Avere vent’anni: novembre 2001

IMPALED NAZARENE – Absence of War Does Not Mean Peace

Ciccio Russo: Dopo Ugra-Karma e Rapture, l’ultimo disco degli Impaled Nazarene a potersi fregiare della statura del classico. Merito di quella che è forse la migliore formazione mai avuta dai finlandesi: al basso arriva Arc V 666, un punk con la fissa delle triplette alla Steve Harris, e, dopo la poco felice parentesi con Alexi Laiho nel non memorabile Nihil, viene trovata la persona giusta per la seconda chitarra nel cofondatore dei Finntroll Somnium, che si sarebbe purtroppo tolto la vita di lì a poco. Il risultato è un album incredibile che, per quanto estremo nell’approccio e nelle tematiche (la tirata anti-Islam della title-track, allora involontariamente inserita nello spirito del tempo, oggi farebbe ululare le prefiche dei siti americani), è di un’immediatezza quasi pop, grazie a una scrittura che non sarebbe stata mai più così ispirata. Si sente quanto ci credessero parecchio sia la band che la Osmose, che li mandò a registrare agli allora quotatissimi Finnvox, la cui produzione scintillante esalta tutte le diverse componenti del suono degli Impaled Nazarene, da quella hardcore a quella black metal tout-court, dalla vena maideniana a quella motorheadiana, amalgamate in maniera mai (più) così perfetta. Possiamo, ahinoi, solo immaginare cosa sarebbe accaduto se Somnium non avesse compiuto l’insano gesto. 

SATANIC WARMASTER – Strength & Honour

Griffar: Messo al bando pressoché ovunque, perché la stupidità e la voglia di censura non finiscono mai di prosperare, Strength & Honour è l’ esordio della cult band finlandese Satanic Warmaster, da almeno quindici anni a questa parte solo-project dell’attivissimo Lauri Penttilä aka Werwolf, proprietario di quella Werewolf records artefice della pubblicazione di autentici gioielli, satanista convinto e personaggio dalle ideologie assai estreme, come appropriato per il genere che suona e produce. Il suo black metal è rozzo e brutale, privo di fronzoli, tutto impostato su riff in tremolo picking quando va in blast beat e in successioni di accordi aperti quando rallenta, richiamando alla memoria la musica black/thrash di derivazione norvegese e i mid tempo dei Bathory. Il disco è davvero violento, sconsigliabile a chi non digerisce sonorità così poco rifinite. A parte la lunga outro di nove minuti, il resto è solo raw black metal di eccellente fattura come quello che possiamo trovare sugli altri – pochi – album della band, in tutto appena cinque, contornati da una serie lunghissima di split (12), live album (7), EP, demo, collaborazioni, compilation in una discografia ufficiale di oltre 40 titoli, tutti venduti a peso d’oro nel “mercato nero”, in quanto blocked-for-sale ovunque. Complimentoni, come se qualcuno che volesse comprarli in un modo o nell’altro non li trovasse. Quest’idiozia serve solo a far fare soldi ai fottuti flippers che rivendono a prezzo decuplicato (e oltre) dischi che viceversa si potrebbero trovare a prezzi normali. Intanto l’ultimo full-length Fimbulwinter risale al 2014, e noi continuiamo ad aspettare…

