Avere vent’anni: settembre 2003

A PERFECT CIRCLE – Thirteenth Step

L’Azzeccagarbugli: Devo ammetterlo: non ho mai capito davvero il senso degli A Perfect Circle. Ho sempre pensato che il gruppo di Maynard James Keenan e – rinomatissimi – soci fosse, nei migliori dei casi, una versione alternative e meno pesante dei Tool e negli episodi meno riusciti una versione scialba e diluita degli stessi. E, quando si parla di un gruppo che ha o ha avuto tra le sue fila gente di tutto rispetto, l’interrogativo iniziale diventa ancor più rilevante. Tanto premesso, e con tutti i limiti appena tratteggiati, ho sempre ritenuto Mer de Noms un disco molto riuscito perché,  nonostante tutto, composto da brani davvero convincenti e coinvolgenti, da una durata più contenuta e da una certa compattezza. Qualità che non ho mai ritrovato nelle successive – poche – uscite del gruppo, a partire dal celebrato Thirteenth Step. Intendiamoci: non si tratta di un brutto album, ci sono brani come The Outsider, Blue The Noose che sono davvero ottimi, la produzione è persino migliore di quella dell’esordio e Keenan, a livello di interpretazione, era  in stato di grazia. Il problema – che emerge ancor di più a distanza di vent’anni – è che si tratta di un disco nel complesso molto noioso. I nostri alzano il tiro, cercano di “complicare” una proposta che invece avrebbe giovato della “freschezza” dell’esordio, e il risultato convince solo in alcuni sparuti momenti e in singoli brani. Sono ben consapevole che si tratta di un’opinione impopolare, ma ho fatto davvero fatica a riascoltare per intero questo mattone e ho rivalutato in negativo brani che prima apprezzavo (A Stranger). A ciò si aggiunga che avrò sempre in antipatia Thirteenth Step perché, all’epoca, non riuscii ad entrare al loro concerto al defunto Horus Club di Roma, con i bagarini che rivendevano i biglietti a 100 euro (nel 2003!). Tirando le somme, un disco sopravvalutato sia al momento della sua uscita, sia nel ricordo – alterato – dei fan del gruppo.

ZYKLON – Aeon

Michele Romani: Descrivere gli Zyklon come gli Emperor in salsa death metal non ha reso pienamente giustizia al progetto di Samoth (anzi, Zamoth) e Trym, nato dalla voglia di sperimentare e continuare in un certo senso il cammino intrapreso con IX Equilibrium. Parlare solo di death metal per descrivere la musica degli Zyklon infatti è sempre stato riduttivo, visto le marcate influenze industrial (in realtà più nel primo che in questo) e certi retaggi di thrash moderno che possiamo trovare ad esempio nella doppietta iniziale Psyklon Aeon – Core Solution. Da questo punto di vista Aeon suona ancora più aggressivo e intricato rispetto a World ov Worms, con la micidiale coppia di asce Sechtdamon – Destructhor (già insieme in Odium e Myrkskog) a macinare riff uno più devastanti dell’altro. Il progetto, dopo il modesto Disintegrate, purtroppo s’interruppe per via della reunion degli Emperor, ma forse anche perché gli Zyklon non furono fondamentalmente mai capiti tra chi si aspettava a continuare a sentire black metal e chi magari avrebbe apprezzato qualcosa legato al death metal più tradizionale, col piccolo problema che gli Zyklon non erano né l’una né l’altra cosa.

