphonies tiene leggermente botta nelle prime due canzoni (le migliori di tutto l’album), le successive tracce non sono che una continua reiterazione di stilemi e schemi – tappeto ipnotico di basso, sintetizzatore, batteria in ritmi terzinati, con chitarra rarefatta e voce. La coazione a ripetere colpirà ancora più forte con Arcturian, buono solo a giustificare qualche nuovo tour, pagare le bollette e comprare qualche nuova bottiglia a ICS Vortex.
PAUL MCCARTNEY – Chaos and Creation in the Backyard
L’Azzeccagarbugli: La carriera solista di Paul McCartney è stata per molti anni criminalmente sottovalutata e “schiacciata” dai lavori dei suoi ingombranti ex sodali: da un lato c’era John Lennon che macinava canzoni che entravano subito nella memoria collettiva, dall’altro c’era quel monumento di All Things Must Pass di George Harrison, giustamente considerato dai più come la migliore opera di un ex Beatles. E poi c’era Paul, quello che più di tutti portava la sperimentazione nei Beatles e che, nel corso degli anni, soprattutto da solista, non si sedeva sugli allori. E se, al di là del successo commerciale, album come i primi due omonimi o RAM sono stati riconosciuti nella loro grandezza solo anni dopo, in realtà tutta la carriera di McCartney si é sempre attestata su livelli alti, anche se, sul finire dei ‘90, stava un po’ virando – comprensibilmente, se vogliamo – sul pilota automatico, culminando con una summa come Flaming Pie, ottimo album ma al tempo stesso molto “sicuro”. E da questo clima Paul esce proprio con il festeggiato del mese, Chaos and Creation in the Backyard, soprattutto grazie a Nigel Godrich che non ha paura di confrontarsi con uno dei più grandi compositori della storia, bocciandogli brutalmente alcune soluzioni – persino nei testi – e inducendolo a ritornare alle origini. Risultato? A parte alcune parentesi, McCartney suona tutto da solo, ritrova una vitalità che sembrava scomparsa, rinuncia a “svecchiare” la sua voce in studio e scrive il suo album più riuscito da anni che, quasi come una reazione a catena, lo porterà a sperimentare con progetti decisamente fuori dalla propria zona di comfort, come il terzo album del progetto Fireman (insieme a Youth dei Killing Joke) o il recente, splendido, McCartney III. E il bello é che lo fa con il suo disco più “classico” da decenni, che, grazie ad un’ispirazione rinverdita, non sembra affatto vecchio e che ancora oggi resta una delle migliori testimonianze della grandezza di Paul McCartney al di fuori dei Beatles.
EDGUY – Superheroes EP
Barg: Solo un EP, ma meritevole di attenzione per vari motivi. Innanzitutto contiene la mitologica Spooks in the Attics, una delle canzoni migliori degli Edguy, adorabile bignamino di tutte le caratteristiche che ce li hanno fatti amare nei loro anni d’oro. Poi altri due inediti: Blessing in Disguise, ballatona stracciamutande come da tradizione, e Judas at the Opera, duetto powerone con Mikael Kiske con un approccio scanzonato perfettamente in linea con il tono del precedente album Hellfire Club, per quanto mi riguarda il migliore della loro discografia. Completano la scaletta una cover dei Magnum (The Spirit) e l’adorabile singolone Superheroes, anticipazione da Rocket Ride che sarebbe uscito l’anno successivo, qui anche in una godibilissima versione acustica. In totale 26 minuti, ma basterebbe anche solo Spooks in the Attics a fargli guadagnare un posto sul vostro scaffale.