MY DYING BRIDE – The Dreadful Hours

Charles: Nessun dubbio sulla qualità di questo disco. Quando uscì lo ascoltai alla nausea, poi lo misi via per molto tempo e lo ho riscoperto piacevolmente in questi giorni: un album formalmente ineccepibile che spicca per un paio di brani enormi, che citerò più sotto, e una qualità media molto alta. Andato via Calvin Robertshaw dopo 34.788%… Complete, il più sperimentale dei dischi degli inglesi che non ebbe all’epoca un grandissimo riscontro presso il pubblico (sebbene goda tutt’ora di un gruppetto di estimatori), il cui inusuale titolo pare fosse un’idea dello stesso Calvin a seguito di un suo sogno distopico, e superata una piccola crisi dovuta per ammissione di Craighan ai fattori summenzionati e che portò i My Dying Bride non molto lontani da uno scioglimento, i nostri si rimboccano le maniche e recuperano lo iato rispetto ai propri classici con un notevole The Light at the End of the World, album che sigilla il millennio nel modo più triste possibile. I funesti anni ’00 per i ragazzi di Halifax, funesti per molte band loro coeve, inaugurano una seconda fase della carriera che inizia a razzo con The Dreadful Hours e che, nonostante naturali cali fisiologici (successivi ma fino ad oggi mai rovinosi o drammatici, questo va detto) e qualche ripetizione, ci ha regalato altri album di grandissimo livello. Robertshaw, dunque, non suona più ma rimane a disposizione della band come tour manager, quindi in buoni rapporti, mentre a supporto operativo di Andrew Craighan arriva l’ottimo Hamish Glencross, che accompagnerà la band in questa fase fino a Feel the Misery. L’atmosfera qui si fa più cupa e le tematiche scavano ancora più vicine all’osso: il concept della traccia omonima che incombe in apertura, intuibile già dalla copertina, è la storia di un padre che uccide suo figlio. Ma si divaga anche con tematiche più classiche, come in Le Figlie della Tempesta (titolo proprio in italiano) che ricorda il monito di Ulisse ai suoi uomini ma che più in generale può essere interpretato come un generico avvertimento sulla pericolosità delle femmine.

ILL NIÑO – Revolution/Revoluciòn

Barg: Spacciati inizialmente come la versione latina degli Slipknot, gli Ill Niño in realtà erano più inquadrabili come la versione emo degli Slipknot, e questo al netto delle varie baila con migo, tu vida es mia etc. Da un punto di vista concettuale è ovvio che gli Ill Niño erano una porcheria imbarazzante, qualcosa di cui vergognarsi seriamente, essendo niente più che una versione da falò estivo della musica che più andava in quel periodo. Però c’è da ammettere che Revolution/Revoluciòn spacca abbastanza, al punto che non riesco a trovargli difetti. Il problema di questo disco è proprio il principio che sta alla base, perché se uno propone una versione leggerina, sentimentale e latino-americana degli Slipknot, con tanto di chitarrine spagnole, bonghetti e aperture melodiche dedicate al caliente cuerpo di una qualche Consuelo, poi non può pensare di passarla liscia senza che nessuno lo insulti. Ma, ripeto, fatte salve queste doverosissime premesse, il disco è tutto bello. Eh già, purtroppo è così. Sarebbe bello poter farne una tremenda stroncatura limitandosi a ripetere gli stereotipi sulle bande di portoricani e mettendo foto di Pablo Escobar, Ricky Martin ed Eddie Guerrero, e non è escluso che non succederà per qualcuno dei dischi successivi, visto che la magia durò solo il tempo del debutto e già dal secondo ci fu un ammorbidimento vergognoso del suono, ma, per amore della verità, qua bisogna ammettere che Revolution/Revoluciòn dura tre quarti d’ora ed è tutto bello. Personalmente l’ho sempre ascoltato più o meno di nascosto, perché non è molto dignitoso farsi scoprire a sentire gli Ill Niño, quindi prendete questa recensione come un coming out e magari, la prossima volta che siete soli e nessuno vi sente, provate ad ascoltarlo anche voi.

VOID OF SILENCE – Towards the Dusk

Michele Romani: Spesso mi chiedo come una creatura geniale come Void of Silence sia sempre stata così poco considerata tra critica e pubblico, rimanendo relegata ad una dimensione piuttosto underground per i pochi che hanno avuto la fortuna di incappare nella loro musica. Towards The Dusk è il primo capitolo con cui Riccardo Conforti e soci esprimono tutto il loro odio e disprezzo verso questa umanità malata, un doom apocalittico, funereo, ancora debitore di certe influenze black metal che pian piano scompariranno del tutto nei dischi successivi. Si può dire che rispetto alle divagazioni industrial/ambient e i campionamenti apocalittici di Criteria Ov 666 e del capolavoro Human Antithesis, questo è il disco più “metal” del lotto, tra atmosfere al limite del doom gotico e lo screaming sofferto e  lancinante di Malfeitor Fabban in tipico stile black metal. Forse ancora un po’ acerbo sotto certi punti di vista, ma perle come Elemental Pain My Private Hell già lasciano presagire le potenzialità immense di questo progetto.

