Addio Alexi, fuoco di paglia e ultimo guitar hero del nostro immaginario

Non ho mai potuto sopportare Alexi Laiho, ma considero il suo carattere una componente necessaria, se non vitale, per poter plasmare ciò che fisicamente definiremmo un guitar hero. Il guitar hero, detto da uno che è mancino ma terrebbe la chitarra da destro senza avere la benché minima di cosa sia un accordo, è innanzitutto un personaggio in netto contrasto con la sua innata dote tecnica e creativa. Penso a George Lynch, probabilmente il primo guitar hero che abbia conosciuto in vita mia, e alle sue problematiche di convivenza con Don Dokken, e ancora penso all’estetica spinta di Yngwie Malmsteen e a molti altri che non v’elencherò adesso. In quasi nessun caso il guitar hero mi è simpatico, e comunque mai lo priverei di quell’etichetta che certamente non lo sminuisce né lo deride. È un guitar hero, e i sottotitoli sembrano suggerire che gli sia concesso fare lo stronzo un po’ con tutti.
Chris Broderick non è un guitar hero, per intenderci, non nel mio immaginario. È uno tanto bravo a eseguire quanto a non farmi rimanere in testa con quel che esegue. È una mente normale che suona parecchio bene, è perizia, fastidio che trasuda dalla perfezione e dalla asettica pulizia. Che Alexi Laiho non appartenesse a quest’ultima categoria lo avevamo capito subito. Dai suoi modi fare, dalla sua velata arroganza, dal live album gettato nella mischia dopo così poche pubblicazioni, dall’empatia col pubblico orientale che da sempre stravede per coloro che all’estetica, al modo di porsi stravagante e agli eccessi, hanno sempre riservato non il semplice occhio di riguardo, ma la piena attenzione. Vedi Alexi Laiho sul palco e pensi che è un guitar hero, non altro. All’epoca di Hatebreeder noi tutti pensammo che i Children of Bodom fossero la next big thing dell’heavy metal classico, e, mentre le poll delle riviste affibbiavano a Timo Tolkki lo scettro di miglior chitarrista dell’anno in prua ai migliori Stratovarius, compariva all’orizzonte questo ragazzo mingherlino, truccato all’inverosimile e addobbato di ferraglia varia. I fratelli Kaulitz in Germania non avevano ancora combinato niente di poco buono, per cui quel delirio di make-up non ci insospettì oltre alcun limite. Perdonai tutto ad Alexi Laiho: le interviste più sfacciate, la separazione da Alexander Kuoppala, i cambi di stile. Gli perdonai pure Follow the Reaper perché arrivai a comperarlo con un hype da Metallica e, al termine del tragitto d’autobus, tutto in cuffia, ero già a coda bassa e nella stretta mortale del rimorso tipico di chi c’è rimasto malissimo. Quell’album comincerà a piacermi circa cinque anni più tardi e non so ancora perché, dato che quell’album è bellissimo. Probabilmente l’ultimo manifesto di un power metal che già nel 2000 andava assumendo una dimensione sofferente. Poi il fuoco di paglia.
I Children of Bodom sono esplosi subito e durati ancor meno del pensiero di una cosa bellissima e che a detta tua va ancora prendendo forma. Non parlatemi di Hate Crew Deathroll, di Are you Dead Yet?, non parlatemi di quelli che li seguirono. Tanto meno di quelli che li seguirono. Sono tutti album che vanno dal dischetto all’improponibile, non hanno l’impulso, la forza motrice, l’arroganza dei primi tre. Non dispongono di quel tiro che ci ingannò tutti: i Children of Bodom erano la nuova next big thing, punto, un concetto del genere era divenuto di portata generazionale e si riferiva a una band sotto contratto per Spinefarm: una specie di Leicester che affonda le senatrici inglesi, un sogno. I Children of Bodom da Hate Crew Deathroll in poi, per il sottoscritto, sono come l’immaginario di quel lago macchiato da orrendi delitti che ci fu descritto in quel filmetto di merda uscito un po’ di tempo fa: acqua calma e destinata a rimanere tale. E allora me ne resto così, col pensiero di un qualcosa di magnifico che non è mai avvenuto. L’ultimo dei guitar hero, Alexi, che mi stampò in testa una manciata di meravigliose canzoni, riff, assoli, che un anno e mezzo fa si è ripresentato quasi a sorpresa con un album in cui neppure credevo e che mi è piaciuto da matti, Hexed. E poi fuoco di paglia una seconda volta, perché se crepi a 41 anni dopo essere apparso in foto smagrito, e scavato, e spento, ma nonostante tutto ciò con una innata voglia di rimetter su un gruppo e cacciare fuori altra musica, allora vuol dire che è il tuo destino. (Marco Belardi)
RIP Warheart
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Gli unici guitar hero che mi vengono in mente con una dose di simpatia nel DNA sono Paul Gilbert e Nuno Bettencurt. Così al primo colpo.
Mi permetto di ricordare che Lahio non deve avere avuto un’adolescenza facile essendo l’unico finlandese alto un cazzo e un barattolo……in mezzo a vichingi di almeno 190cm. Detto questo a me piace quello verde dippiù!
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R.I.P Wildchild!
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Netto ricordo di 20 anni fa ad ascoltare in radio Black Art, radio locale di Como, e Lake Bodom che esplose e mi fece cadere la mascella.
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Ma porca troia.
Non ero un grande fan, ma mi dispiace un sacco.
Che la terra ti sia lieve.
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Deadnight warrior, con quel cambio di ritmo improvviso e quella specie di mezzo assolo e le doppie casse a manetta. Immortale. Alexi Laiho non morirà mai.
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Il mese scorso è morta la carissima amica con cui avevo visto i Children of Bodom dal vivo a Cagliari nel 2004. Strani intrecci casuali che solo la morte sa creare nella sua imponderabile e malinconica crudeltà.
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Veramente condoglianze.
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Diamine. Condoglianze.
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