SIEBENBÜRGEN – Darker Designs and Images
Michele Romani: I Siebenbürgen sono uno dei tanti gruppi usciti fuori intorno alla seconda metà degli anni ‘90 che provarono a replicare il successo clamoroso di Dusk…and Her Embrace, tanto che per questo filone (che comprendeva anche Agathodaimon, Ancient Ceremony, Graveworm, Twilight Opera per citare i più noti) era stata appositamente coniata la definizione di gothic black metal. Ammetto senza pudore che la maggior parte di questi gruppi mi ha sempre fatto piuttosto cagare eccetto proprio i Siebenbürgen, che pur nella loro estrema derivatività un senso comunque ce l’avevano. Questo Darker Designs and Images a mio avviso è uno dei loro lavori migliori se non il migliore, probabilmente il disco della piena maturità degli svedesi, che mettono da parte il classico melodic black dei primi lavori a favore di un sound dalle marcate influenze gothic con solite leggiadre voci femminili, ma anche un certo tipico retaggio death melodico novantiano e chitarre incrociate un po’ in stile maideniano. I pezzi sono ben fatti, alcuni veramente notevolissimi (Rebellion, A Legions Rise), la produzione è azzeccatissima per il genere proposto e ci sono anche degli assoli di pregevolissima fattura. Un gruppo che per quanto mi riguarda avrebbe meritato maggior fortuna, e che invece purtroppo si sarebbe sciolto di lì a poco.
CRAFT – Fuck the Universe
Griffar: Sebbene io non sia propriamente uno dei loro più grandi estimatori, non posso esimermi dal riconoscere ai Craft l’assoluta coerenza della loro proposta musicale, portata avanti con costanza negli anni. I primi tempi in particolare modo, con la trinità Total Soul Rape – Terror Propaganda – Fuck the Universe. In pratica la formula rimane la stessa: prendere i (veri) DarkThrone, mischiarli con i Marduk un po’ a livello musicale e molto dal punto di vista concettuale, e il gioco è fatto. Qui hanno alzato al limite massimo il livello di cattiveria delle composizioni; ce l’avete presente Marty McFly all’inizio di Ritorno al Futuro, quando entra nel laboratorio di Doc ed alza al massimo tutti i settaggi del mega-amplificatore sicché appena sfiora la corda della chitarra esplode tutto? Più o meno rende l’idea, perché, se anche la velocità è meno marcata rispetto ai primi due lavori – l’apertura con Earth a Raging Blaze è addirittura un pezzo lento, Thorns in Planet’s Side ha il riff portante thrash metal e dura 7 minuti e mezzo, cosa da loro mai fatta prima, e sono solo due esempi – quello che emerge durante l’ascolto di Fuck the Universe è una rabbia incontrollata con tutto ciò che ne consegue: nichilismo, disprezzo puro, desiderio di estinzione di ogni forma di vita. Compositivamente parlando è dunque più vario del solito e, specialmente nella prima metà, non disdegna di avventurarsi in zone più atmosferiche; la seconda parte è invece più grezza e diretta, più propria del loro stile. Di sicuro i loro numerosi fan non furono delusi da questo LP, e probabilmente ne conquistarono anche molti altri perché, a loro modo, sono una cult-band. A me sinceramente non hanno mai fatto impazzire, ma questo penso sia un problema mio. Ci sono anche altri due dischi successivi, l’ultimo dei quali uscito nel 2018; se si pensa che non suonano dal vivo da una quindicina d’anni vien da chiedersi se siano ancora attivi.
CRYSTAL BALL – Timewalker
Barg: Quest’estate ho passato qualche tempo in Svizzera. È un posto che per molti versi sembra fuori dal mondo. È tutto pulitissimo, precisissimo, ordinatissimo, non c’è (letteralmente) neanche un mozzicone per terra e hai l’impressione che se dovessi buttare una cartaccia sul marciapiede arriverebbero in cinque secondi ad arrestarti e comminarti una multa di diecimila euro. I paesini sembrano ricostruzioni tirate su l’altro ieri, i cantieri sono più ordinati di una clinica privata e persino le vacche non sembrano emettere lo stesso odore delle vacche normali. I Crystall Ball vengono da una piccola cittadina alle porte di Lucerna e rispecchiano perfettamente tutte le caratteristiche della propria terra: anche loro precisi, puliti, ordinati, suonano un hard rock facilone in cui tutto è al proprio posto e in cui, ad ascoltarlo, sai già con perfetto anticipo cosa succederà nel passaggio successivo. Come potete immaginare non graffiano, non colpiscono, non sono in grado di scrivere qualcosa che ti possa rimanere in testa neanche dopo dieci ascolti. Ma neanche se ne può parlare male, perché di nuovo: è tutto al proprio posto. Unica menzione positiva per Mark Sweeney (parente?), che ha una bella voce. Ma alla fine ti dimentichi pure di lui.