UNTIL DEATH OVERTAKES ME – Symphony II: Absence of Life

Griffar: Symphony II fu il debut album dei belgi Until Death Overtakes Me (Symphony I – pubblicato in seguito – era già uscito come demo in sole tre copie), progetto solista di tale Nulll, al secolo Stijn Van Cauter, mentore o partecipante in decine di altre band che hanno come comune denominatore l’essere angoscianti e depresse oltre il limite della terapia intensiva. Il disco si trascina per 66 minuti, il pezzo più corto è la title track che dura un quarto d’ora e questo è il funeral doom metal più struggente che memoria d’uomo rammenti. La musica non è lentissima, è ben oltre. A violentare l’italiano si può scrivere lentissimissima, ma non renderebbe ancora l’idea. La sofferenza che mettono addosso questo pezzi è tra le più spesse, consistenti, materiali di tutti i tempi. Una chitarra plettrata a 15 di metronomo, tastierine puerili ma perfettamente inserite nel contesto, la batteria che praticamente non esiste – sono solo cupi colpi sui timpani e il charleston sfiorato una volta ogni tanto. Until Death Overtakes me ha reso solida la depressione, rendendola non più solo uno stato d’animo ma qualcosa di reale, che puoi toccare e ovviamente può toccare te, inghiottendoti e portandoti in un altrove dove non filtra alcun raggio di luce. La voce è quella di un mostro degli abissi. Il termine growling non basta. Non è sufficiente a descriverla. Inoltre uno dei brani (In the Mist, sedici minuti) è solo depressive ambient, senza neanche l’elemento metal, eppure mette addosso spavento, malessere e fastidio vivido. Bisogna essere appassionati totali del genere per apprezzare quest’album, ma se qualcuno cerca qualcosa di veramente estremo io lo consiglio senza esitazione. Come, naturalmente, tutti i lavori successivi dell’ancora attivo Van Cauter, che in totale ha creato dieci sermoni d’orrore che qualcuno erroneamente chiama dischi. Questa è roba da suicidio, fa venire i vermi. Ascoltata di notte al buio, farà uscire tutti i mostri che abitano sotto il vostro materasso. E stavolta non sperate di cavarvela.

solefald

SOLEFALD – Pills Against the Ageless Ills

Giuliano D’Amico: Classico esempio di come una semi-major possa rovinare una band, Pills Against the Ageless Ills fu il primo dei due album che i Solefald produssero per la Century Media, e sicuramente non uno dei loro migliori. Se il punto di forza di The Linear Scaffold e Neonism era nella sperimentazione, corroborata da un suono raffazzonato e inconcludente, il classico colore cromato dei suoni della CM finì per appiattire quel buono che poteva esserci nel disco, con buona pace di organo hammond e concept. Le cose, infatti, andarono già meglio nel periodo “norreno” in casa Season of Mist, per finire con il bububu per cui le categorie estetiche non hanno alcun senso e serve solo un atto di fede. Ne parleremo a tempo debito.