STORMWARRIOR – Heavy Metal Fire

Barg: Ma quanto spaccavano gli Stormwarrior vent’anni fa? Questi avevano l’acciaio fuso nelle vene, le borchie che gli crescevano spontaneamente dall’epidermide e ogni cosa che facevano diventava un capolavoro assoluto di puro metallo tetesco come si deve. Sospetto che persino quando scorreggiassero riuscissero a produrre possenti inni agli dèi del metal. Heavy Metal Fire è solo un EP, ma ne parliamo lo stesso perché spacca troppo, e scusate la ripetizione. Quattro pezzi inediti più altri tre recuperati dal precedente EP Spikes and Leather, compresa una cover dei Bestial Desecration (?). L’omonima Heavy Metal Fire è una roba clamorosissima con più capacità distruttiva di un carrarmato, e avere Kai Hansen e Dirk Schlachter in cabina di regia gli dà un’ulteriore marcia in più, come se ce ne fosse stato bisogno. Da ascoltare a volume più alto possibile, così vi ringrazieranno pure i vostri vicini.

IN AETERNUM – Beast of the Pentagram

Griffar: Dopo il terzo album Nuclear Armageddon, che seguiva meno pedissequamente la direzione Dark Funeral grazie all’innesto di alcune sezioni più thrasheggianti, gli In Aeternum deliziarono i loro fan con un vinile dieci pollici in edizione limitata a 333 copie uscito per un’etichetta meno visibile della Agonia records per la quale hanno pubblicato i loro ultimi lavori prima di accomiatarvisi nel 2005 (a parte i due EP usciti poi per Pulverised records); sto parlando della Supreme Chaos records, che produsse questo EP considerabile come un divertissement per la band svedese, che, assieme al brano che dà titolo al disco giocando su un umoristico doppio senso, incide cinque cover di brani storici. I pezzi sono Black Funeral dei Mercyful Fate, Satanic Lust dei Sarcofago, By Thy Command dei Sabbat, Tormentor dei Kreator e Hades dei Bathory. Le rendition sono abbastanza fedeli, appena incattivite dal fatto che gli studi di registrazione oggi come vent’anni fa sono in grado di ottenere suoni che le antiche versioni non potevano avere neanche nel mondo dei sogni. Inoltre, il fatto che tecnicamente gli In Aeternum siano un buon centinaio di metri avanti agli esecutori originali li rende nuovamente godibili sia per chi già conosce quei brani sia per chi non aveva mai avuto occasione di ascoltarli in precedenza per motivi anagrafici. Un gradito tuffo nel passato per nostalgici o per curiosi che hanno l’occasione di ascoltare una versione un po’ più moderna di cinque brani iconici. Il disco compie vent’anni ma non li dimostra assolutamente.

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MONSTROSITY – Rise to Power

Ciccio Russo: Possiamo solo domandarci cosa sarebbero potuti diventare i Monstrosity se dopo Millennium, uno dei migliori album della storia del death metal americano, Corpsegrinder non fosse passato ai Cannibal Corpse, orfani di Chris Barnes. Da allora il gruppo diventò di fatto una sorta di progetto solista del batterista Lee Harrison, coadiuvato di volta in volta da musicisti diversi, e il risultato sarebbe stato una discografia discontinua, con tempi sempre più lunghi tra un album e l’altro ed evoluzioni stilistiche fin troppo dipendenti dalle caratteristiche di chi passava di là di volta in volta. Primo lavoro dei floridiani con una formazione a cinque, Rise to Power è più tecnico e variegato del predecessore In Dark Purity ma ha meno pezzi e troppi giri a vuoto, a partire dalla conclusiva, ehm, suite di 12 minuti Shadow of Obliteration. E letali frustate come From Wrath to Ruin, memori dei vecchi tempi, finiscono per lasciare l’amaro in bocca. Un gruppo che era nato per essere tra le punte di diamante della scena si era ormai avviato verso una relativa irrilevanza.