MÅNEGARM – Vredens Tid
Michele Romani: Dopo tre lavori considerati un po’ unanimemente tra i capisaldi della vecchia scuola viking black svedese di fine anni ’90, i Månegarm arrivano al tanto agognato disco della svolta con questo Vredens Tid, non tanto dal punto di vista artistico quanto da quello commerciale. Questo è infatti il primo disco dei Månegarm ad avere un importante eco anche fuori dalla Svezia e rimane ancora oggi quello più conosciuto, grazie soprattutto ad un cambio stilistico per quanto mi riguarda abbastanza netto. Il retaggio black della prima produzione viene infatti messo quasi completamente da parte, in favore di un suono che guarda molto più verso i Finntroll e in cui quindi la componente folk è molto più accentuata, con frequente uso di parti acustiche (solito violino compreso) mai utilizzate in precedenza con tanta regolarità. Tra i pezzi migliori sicuramente Skymingresa e quella che è diventata una vera e propria hit, ovvero Hemfard, deliziosa semi-ballata con tanto di voce femminile che solo su Youtube ha quasi cinque milioni di visualizzazioni. Un buon disco senza ombra di dubbio, anche se le sferzate black di disconi come Nördstjarnas Tidslåder e Havets Vargar (il mio preferito) sono oramai un lontano ricordo.
FRANZ FERDINAND – You Could Have It So Much Better
Luca Venturini: Chi più chi meno, tutti prima o poi ci siamo rotti le palle del metal. Se mi dite il contrario non ci credo. A me è capitato nella seconda metà degli anni ’00. In quel periodo tornò tra l’altro alla ribalta il post-punk, e me ne appassionai. Con questo termine venivano identificati anche gruppi che proprio post-punk non erano, ma frequentavano gli stessi giri, principalmente nel Regno Unito e in Nord America, partecipavano agli stessi festival, erano praticamente parte della stessa scena e si influenzavano l’un l’altro. Pareva quasi, ma forse era solo la mia impressione, che il rock potesse tornare fondamentale per l’industria discografica. Non fu così e, anzi, durò poco. Nonostante questo, vennero fuori dei dischi che forse non rimarranno nella storia della musica ma che all’epoca erano divertentissimi ed erano freschi, giovani e pieni di vitalità. Molti gruppi si sciolsero appena dopo uno o due album. A durare di più furono quelli con una proposta più strutturata, che andava oltre al solo raccogliere fan su MySpace e tentare di scopare dopo i concerti. I Franz Ferdinand erano tra questi. You Could Have it so Much Better è il loro secondo album, uscito a nemmeno due anni di distanza dall’esordio. La band era in stato di grazia, e per promuovere l’album vennero estratti ben 4 singoli. Il loro suono è spontaneo e mette allegria, anche se oggi non ha lo stesso effetto di vent’anni fa. Non erano tra i miei gruppi preferiti di quella rinascita, perché anch’io, come l’Azzeccagarbugli, li trovavo un po’ ripetitivi, ma non si può non riconoscergli di aver tirato fuori un disco che fu un successo per loro e per quella scena tutta.
