Avere vent’anni: giugno 2003
TURBONEGRO – Scandinavian Leather
Ciccio Russo: Complici gli ormai ingestibili problemi di droga del cantante Hank von Helvete, i Turbonegro si erano sciolti subito dopo aver pubblicato l’album che sembrava destinato a sancirne la consacrazione da rockstar planetarie. Il culto, nondimeno, proseguì. L’imperdibile live postumo Darkness Forever! e un disco tributo pieno di grossi nomi come Alpha Motherfuckers avevano mantenuto viva l’attenzione, nuove sezioni della Turbojugend continuavano a spuntare in ogni angolo del globo e le ristampe continuavano a vendere come il pane. Non riprovarci sarebbe stato da scemi, si capisce. In ogni caso, Scandinavian Leather fu per me una delusione terribile e lo odiai così tanto che non credo di averlo più recuperato prima del riascolto necessario a scrivere queste righe. Mi piacerebbe dire che il mio giudizio dell’epoca era stato condizionato dall’aspettativa e dal fanatismo ma, niente, è moscio come lo ricordavo. Più che moscio, fastidioso. La carica sovversiva della band norvegese appare del tutto addomesticata, nel probabile tentativo di tirare fuori un successo commerciale a tavolino. I pezzi però non mordono, le botte di adrenalina sono sporadiche, gli archi e le armonizzazioni vocali non sono al servizio di pezzi abbastanza pop da giustificare un ammorbidimento che, di per sé, poteva essere uno sbocco interessante (il giochino sarebbe riuscito molto meglio, parecchio tempo dopo, con RockNRollmachine). Ci restai talmente male da non voler nemmeno ascoltare il successivo Party Animals, che invece era una bomba ma me ne accorsi solo anni dopo.
DEBAUCHERY – Kill, Maim, Burn
Griffar: Primo episodio di una discografia oramai imponente, l’esordio dei tedeschi Debauchery è un onesto dischetto di death metal scarno e lineare senza grandi scossoni o momenti particolarmente memorabili. Accostabile a tratti a certo death’n roll di impostazione svedese, tipo i Gorefest ad un certo punto della loro carriera, Kill Maim Burn non è da buttare via ma nemmeno è un qualcosa che ci si rammarica di non aver mai ascoltato. Gli otto brani sono più o meno sullo stesso livello, il migliore a mio modo di vedere è il secondo For God, Emperor and Fatherland che segue l’omonima posta in apertura; in quest’ultima il titolo viene ripetuto ossessivamente e fastidiosamente fino allo sfinimento, una discreta rottura di palle che non è proprio il miglior biglietto da visita per il disco, anche perché è il brano più lungo di tutto il lavoro e se lo avessero accorciato di un paio di minuti non avrebbero fatto un soldo di danno. Poi, accompagnati da un death metal mai particolarmente veloce, eccessivamente tecnico o specificamente melodico/coinvolgente, si arriva al termine di questi trentasette minuti di musica senza esserne stati impressionati più di tanto. Probabilmente sono piaciuti a parecchia gente perché sono ancora in attività e hanno sempre pubblicato dischi con una certa regolarità. Buon per loro, ma per quanto mi riguarda non hanno nulla di originale, neanche l’inflazionatissimo nome: oltre a loro si contano altri nove gruppi metal chiamati Debauchery. Un po’ di fantasia in più no, eh?
MYSTIC PROPHECY – Regressus
Barg: Fermi tutti, perché qui si vola altissimo, si gode fortissimo e si picchia violentissimo. Con Regressus i Mystic Prophecy iniziano a fare veramente sul serio e, dopo un buon debutto che lasciava presagire un possibile grande futuro, qui fanno capire che hanno intenzione di mantenere tutte le promesse. Il genere è sempre quello: power metal incazzatissimo, roccioso, sempre teso all’eccellenza in ogni sua parte, partendo dal suono cristallino eppure ruvido come carta vetrata e finendo all’esecuzione, perfetta e pulitissima, dominata totalmente dalle chitarre che vomitano riff su riff, accelerano, decelerano, si fermano, ripartono e poi esplodono con i tipici assoli tendenzialmente velocissimi di Gus G. Sulla voce di Roberto Liapakis, unico sopravvissuto della formazione iniziale, non c’è nulla da dire che non abbiamo già detto: è talmente perfetto da sembrare finto, sia inteso come complimento. Alla batteria, il turnista di lusso Dennis Ekdahl (Raise Hell, Siebenburgen, Thyrfing tra gli altri) dà l’impressione di voler spaccare le pelli dei tamburi coi suoi tocchi degni di un fabbro ferraio al tornio. Regressus spacca dall’inizio alla fine, tanto che i pezzi sono più o meno tutti estrapolabili per farvene playlist da ascoltare a tavoletta in autostrada. E il meglio doveva ancora arrivare.