THE NATIONAL – Sad Songs for Dirty Lovers

Lorenzo Centini: Lei mi aveva lasciato e gli amici, sperando con questo di farmi riprendere, avevano salvato da Facebook una foto di lei, mano nella mano con lui, un individuo tale da rendere proprio difficile accettare che si appartenesse alla stessa specie. Non sortirono l’effetto sperato. Poi feci un errore: cadere sui Cure e, spinto dal testo di Apart, le mandai un messaggio. Fu un errore, ma ne feci uno ancora peggiore. Scovare Sad Songs for Dirty Lovers dei National ed ascoltarlo allo sfinimento. Contiene alcuni versi terribili. Prendete ad esempio questi: “we look older than we are / and younger than we feel”. Ma è sulle delusioni d’amore che diventa devastante. “I saw my love with pretty boy / (…) tomorrow won’t be pretty”. Domani non sarà un bel giorno. La sensazione è proprio quella, in quei casi lì. Era Murder Me Rachel, ma più in là nella scaletta Patterns of Fairytales fa ancora più male. Pericolosissima, specie se abbinata all’alcool. Insomma, penso di avervi dato una ragione sufficiente per tenervi lontani dai National. Più ancora dell’endorsement per Obama di qualche anno dopo.

THE ARRIVAL OF SATAN – Darkness Dealer

Griffar: Grandiosa band transalpina originaria della città di Grenoble, città immersa tra le montagne poco oltre il confine italiano. Ciò che trovate qui è Intransigenza pura, true unholy black metal di pura ossidiana, sette perle nere che più nere e rare è difficile trovare. L’ispirazione è palesemente Black Legions, i The Arrival of Satan sono dei perpetuatori di qualcosa che è stato grandiosamente lasciato alla storia della musica come monito ai posteri, come ebbe a dire Meyna’ch in una sua qualche recente intervista (“i posteri studieranno la mia musica”). In attesa che ciò avvenga godiamoci il disco di debutto dei T.A.O.S. (il moniker veniva spesso abbreviato così, ma a me è sempre piaciuto scriverlo per intero… l’arrivo di Satana, geniale), Darkness Dealer, sette brani perfetti con chitarre fangose, impastate e putride, e con tanto di scariche elettriche come il più marcio dei demo, il basso altissimo che ricalca fedelmente la linea delle suddette, la batteria minimale e la voce in screaming straziato. E i riff, i grandiosi riff che ti fanno saltare per la stanza come un tarantolato se hai l’accortezza di alzare sufficientemente il volume dello stereo, come nella title track che apre il disco, nella breve e straziante Drowning o nella successiva Suicide Mania… Inutile proseguire l’elenco, tutto l’album è perfetto. Inconcepibile che non abbia ricevuto elogi e menzioni d’onore già ai suoi tempi, e sarebbe doveroso risarcirlo. Dovrebbe vendere oggi le paccate di copie che non vendette allora, ma uscì in tiratura limitata di 1000 CD (tra digipak e custodia classica), troppo poche. È stato poi ristampato sul finire del decennio scorso sia in LP che in cassetta, casomai vi interessasse, ma le copie disponibili continuano ad essere poche: in totale neanche duemila tutte le versioni comprese. Per loro anche uno split 7’ EP coi Morte Incandescente e altri due album nel 2009 e nel 2015, poi più nulla.

ATOMIZER – The Only Weapon of Choice

Barg: L’uscita di questo terzo album degli Atomizer mi folgorò inaspettatamente, anche perché non conoscevo i due dischi precedenti. Il quartetto di Melbourne era un sublime interprete di quel black/thrash cafone, ignorante e buzzurro che vanta numerosissimi esponenti in giro per il mondo, ma che difficilmente è stato interpretato in modo così GREZZO come dai gruppi australiani. Riascoltando vent’anni dopo The Only Weapon of Choice: 13 Odes to Power, Decimation and Conquest (questo il magnifico titolo completo) qualcosa purtroppo mi sfugge, ma probabilmente il motivo è che una roba del genere va ascoltata in un determinato stato d’animo che a quarant’anni è più difficile da avere. Di una cosa però sono sicuro: se gli Atomizer dovessero riformarsi e dovessero passare da queste parti, io sarò in prima fila bevendo una birra dopo l’altra a perdere la voce dietro ai loro inni da battaglia alcolici.