HIM – Dark Light
Barg: Con Dark Light gli HIM sfondarono sul mercato americano, quindi fecero i soldi, come si usa dire. Ascoltandolo si capisce perfettamente perché, dato che è una versione educata e socialmente accettabile del loro suono tipico, anche se paradossalmente non è leggerino come Deep Shadows & Brilliant Highlights. Su queste pagine ho sempre parlato bene degli HIM, dato che ho scritto i ventennali di tutti i loro primi album, da Greatest Lovesongs vol. 666 in poi, e ne ho sempre parlato grossomodo bene, quando non benissimo. Arrivati a questo punto, però, continuare a farsi piacere gli HIM inizia a rientrare nell’ambito delle perversioni personali: troppo americani, troppo radiofonici, persino troppo poco originali. Eppure non disprezzabili, anzi: la prima parte dell’album si lascia ascoltare tranquillamente, magari di sottofondo, anche grazie alla voce di Ville Valo, che non è cambiata. Poi il disco è troppo lungo e la seconda parte spesso sfora nel superfluo, ma questa è purtroppo da sempre una loro caratteristica. Buona comunque la produzione di Tim Palmer, che in certi frangenti riesce a impreziosirne gli arrangiamenti. Ad ogni modo Killing Loneliness potrebbe rientrare in un greatest hits del gruppo, se fosse su un doppio Cd.
KÄLTETOD – Leere
Michele Romani: Ammetto di avere da sempre un debole per la scena depressive black tedesca della prima metà degli anni 2000, quando uscirono come funghi gruppi dediti a questo black metal lento, lancinante, con vaghi tratti melodici che per comodità viene compreso nella denominazione DSBM. Nyktalgia, Regnum, Wigrid, Sterbend (ma potrei continuare per un bel po’) e questa one man band di cui andiamo a parlare avevano parecchi tratti in comune tra loro, su tutte la chiara influenza del Conte ma anche un approccio più melodico rispetto ai loro omologhi statunitensi e australiani. Leere è il primo full dei Kältetod e ancora oggi rimane la loro opera più riuscita, appena 37 minuti per tre soli pezzi dove a regnare sono unicamente oscurità e male di vivere. La produzione è caotica al punto giusto ma mai confusionaria, i riff di chiara matrice depressive tendono a ripetersi all’infinito, quasi a portarti in uno stato di trance, come quello della parte centrale della traccia omonima, un continuo mesto incrocio tra chitarra solista e ritmica di fattura pregevolissima. Purtroppo i Kältetod, rispetto a gruppi più blasonati di quel periodo, caddero un po’ nel dimenticatoio, causa anche una produzione successiva neanche lontanamente paragonabile a questo meraviglioso disco.
OBTEST – Iš Kartos į Kartą
Barg: Lituani di Vilnius, gli Obtest erano partiti nel lontano 1992 come gruppo black metal, e credo che all’epoca la scelta fosse abbastanza obbligata. Si sono però rapidamente tramutati in un gruppo pagan metal, anche se il debutto Tukstantmetis manteneva ancora ben salde le radici nel black. Il mutamento definitivo avvenne col secondo album, e questo terzo disco (il cui titolo va tradotto come “di generazione in generazione”) conferma il loro stile ormai stabile, che di black mantiene soprattutto parte della sezione ritmica, spesso in blast beat, e parte del rifferama. Per il resto è molto allegrotto, fumettosamente epico e piuttosto fomentante con un paio di birre in corpo. Il disco in sé è godibilissimo, come del resto tutti e quattro i lavori degli Obtest (il quarto Gyvybės Medis è del 2008, poi più nulla, anche se l’Archivio li segna come ancora in attività). In definitiva gli Obtest sono una versione più socialmente accettabile di Ensiferum e simili, sempre ottimi per qualche scampagnata alcolica nell’aria frizzantina dell’autunno.