DEPRESY – Psychomantium Phenomenon
Griffar: Gli slovacchi Depresy hanno sempre suonato death metal sofisticato, tendenzialmente melodico, ingentilito da alcune tastiere che, senza essere troppo invadenti, fanno la loro figura, e con un cantato in growl in decomposizione totale. Secondo dei quattro album della loro discografia, Psychomantium Phenomenon in certi frangenti si discosta dal loro tipico death classico imbastardendolo con qualche remota traccia di black sinfonico e melodico. Il fatto è che i pezzi sono molto gradevoli e funzionano alla perfezione, anche grazie al botta e risposta growl/screaming. Già l’omonima in apertura ci presenta in modo più che eccellente dove vogliono andare a parare i Depresy: riff melodici, intendo dire molto melodici, armonizzazioni ben studiate, inserti, fill e divagazioni di chitarra ottimi e abbondanti, notevole energia e una velocità prevalentemente elevata. Tutto questo rende l’album vivace e dinamico, occupando in modo piacevole tre quarti d’ora del vostro tempo, così poi anche voi vi porrete la classica domanda sul perché un gruppo che scrive musica di così alta qualità non sia mai diventato celebre come avrebbe meritato. Consigliato, poi magari recuperate anche gli altri dischi, l’ultimo dei quali uscito l’anno scorso a distanza di tredici anni dal precedente. Non certo una discografia alluvionale come certe band di oggi, obiettivamente.
MASSEMORD – Skogen Kaller
Michele Romani: I Massemord sono sempre stati una band molto chiacchierata all’interno della scena black metal, tanto che si era creato un vero e proprio caso sulle origini del progetto capitanato ai tempi dall’enigmatico Lord Hastur Warmachine. Quest’ultimo si proclamava di far parte della scena “sin dai primi vagiti del black metal norvegese”, anche se in realtà nei primi anni di esistenza la band ha prodotto solo alcuni demo e si è dovuto aspettare il 2003 per il primo full. Quello che risultava un po’ strano è che questo personaggio, pur venendo da Bergen, fosse pressoché sconosciuto dalla marea di band provenienti da quell’area, tanto che i più maligni avevano addirittura ipotizzato che fosse tutta una messa in scena dell’ex cantante Cristian Renzi e che la band in realtà di norvegese non avesse nulla. Voci che da quanto ho potuto constatare sono comunque non veritiere, in quanto la band è stata fondata effettivamente da Lord Hastur che è rimasto in sella per i primi quattro dischi, di cui quest’esordio Skogen Kaller è di gran lunga il migliore. Parliamo di un classico black norvegese vecchia scuola, sulle cui classiche basi darkthroniane s’inseriscono elementi più atmosferici (le tastiere sono sempre ben presenti), aperture melodiche pregevolissime e qualche rimando viking alla Enslaved vecchia scuola. Se proprio vogliamo trovare un difetto, il disco sembra un po’ “slegato”, nel senso che ogni pezzo tende ad andare per conto suo senza che il tutto mantenga una direzione ben precisa. Nonostante ciò, c’è una manciata di composizioni veramente notevoli, come Lyset Forsvinner o la spettacolare conclusiva Den Gamlen Festningen, sicuramente la migliore del lotto. Purtroppo pian piano la band perderà tutti i suoi membri storici e la direzione intrapresa sarà più orientata al death metal, senza però neanche minimamente avvicinarsi alla qualità di questo esordio.
ULFSDALIR – Grimnir
Griffar: Sudicio, sporco, mefitico, lugubre fast black metal rozzo ed essenziale questo secondo album dei tedeschi Ulfsdalir, dei quali s’era già parlato in occasione del precedente Baldur’s Traum. Grimnir è diverso, meno palesemente ispirato da Burzum, molto più aggressivo e veloce, dalla resa sonora quasi finlandese scuola Satanic Warmster, Horna, Warloghe e via discorrendo. Decisamente migliore del suo predecessore, che si fa molta fatica a definire eccellente, al netto di una insignificante intro da neanche 30 secondi che proprio non si capisce cosa cazzo ce l’abbiano messa a fare, Grimnir si pregia di quattro pezzi tutti piuttosto lunghi – dai sette ai dieci minuti – guarniti da raffinate melodie tipicamente black metal, funebri, oscure, melmose. Un riffing eccellente caratterizza ogni brano, il basso evidentissimo accompagna ed approfondisce il suono incupendolo, il cantante gracchia incomprensibile versi scritti da corvidi adirati contro il mondo intero e tutto ciò che non è in putrefazione. Menzione d’onore per la memorabile title track. Grimnir è senz’alcun dubbio il lavoro migliore del gruppo tedesco, oramai consegnato alla storia dopo una carriera ultraventennale glorificata da otto full e quasi altrettante uscite tra demo, EP e split.