VADER – Blood

Stefano Mazza: Dopo un capolavoro come Revelations, i Vader proseguirono nel 2003 con la loro integerrima produzione, uscendo con un nuovo EP. La maggior parte dei brani di Blood erano stati incisi nel 2002, ma erano stati esclusi da Revelations, appunto, mentre le prime due tracce furono appositamente composte e incise. Devastante l’opener Shape Shifting, più rallentata la seconda We Wait, che personalmente ritengo la meno efficace del lotto, poi con le successive si riprende la corsa, con chitarre potentissime, l’ottima batteria di Krzysztof “Doc” Raczkowski, che purtroppo qui incise per l’ultima volta in assoluto con i Vader, perché un paio d’anni dopo uscì dal gruppo e poi morì prematuramente di infarto. Un dettaglio particolare è che in questo EP c’è anche When Darkness Calls, che era il quinto brano di Revelations. Non ho mai capito questa strana ed ingombrante presenza. Comunque sia, la qualità di Blood è molto simile a quella del precedente LP e, poco dopo l’uscita di questo EP, i Vader si trovarono ad affrontare alcuni problemi e avvicendamenti nella formazione. Avviso che nella versione europea e USA l’ultimo brano è una cover di Angel of Death di Thin Lizzy, mentre nella versione giapponese si aggiunse la cover di Immortal Rites dei Morbid Angel. Non è uno dei lavori più ricordati dei Vader, ma loro si trovavano sicuramente in uno dei migliori momenti della loro carriera.

WARLUST – Trench War

Griffar: Opera unica degli olandesi Warlust, Trench War è un’aggressione criminale di puro e divertentissimo war black metal articolata in nove brani per poco meno di quarantacinque minuti di musica, bonus track comprese (comunque presenti nel CD). Il quintetto ha sfornato un piccolo gioiello di proto-black/thrash fortemente ispirato alla musica estrema anni ’80 e, nell’impostazione degli assoli di chitarra (quando presenti), anche all’heavy metal duro, puro e semplice dello stesso periodo. L’effetto finale è quello di un disco macinatimpani, ma, se avrete la pazienza di ascoltarlo con un minimo d’attenzione, vi accorgerete di quanto siano nitide le ritmiche delle chitarre e poderoso il lavoro del basso, quanto siano ben studiati i riff pure in un ambito nel quale la semplicità è essenziale al fine di ottenere un risultato che abbia un minimo di senso. Le voci straziatissime, acute anche se non infrequentemente sdoppiate o impostate persino in growling, sono caratteristiche, il lavoro della batteria è mirabile e si consente pure stacchi quasi solistici. Per un certo periodo il war black metal mi è piaciuto molto, poi è diventato una macchietta con tutti quei fuciloni, i coltellacci e le maschere antigas e me ne sono discostato, ma riascoltare a distanza di tanto tempo Trench War mi è garbato parecchio. Questa sì che era musica di valore, da riscoprire senza indugi se siete amanti del genere. Se non lo siete provate lo stesso, ma credo che gli Warlust siano già troppo violenti per orecchie poco allenate al massacro sonoro così continuo e virulento. Dopo questo disco non hanno mai pubblicato altro materiale, e il gruppo si è sciolto da un pezzo.