DEVENDRA BANHART – Cripple Crow
L’Azzeccagarbugli: Sono stato un grandissimo estimatore di Devendra Banhart, uno che nei primi 2000, sotto l’egida della Young God di Michael Gira, aveva pubblicato album di un folk sghembo, umorale ed estremamente sentito, raggiungendo vette difficilmente superate in quel decennio con la doppietta Rejoicing in the Hands e Niño Rojo. E se ho voluto scrivere qualche riga sul buon Devendra é proprio per la profonda ammirazione che mi lega ai suoi primi quattro album. Perché da qui in poi la storia cambierà, determinate influenze “altre” (una certa psichedelia, il rock sessantiano e un immaginario ancor più “freak”), già presenti in minima parte, diventeranno predominanti, l’approccio lo-fi verrà definitivamente perso in favore di una produzione pulita e impeccabile e, senza mezzi termini, si inizierà a spegnere quella magia. Proprio a partire da questo Cripple Crow che, insieme al successivo Smokey Rolls Down Thunder Canyon, riesce a regalare ancora qualche momento pregevole, anche quando l’autore si muove verso altri lidi. Se l’apertura di Now That I Know è quasi uno sberleffo all’ascoltatore, facendogli credere che non sia cambiato nulla, se non il suono, tratteggiando un brano nickdrakeiano di elevato valore, sin dalla successiva Santa Maria De Feira, si capisce che il Nostro ha violentemente cambiato direzione, riuscendo comunque a colpire bel segno, così come nella storta filastrocca kinksiana Some People Ride the Wave, o nel brano omonimo in cui il folk degli esordi ben si sposa con atmosfere à-la The Incredibile String Band. Il resto si alterna tra brani quasi abbozzati che sembrano venire dal passato (Korean Dogwood), ma appesantiti dalla produzione, a canzoni senza capo né coda come la terribile The Beatles. Una svolta che, per molti aspetti, aumenterà la sua fama e allargherà il suo pubblico, ma che per chi scrive altro non é che l’inizio della fine.
SYMPHORCE – Godspeed
Barg: L’anno scorso avevo magnificato Twice Second, quarto album dei tedeschi Symphorce, quello coi cavallucci marini in copertina, e ribadisco ogni parola. Con questo quinto Godspeed però le cose sono abbastanza diverse, perché qui il gruppo prova ad allargare la propria gamma stilistica, col risultato di mettere troppa carne al fuoco. Concettualmente il disco rimane prog metal, anche perché all’epoca molti gruppi di questo genere tendevano a indurirsi, da Dream Theater e Symphony X in giù, ma c’è molto di più in Godspeed, che pesca dalle influenze più varie, dal powerthrash all’alternative metal di inizio millennio, dai Pantera agli Alice in Chains, dai Nine Inch Nails ai Creed, tanto che a volte ci si ritrova rintronati. Qualitativamente l’andamento è piuttosto altalenante, con pezzi clamorosi come Nowhere o Crawling Walls for You, altri belli, altri carini, altri poco riusciti. Il classico passo più lungo della gamba, ma vale comunque l’ascolto.
SARGEIST – Disciple of the Heinous Path
Gabriele Traversa: Mamma mia. Quasi come Requiem Tenebrae o, saltando di albero in albero nel magico sottobosco del metal, Iron degli Ensiferum: un disco che solo a sentirne il nome mi acchiappa per i capelli, mi agita in aria come uno straccio vecchio e mi scaraventa indietro nel tempo, alla mia adolescenza. Sento proprio la puzza del pennarello nero che scolpisce lettere brutte (sempre stato un disgrafico da competizione) su un Cd vergine preso dal vascone del discount, il rumore della stampante che stampa la trvevilsatanacattivissimome copertina, la prof che mi rompeva il cazzo e la voglia di prendere a calci in culo i nemici della croce rovesciata (inclusa quella prof che mi rompeva il cazzo). Scoperto per caso (e fatto scaricare immantinente da un amico smanettone) grazie a una pubblicità su una rivista (non ricordo ora se fosse Grind Zone o Metal Shock), Disciple of the Heinous Path è disco di marcissimo black metal finlandese, con lo screaming gracchiante di Torog che ti fa venire il cazzo durissimo e a forma di pentacolo, darkthroniano di ferro ma con personalità e suonato con sentimento. Non un lavoro rivoluzionario, ma senza dubbio un’ottima prova dei nostri figli della demoniaca tundra finnica. Probabilmente lo scoprissi ora su Youtube direi: “Ok, sì, carino… avanti il prossimo!”, ma, se posso rivisitare un nostro famoso motto: “La gente non sa cosa si è persa a non essere stata metallara a 15 anni”.