TOMAHAWK – st

Charles: Quando uscì fu oggetto di discussione. Giravano pure le solite storielle che piacciono tanto agli americani, tipo che il disco fosse stato registrato in un deserto, la definizione di cinematic rock e altre cosette messe in giro affinché se ne parlasse. Qualcuno sosteneva, forse anche io ma chi si ricorda di quello che pensavo vent’anni fa, che Tomahawk suonava come avrebbe fatto il nuovo disco dei Faith No More se non si fossero sciolti. Niente di più banale e lontano dalla realtà, anche se il concetto non è totalmente campato in aria. Nel senso che qui si trova un equilibrio tra il crossover di matrice faithnomoriana, i cui echi a prescindere da tutto sono evidentissimi anche ai sordi, e le sperimentazioni successive di Patton, che qui non scassano il cazzo, perché fondamentalmente non ve ne sono, a parte i filtri vocali che usa lui, le maschere a gas e robe del genere. Ma non c’è solo quello, c’è pure l’influenza di Melvins e Jesus Lizard. Ho parlato dei Tomahawk fino alla nausea, è un gruppo che ho sempre stimato molto perché non è un prodotto in vitro ma una band vera di gente di New York, Nashville, L.A. e San Francisco che si conosceva già da molto tempo, suonava in altre band (forse Duane Denison era l’unico al palo all’epoca), e che non aveva intenzione di tirar su il classico progetto ma una band vera e propria, tanto è vero che quest’anno è uscito l’ultimo disco, che spacca quanto il primo. L’unica cosa che voglio dire è che in questo momento non si hanno molte informazioni sullo stato di salute di Mike ma sappiamo che ha definitivamente sbroccato. Non sta bene con la capoccia e la cosa mi addolora molto, spero si riprenda il prima possibile.

EXCELSIS – Tales of Tell

Barg: Terzo disco per gli Excelsis dopo quel capolavoro di Kurt of Koppigen, di cui abbiamo abbondantemente parlato. Anche questa volta il concept lirico è incentrato sulla Svizzera, e nello specifico su Guglielmo Tell, eroe popolare probabilmente mai esistito intorno alla cui figura si è in passato raccolto il sentimento nazionale elvetico. Il power metal folkeggiante, dimesso e assai oscuro degli Excelsis si adatta molto bene a narrare queste leggende medievali ammantate di mistero, e infatti Tales of Tell riesce in pieno a trasmettere quel fascino boschivo e crepuscolare delle storie sull’eroe nazionale contenute nel Chronicon Helveticum. Non siamo ai livelli di Kurt of Koppigen, che purtroppo rimarrà insuperato nella discografia degli Excelsis, ma questo Tales of Tell è comunque un ottimo disco, ovviamente sempre impreziosito dalla spiccata personalità e originalità del gruppo, a partire dai suoni per finire alla vociaccia insieme roca ed enfatica di Munggu. Anche per queste loro peculiarità, bisogna concedere ad ogni disco il tempo, l’attenzione e la pazienza necessari, perché spesso mancano i termini di paragone per la loro musica e quindi il primo ascolto potrebbe essere assai difficile. Ma Tales of Tell merita di essere ascoltato, anche solo per il fatto che gli Excelsis sono seriamente uno dei gruppi più sottovalutati che conosca.

DECAYED – Ten Years of Steel

Griffar: Se avete mai preso in mano una copia della Settimana Enigmistica vi ricorderete della rubrica “Forse non tutti sanno che…”  in cui vengono infilate le notizie più disparate, del tipo che la più alta concentrazione di talpe del pianeta è in un paesino delle Langhe e più specificamente nell’orto di una certa famiglia. Applicato al metal, forse non tutti sanno che i portoghesi Decayed, fondati nel 1990, sono uno dei gruppi primevi del black metal, tra i più longevi in assoluto. Li conoscono in pochi, e quei pochi sono fan devoti che possiedono tutto o quasi della loro sterminata discografia (una quarantina di titoli, forse di più) e che, quando li vanno a vedere dal vivo, fanno una cagnara formidabile, come s’intuisce in quest’album dal vivo. La scaletta pesca dal loro repertorio più remoto, perché all’epoca avevano all’attivo solo i demo, tre full e alcuni split, ma non crediate che successivamente si siano spostati più di tanto da quanto potete ascoltare qui. Questo disco è per tutti coloro che adorano ancora il black metal dei primissimi tempi, pesantemente influenzato dai grandi nomi del protoblack con i Bathory su tutti, ma anche Hellhammer, Kreator, Impiety, roba putrida sudamericana e via discorrendo. Il live è registrato alla grande e ci permette di godere di tredici brani energici, blasfemi, grezzi e satanici. Non nego che non lo buttavo nello stereo da un pezzo ma niente da dire, questa roba sarà ignorante come una scarpa e rozza come un narcotrafficante colombiano ma fa ancora la sua figura. Sottovalutatissimi. Se vi garba il black metal terra-terra Ten Years of Steel fa per voi senz’altro.