CHARON – The Dying Daylights

Michele Romani: I Charon, assieme ai Sentenced, sono da annoverare tra i precursori di quella scena goth finnica che imperversò tra fine anni ’90 e metà anni 2000 all’incirca, precisamente quella dai tratti un po’ più rockeggianti un po’ alla Lullacry per intenderci. È proprio questo fattore a distinguere i Charon dal marasma gotico pipparolo di quel periodo: loro avevano infatti un approccio hard rock che sicuramente pagava dazio alla band del compianto Tenkula, ma che comunque, grazie alla loro personalità, si traduceva in una serie di brani piacevoli all’ascolto. Gli argomenti trattati sono sempre quelli, amore, tristezza, suicidio, alcol, insomma le tematiche tipiche di chi metteva su un gruppo in Finlandia in quegli anni, anche perché i finlandesi non sono esattamente il prototipo delle persone solari, diciamo. Non parliamo di nulla di trascendentale, per carità, ma per chi ai tempi era, come me, piuttosto in fissa con queste sonorità ogni tanto fa piacere fare un tuffo nel passato. Anche perché parliamo di una tipologia di metal che al giorno d’oggi non suona quasi piu nessuno.

ILL NIÑO – Confession

Barg: Come già detto in occasione dell’esordio Revolution/Revoluciòn, gli Ill Niño erano un gruppo concettualmente imbarazzante che però agli esordi riuscì a tirare fuori qualcosa di carino. Nello specifico il suddetto debutto era ben riuscito, con belle melodie strappacore che si alternavano a parti più dure in stile Slipknot dei poveri; questo Confession, uscito un paio d’anni dopo, vide com’era prevedibile un ammorbidimento del suono e una produzione molto più leccata a sorreggere i ritornelloni da falò latinoamericano con procaci messicane che ondeggiano i fianchi con andamento guapo y caliente. Se però si è disposti a mettere da parte la dignità va bene anche Confession, specie i due spudoratissimi singoli How Can I Live e Unframed, che davvero sembrano l’incrocio perfetto tra gli Slipknot e i Backstreet Boys, pure nel testo (do you think of me? Do you dream of me? I always dream about you, roba che in quinta ginnasio si faceva strage di cuori). L’importante è negare sempre se qualcuno ti scopre ad ascoltare o canticchiare ‘sta roba: però un mio amico di mio cugino mi assicura che Unframed è davvero irresistibile.

PESTNEBEL – In den schwarzen Abgründen der Ewigkeit

Griffar: Si discorreva altrove di quanto fossero oscuri e violenti i gruppi di seconda fascia – anche terza – dell’underground tedesco più nascosto. Gente tipo Kaltetod, Kargvint, Klage ma anche Aske, Raven’s Empire (due dei primi gruppi di Taaken) e via dicendo. Quasi tutte meteore durate poco o pochissimo, ma che hanno inciso dischi della miseriaccia. Tra di essi anche i Pestnebel, duo di ragazzini che nel 2003 esordì con In den schwarzen Abgründen der Ewigkeit, un album grezzo, furibondo, velocissimo che fa sorridere per quanto è spontaneamente immaturo e parimenti genuino. Pestmeister Tairach si occupa delle chitarre e della voce, Nebeltroll della batteria; del basso non v’è menzione e con tutta probabilità nemmeno fu registrato, visto che nel mixaggio non se ne rinviene traccia. I pezzi sono tutti costruiti sull’alternanza parte cadenzata/sfuriata blast beat, ma fanno capolino anche arpeggi di chitarra distorta o rari interludi di chitarra acustica, a dimostrazione che i ragazzi avevano idee da sviluppare ma erano ancora troppo poco esperti per mettere a fuoco tutte le loro intenzioni. Ad esempio, l’arrangiamento di tastiera di Grabeskräfte sembra buttato lì per caso, perché anche gli Emperor usavano le tastiere quindi era doveroso che lo facessero anche loro, ma in realtà non abbellisce per nulla un brano che per la quasi totalità è fast black metal stile frullatore. Un errore di gioventù: in questo debutto se ne riscontrano molti di altrettanto evidenti, così come si rinvengono parecchie buone idee nel riffing ed in certe atmosfere cupe e malevoli (come la pseudo-outro Sunset over the Ocean of Melancholia). Ma non è il caso di trattare troppo male l’esordio dei Pestnebel (uscito come autoproduzione in Cd-r limitato a 100 copie, ulteriore esempio di artigianalità, e solo successivamente ristampato in vinile assieme al loro secondo album Der Schwarze Tod), che con l’andare del tempo sono migliorati enormemente a partire dal loro terzo album del 2008 Reich der Schatten passando per il successivo Necro (2011, forse il loro capitolo migliore) fino all’ultimo Nachtwelten del 2016, ad oggi ultima loro opera disponibile.