VILE – The New Age of Chaos
Griffar: Celebriamo il ventesimo compleanno del terzo disco dei grandissimi Vile, che qui in redazione hanno goduto di gran considerazione tra coloro che apprezzano il brutal death con i coglioni fumanti, tecnico sì ma non in modo esasperato, influenzato un po’ dai Cannibal Corpse, un po’ dai Malevolent Creation, un po’ dai primi Morbid Angel ma con molta farina del proprio sacco, cosa che non guasta mai. Rispetto al precedente Depopulate (che rimane il loro apice) c’è un po’ più di melodia nei riff saltellanti, spezzettati, che sorprendono sempre in quanto saturi di stop-n’-go, cambi di tempo, passaggi da una tonalità all’altra in un batter di ciglia, assoli di chitarra gustosi, sezioni di puro groove. The New Age of Chaos è meno impattante a livello di mera aggressione musicale, tuttavia senza rinunciare a lanciarsi a rotta di collo oppure a rallentare nel più profondo death metal se la cosa è appropriata. Prodotto squisitamente, con il basso in bella evidenza e senza un solo brano che non funzioni, il terzo album dei Vile offre mezz’ora (scarsa) di eccellente musica estrema. Mi verrebbe da dire “l’ultimo disco dei Vile” ma purtroppo non lo è: nel 2011 hanno fatto uscire uno schifo di disco di death melodico e sdolcinato che con il loro passato non c’entra assolutamente nulla e che vi consiglio caldamente di ignorare. I veri Vile sono i primi tre album, l’ultimo è un errore pagato caro visto che poi non hanno più pubblicato nulla.
LULLACRY – Vol. 4
Michele Romani: Qui a Metal Skunk i Lullacry non hanno ‘sto gran seguito, anzi sono convinto che molti dei pregiati collaboratori di questo blog non sanno neanche chi siano. Le eccezioni sono due: il sottoscritto e Roberto Bargone, a cui il gruppo di Helsinki ha sempre infuso un fascino particolare. Qui non c’è neanche da andare nello specifico approfondendo discorsi di stile, produzione o tecnica dei singoli membri, per una semplice ragione: i Lullacry hanno sempre scritto pezzi della madonna, nel senso che proprio raramente ne trovi uno in un loro disco che non ti ritrovi a canticchiare un secondo dopo esatto averlo finito di ascoltare. La cosa buffa è che questo Vol. 4 lo ascolto adesso per la prima volta, essendo sempre stato convinto che i Lullacry avessero detto tutto ciò che avevano dire nei primi tre lavori, un goth metal pipparolo rockeggiante con un tiro pazzesco, assoli turbonegriani e quella leggera malinconia sottotraccia tipica dei gruppi finnici, per un connubio che aveva raggiunto l’apice nello stupendo Crucify My Heart. Pensavo che replicare quest’ultimo disco sarebbe stata dura, ma fidatevi che con Vol. 4 non ci andiamo troppo lontano. Lo stile è sempre quello e i pezzi tanto per cambiare sono brevi, diretti, senza tanti fronzoli e, cosa più importante, uno più bello dell’altro. Come al solito mi ritrovo a sbattere il piedino sulle varie Love, Lust, Desire (che cazzo di ritornello), Stranger in You, Killing Time ma potrei veramente nominarvele tutte, declamate come sempre dalla voce graffiante ma allo stesso tempo angelica di Tanja Lainio. Recuperate subito questo gruppo e non fatevi ingannare da chi vi parla da gruppo “facilone” o troppo commerciale, i Lullacry aprivano in due e il fatto che non abbiano definitivamente sfondato rimane per me un assoluto mistero.
BLOOD STAIN CHILD – Idolator
Barg: Dopo i primi due album completamente votati alla causa dei Children of Bodom, qui i Blood Stain Child iniziano a fare sul serio, inserendo pian piano quegli elementi che successivamente li renderanno un gruppo così peculiare. È tutto ancora in fase embrionale, ma in Idolator inizia a prendere forma il loro stile, tanto che, in un certo senso, questo può essere considerato il loro vero debutto. La volontà di discostarsi dal frusto canone dei Children of Bodom si vede anche dal cambio di produttore, col passaggio da Anssi Kippo, storico produttore proprio dei COB, al più neutro Tue Madsen (che ha prodotto davvero di tutto, dai Moonspell agli Aborted, dai Vader ai Poisonblack). Lo stile si sposta verso un death melodico svedese grossomodo in linea coi Dark Tranquillity di Projector, sporcato, con una nonchalance tipicamente giapponese, da voci pulite, linee di chitarra molto melodiche, goticismi, giri thrash e inserti elettronici: questi ultimi diventeranno poi la loro cifra più evidente, e in Idolator cominciano a insinuarsi come di soppiatto. Gran tiro, gran pompa, gran fomento. Vivamente consigliato.