RADIOHEAD – Hail to the Thief
L’Azzeccagarbugli: Ho comprato Hail to the Thief lo stesso giorno di St. Anger. Stavo andando a Cosenza con Roberto Angolo a vedere i Deep Purple (che fecero un gran concerto) e, prima di partire, passammo da Discoteca Laziale in modo tale da poter ascoltare nel viaggio in treno i due pachidermici album grazie ai nostri DISCMAN con la funzione antishock, che non faceva saltare il disco con gli scossoni (un minuto di raccoglimento per questo ricordo di tempi lontanissimi). E restammo profondamente delusi. Di St. Anger ho già parlato, di Hail to the Thief c’è poco da dire: resta il disco meno riuscito dei Radiohead. Dopo un’apertura clamorosa con 2+2=5, che sembra quasi una bonus track di Ok Computer con i suoni degli album successivi, e le due bellissime Sit Down. Stand Up/Sail To The Moon, il disco inizia ad avere un andamento molto altalenante e a non sapere bene dove andare. Tra tentazioni elettroniche, fantasmi del passato e un’incapacità di tagliare brani decisamente loffi, Hail to the Thief per molto tempo mi è sembrato un confuso e indigeribile mattone con un buon inizio, un primo singolo – There There – carino e poco altro. Con gli anni e con gli ascolti, invece, brani come We Suck Young Blood, The Gloaming e le finali Myxomatosis e A Wolf At The Door, hanno cominciato a prendermi molto e, in generale, ogni volta che ci sono tornato su ho trovato spunti interessanti. Ciononostante, quell’assenza di coesione tra i brani, che ho sempre trovato negli altri lavori degli inglesi, unita ad un’oggettiva prolissità, mi fa sempre preferire gli altri loro album.
TROLLSKOGEN – Der Weg zur Unendlichkeit
Griffar: Fieri partecipanti alla pletora di gruppi che in un modo o nell’altro includevano la parola troll nel moniker, gli austriaci Trollskogen (la foresta dei troll, per i meno addentro agli idiomi nordici) esordirono vent’anni fa con Der Weg zur Unendlichkeit, raw black scolastico, quasi dilettantesco, con qualche sfumatura pagan black, copioso uso di effetti, chitarre zanzarose come i primi dischi usciti dalla sala di registrazione Tonstudio Hoernix, voci ispirate dal primo Silenius, quello che abbiamo potuto apprezzare in Lugburz per essere più meticolosi, basso in bella evidenza, batteria classica con la doppia cassa intenta a far saltare i coni degli speaker e poco altro (i piatti quasi non si sentono e gli splash appaiono ogni tanto in modo quasi casuale). Si intuisce quindi che il disco è prodotto di merda, il che non aiuta a far emergere dall’anonimato questi sei brani propriamente tali più due strumentali. In tutta onestà devo dire che i pezzi anche presi singolarmente non sono niente di speciale. Un’ascoltata gliela si può dare e non è che si interromperà la riproduzione colmi di disgusto, ma Der Weg zur Unendlichkeit fa una fatica bestia ad uscire dalla mediocrità. Qualche buona idea c’è, bisogna riconoscerglielo, ma nel corso dei 41 minuti abbondanti del disco i momenti d’interesse vero sono abbastanza pochi. Stendiamo un velo pietoso sulla copertina, un imbarazzante disegnino tracciato da qualche dilettante fermo alla terza elementare. A questo esordio sono seguiti altri tre album: Totenwache nel 2005, Einsamkeit nel 2009 e l’ultimo Die Weisheit des Einsiedlers nel 2016, dopodiché il silenzio. A mio parere nessuno di essi è imperdibile, però si sa che i gusti sono gusti e magari voi ci andrete matti. (perdonate l’intromissione, ma vorrei sottolineare come questo disco abbia una delle copertine più brutte di sempre, ndbarg)
BLOOD STAIN CHILD – Mystic your Heart
Barg: Dopo un debutto pienamente devoto ai primi Children of Bodom, i giapponotti Blood Stain Child coerentemente ritornarono con un secondo disco pienamente devoto ai primi Children of Bodom. Forse anche più del debutto, sia perché qui i riferimenti riescono a essere ancora più spudorati sia perché, giusto per fare i perfezionisti, per produrre l’album si sono rivolti nientemeno che ad Anssi Kippo, produttore storico dei Bodom e di una quantità spropositata di altri gruppi di qualsiasi tipo (dai Lullacry ai Bestial Devastation, dagli Entwine agli Impaled Nazarene, dagli Skepticism ai Norther, eccetera eccetera). Questo Mystic your Heart non c’entra ancora nulla con la derivazione truzza che prenderanno successivamente i suddetti giapponotti, ma è uscito meglio del primo: ha i pezzi, ha il tiro, ha qualche bel riffettino, è strutturato molto meglio e riesce ad andare molto spesso dritto al punto. Certo, se non vi piacciono i Children of Bodom potete continuare a vivere senza i primi album Blood Stain Child, o in alternativa limitarvi a scapocciare col magnifico tunz tunz metal di Stargazer.