THE DECEMBERISTS – Her Majesty

L’Azzeccagarbugli: Come si fa a non amare i Decemberists, una band che in oltre un ventennio non ha mai sbagliato un colpo e non si è mai ripetuta pur senza perdere in termini di coerenza e che ha fatto di un indie rock a volte virato verso il pop più orchestrale, altre verso il folk e altre ancora verso il progressive, la propria bandiera? Non chiedetelo al sottoscritto, che ha  aperto la playlist del suo matrimonio con la splendida A Beginning Song tratta da What a Terrible World, What a Beautiful World. Per quanto mi riguarda, infatti, la band di Colin Meloy è una di quelle che merita solo elogi non solo per la proposta musicale, ma anche per un approccio quasi naïf che scalda il cuore e che si contrappone a hipsterismi e snobismi di sorta che attanagliano la scena indie contemporanea. Anche Her Majesty, secondo parto del gruppo (non contando il mini di esordio), merita solo elogi e nel suo quartetto iniziale mette subito in chiaro il mood del disco, l’alternanza di atmosfere e l’attenzione verso un certo tipo di “narrazione” che viene posto al centro delle canzoni. In particolare la doppietta Los Angeles, I’m Yours The Gymnast, High Above the Ground lascia stupefatti per la straordinaria capacità melodica e la perfezione dei ritornelli e per una voce che, semplicemente, non si finirebbe mai di ascoltare. Una qualità che si ritrova in tutto l’album, da Red Right Ankle a The Soldiering Life, arrivando al conclusivo folk di As I Rise che chiude quello che è, con buona probabilità, il miglior disco della prima parte della discografia dei Decemberists.

CRYFEMAL – Raising Deads… Buring Alives

Griffar: È sicuramente colpa mia, ma la proposta degli spagnoli Cryfemal non sono mai riuscito a prenderla sul serio. Negli anni ho letto tonnellate di merda riversate su progetti ben più onesti del loro: mi vengono in mente i Pagan Winter, i Suidakra, i Dunkelgrafen, tutta gente che pur non avendo cambiato la storia della musica mi è sempre sembrata molto più credibile degli iberici in questione, a parità di livello dell’offerta musicale. Immagine, la loro, spontaneamente ultra-evil-nekrosatanic-trve-stupramadonnal-christraper-angelsodomizer e chi più ne inventa meglio è, ma il tutto a me è sempre parso forzoso e privo di spontaneità. Una recita, un cosplay di gruppi thrash/death/pre-black sudamericani visivamente ancora più spinto verso il grottesco. La musica è un classico black metal trucido e brutale, scolastico, nella media; non fa schifo, sarebbe ingiusto scriverlo e potrebbe pure sembrare che io lo faccia per mera antipatia (non è così), ma in tutta la loro nutritissima discografia (9 full, 3 EP, 2 split e 2 compilation) non ho mai trovato un brano spaccaculi che sia uno, uno di quelli che ti ricordi da cima a fondo e che ti riaffiora ogni tanto, magari sotto la doccia al mattino. Raising Deads… Buring Alives è il loro debutto, ma se non fosse mai uscito le lacrime di disperazione sarebbero state poche. Forse solo un po’ da parte degli spagnoli, che riescono ad essere più sciovinisti dei francesi e sono fermamente convinti che i gruppi black usciti dalla loro terra abbiano tutto da insegnare e nulla da imparare.