ADRAMELCH – Irae Melanox
Griffar: Nel 1988 uscì per Discomagic l’esordio dei milanesi Adramelch, uno dei primi (e poi rimasti pochissimi) esempi di progressive/epic metal pubblicati in Italia da gruppi italiani. Sebbene il lavoro fosse di enorme valore, il disco fu distribuito in modo talmente penoso da risultare introvabile fin dai sui primi giorni. Credo, in quei tempi lontani, di aver fatto ammattire i tizi di Rock’n’Folk per almeno un anno chiedendogli, ogni volta che andavo in negozio (molto spesso, dunque), se ne avevano trovato una copia. Macché. Non ci fu nulla da fare, trovai il vinile sul finire degli anni ’90 alla fiera del disco di Novegro (MI) e già lo pagai centomila lire, cioè un prezzo da collezionismo neanche basso, proprio di una rarità. Oggi vale molto di più, casomai ne cercaste una copia (e dovreste, è un disco unico). Il disastro discografico causò lo scioglimento della band, che si riformò 15 anni dopo così che Irae Melanox potesse avere un seguito. E lo ebbe: Broken History uscì nel settembre 2005, ma 17 anni non passano per caso, e quest’ultimo album non assomigliava per nulla a quanto fatto in passato. Ora gli Adramelch sono un progetto power/speed metal con influenze di metal classico tipo Fates Warning/Crimson Glory, molto melodici, con ottime e precise trame chitarristiche e con il tipico cantato altissimo preso pari pari dal gruppo più famoso di power tedesco che tutti voi conoscete. Di sicuro le composizioni sono interessanti e la produzione è anni luce avanti rispetto al primo album, ma, per quanto io abbia supportato gli Adramelch e quindi gli abbia comprato i dischi post-reunion, mi tocca dire che Broken History non è ciò che avevo sperato sarebbe stato quando con entusiasmo appresi della loro riformazione. Se vi piace il power europeo a tematiche medioevali e non conoscete Irae Melanox credo che questo disco vi sorprenderà, viceversa… Beh, io vi ho avvertiti.

























Paul McCartney è morto nel 1966 , lo sanno tutti. Si è vero tutti ci rompiamo del metal , ma questo non vuol dire finire ad ascoltare quattro Glasvegiani come i Franz Ferdinand…. questa estate gli occhi mi hanno sanguinato anche troppo con tutti sti coglioni con le t-shirt dei Teppa-twins di Manchester.
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vabbè franz ferdinand molto più di nicchia dei teppa boys, si sono rimpinzati bene le tasche st’estate
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Mi piace come in questi anniversari ci siano un botto di dischi che apprezzavo tantissimo da 17-18enne e poi crescendo ho cominciato ad apprezzare di più quelli precedenti: vedi alla voce Hypocrisy, Arcturus e Månegarm.
Poi sì, c’è stato il periodo “ok bello il metal, ma c’è altro”, ma le chitarre giocattolo di Franz Ferdinand e compagnia cantante non mi hanno mai preso. Di tutto quel filone lì mi piacevano molto i primi Liars perché almeno arricchivano il loro post-punk con sferzate noise a la Sonic Youth che per me restano il miglior gruppo rock degli ultimi 40 anni. Preferivo sbomballarmi il cervello con l’IDM di metà anni ’90 (Aphex Twin in primis) o la Goa Trance (il miglior genere “morto” di sempre)
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Idolator capolavoro assoluto.
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