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EDENBRIDGE – Arcana

Ciccio Russo: Secondo album di un pregiato gruppo austriaco, ancora attivo, che fa power sinfonico riccardone con voce femminile, tastierone bombastiche e melodie da iperglicemia. Non proprio il mio genere, anzi, tutt’altro, sebbene riconosca che, nel loro ambito, questi Edenbridge siano più che validi. E allora perché ne parlo? Ma perché, o compagni e rari amici, il signor Lanvall, mente e unico membro stabile del progetto insieme alla cantante Sabine Edelsbacher, fu il primo musicante che intervistai quando venni reclutato da Metal Shock, sulle cui pagine ebbi pure l’ardire di recensire questo Arcana.  Fu così che diedi la prima prova di una dote che poi si sarebbe rivelata vitale quando, in seguito, avrei intrapreso la mia carriera da pennivendolo professionista: parlare con sconcertante disinvoltura di cose di cui non capisco nulla e dissimulare la mia incompetenza di fronte a qualsiasi interlocutore. La fotocopia di questa intervista fu inoltre uno dei documenti che portai al colloquio per la selezione della scuola di giornalismo di Tor Vergata, a testimonianza della mia attività pregressa come imbrattacarte. Non so come diavolo feci, tra la mole di materiale a disposizione, a portarmi dietro proprio un articolo nel quale Aldo aveva sostituito “maialina” al consueto “Ciccio” tra il mio nome e il mio cognome. Nonostante la reazione perplessa della commissione, ad ogni modo, passai. 

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ULVER  – Silence Teaches You How to Sing Silencing the Singing

Giuliano D’Amico: Ultime uscite degli Ulver prima del mio trasferimento in Norvegia (con conseguente perdita della suspension of disbelief necessaria per apprezzare a fondo tutto quell’ambiente), i due EP rumoristi degli Ulver furono accolti (almeno da me) con la rassegnazione dovuta alla definitiva scomparsa del passato. C’è da dire però che già all’epoca, e ancor di più oggi, suonano come una delle migliori prove elettroniche degli Ulver, forse proprio in virtù della durata e della conseguente necessità di sintesi delle idee. Se a distanza di anni Blood Inside e War of the Roses mi sembrano polpettoni terrificanti, le sonorizzazioni di sottopassi di stazioni di periferia, panorami notturni sulla città dormiente e di nevicate sulle cime ancora riescono a parlarmi. Non è cosa da poco.

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AGATHODAIMON – Chapter III

Michele Romani: Gli Agathodaimon furono, ai tempi, uno di quelle tante band messe sotto contratto dalla Nuclear Blast, desiderosa di trovare un’altra gallina dalle uova d’oro all’indomani del clamoroso successo di Enthrone Darkness Triumphant. Ricordo di aver comprato il primo Blacken The Angel per via della meravigliosa copertina, anche se in realtà il contenuto musicale non mi aveva poi esaltato così tanto, cosa che in realtà si può dire tranquillamente anche di questo Chapter III. All’apparenza il gruppo tedesco non ha nulla che realmente non vada, soprattutto dal punto di vista delle sfavillanti produzioni che li hanno sempre caratterizzati e della preparazione tecnica notevole, il problema è che si portano dietro da sempre quel sound derivativo tra Dimmu Borgir di Enthrone e Cradle of Filth di Midian che dopo un po’ diventa a dir poco stucchevole. Se vogliamo, questo capitolo tenta un po’ di abbandonare le tipiche atmosfere gothic dei primi due dischi in favore di un classico symphonic black metal ultra pomposo e magniloquente che scorre però via senza particolari sussulti e con quella continua sensazione di già sentito.

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