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INTEGRITY – To Die/For

Ciccio Russo: Questo Ep misteriosamente spacciato per Lp (siamo sui ventitré minuti scarsi) non è affatto tra le migliori prove del gruppo di Cleveland, sfasciatosi alcuni anni prima, quando il cantante Dwid Hellion cacciò via tutti, ribattezzò per qualche tempo la band “Integrity 2000” e tentò di strizzare l’occhio ai metallari più eterodossi, calcando la mano sull’immaginario oscuro e le sperimentazioni. Qua era tornato il batterista dell’esordio ed erano arrivati un ex e un futuro membro dei notevoli Ringworm. Dal tentativo di conciliare il passato con le evoluzioni più recenti qualche buon pezzo venne fuori, certo, ma quella che fu una delle migliori formazioni di hardcore metallizzato anni ’90 era diventata poco più che l’ombra di se stessa. Nondimeno, il ventennale di ‘sto dischetto mi dà l’occasione per esortare i nostri ventiquattro lettori a recuperare i primi tre album, quelli con i fratelli Melnick, autentici classici del genere, disperati e abrasivi.

PRETTY GIRLS MAKE GRAVES – The New Romance

Barg: Per il debutto dei Pretty Girls Make Graves scrissi delle mie avventure con alcuni personaggi pazzeschi che frequentavo all’epoca, concludendo che musicalmente non avrei saputo più di tanto che dire perché, pur piacendomi tantissimo il gruppo in questione, non ho mai bazzicato più di tanto il genere. Per The New Romance il discorso è esattamente lo stesso: musicalmente siamo grossomodo lì, con forse un apporto più corposo di inserti elettronici e un piccolo sforzo di evolversi in senso post-qualcosa; tanto che i primi due album li passai direttamente su un unico CD, ché tanto erano brevi (specie il primo, che durava 27 minuti ed è quindi considerabile come un EP, essendo più breve di Reign in Blood). Siamo comunque dalle parti dell’emocore, non quello imbarazzante coi capelli piastrati che andava di moda al periodo ma quello vero, diciamo, che affondava le radici nel post-punk di dieci-quindici anni prima. Se avete un minimo interesse per il genere, provate a dargli un’occasione anche voi.

NYDVIND – Eternal Winter Domain

Griffar: I francesi Nydvind sono un altro di quei gruppi dei quali vi parlo solo io perché probabilmente li conosciamo in 5, quattro dei quali non leggono neanche Metal Skunk. Il loro debutto Eternal Winter Domain uscì per la Sacral productions, etichetta black-metal-oriented quasi al 100% . Il quasi è dovuto per l’appunto ai Nydvind, la cui proposta si può con fondatezza definire pagan metal punto e basta. Le canzoni sono tutte quante basate su tempi cadenzati, medio-lenti, non accelerano quasi mai (succede in Riding Majestic Crests, uno dei pezzi più lunghi e a mio parere più gradevoli di tutto l’album, e poche altre volte nel corso del disco) e la voce è molto più facilmente ascoltabile in tonalità epic/pagan piuttosto che in screaming, che pure esiste. L’ispirazione Bathory post-Hammerheart è palese, ci sono altresì molti momenti puramente acustici (ne abbiamo ascoltati tanti di simili nei lavori dei Falkenbach, dei Rivendell, anche dei tedeschi Menhir) e in definitiva è un peccato che un buon disco come questo sia stato così poco considerato. Probabilmente perché all’epoca se ne parlò pochissimo, inoltre chi distrattamente ne scriveva si rivolgeva a un pubblico black metal proponendo un prodotto che con il black ha scarsi punti di contatto, innescando in questo modo giudizi ingenerosi dovuti ad ascolti superficiali, sbadati quando non addirittura totalmente nulli. Se vi piace il pagan/epic metal con qualche sparuta influenza black come quello proposto dai gruppi sopraelencati Eternal Winter Domains vi piacerà, e poco importa se sono passati vent’anni.

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