SVARTSYN – Destruction of Man
Griffar: Destruction of Man è una fucilata, un impressionante disco di true black metal di quello che ci ha fatto impazzire nei primissimi anni ’90. Il fatto che sia uscito una decina d’anni dopo non significa un cazzo, serve solo a ribadire che quei suoni, quelle stilettate di musica furiosa lanciata a tutta velocità verso la distruzione totale non hanno età: se sei capace di scrivere riff spappolatimpani che abbiano un senso logico e una maestosa volontà di bestemmiare tutto ciò che abbia una seppur flebile parvenza di santità va bene, è tutto concesso nonché doveroso, perché questo stile di black metal è fuori dal tempo. Meno male, si ha bisogno di certezze nella vita. Già noti per essere più intransigenti dei Marduk più trucidi grazie a due carneficine intitolate The True Legend e His Majesty, gli Svartsyn hanno sempre seguito il percorso del black metal puro e semplice, con una costanza e una coerenza ammirevoli. Non cercate innovazione o originalità qui, perché non ne troverete: gli Svartsyn non hanno mai inventato nulla ma alla fine sono riusciti a fare sovente meglio di coloro che il genere hanno contribuito a forgiarlo. Quello che deve interessarvi è che ascoltare questi sette brani è un felice ritorno al passato, e quando lo stereo riproduce legnate come Archdemon of Binah, Toward Chaos o l’omonima un appassionato di black metal altro non ha da fare che genuflettersi, ringraziare di essere diventato metallaro prima e blackster poi, godersi ogni secondo dell’album e infine ringraziare ogni demone o chi per esso di aver permesso al mondo l’esistenza di un gruppo come gli Svartsyn, alfieri intransigenti di un genere che a quanto pare non mostra sintomi di decadenza.
SKYFORGER – Perkonkalve
Maurizio Diaz: Con Perkonkalve gli Skyforger si uniscono definitivamente al coro di coloro che recuperano le loro radici, il folklore, la mitologia e gli usi degli antichi avi che hanno abitato la loro terra, dunque la Lettonia e territori limitrofi. I dischi precedenti infatti si focalizzavano su battaglie, canti e leggende di guerra, mentre qui le liriche si ispirano principalmente ai miti Baltici, con tanto di trafiletto riportato sul libretto del CD o sul retrocopertina del vinile riguardante il loro impegno a ricostruire, pezzettino dopo pezzettino, un po’ di quegli antichi costumi. Diciamo che ci crediamo, perché il folk metal è una cosa seria. Perkonkalve contiene due o tre pezzi particolarmente suggestivi che non faranno fatica a convincere i più sensibili tra gli ascoltatori sulla realtà dell’operazione e sul fatto che i popoli della Semigallia danzassero veramente al ritmo di pive, cetre da tavolo e chitarroni. Che poi gli strumentini tradizionali non è che siano così preponderanti, e ovviamente ci sono anche un sacco di cavalcate, riffoni e diversi buoni spunti, dunque il disco si lascia riascoltare con piacere. Chissà cosa ne penserebbe un Nikolajs Alunāns a caso.
SETHERIAL – Endtime Divine
Griffar: I Setherial sono uno di quei gruppi che hanno avuto la fortuna/sfortuna di esordire con un capolavoro di tale portata da marchiare inevitabilmente a fuoco l’esistenza successiva. Intendiamoci, chi già li conosceva grazie allo spettacolare sette pollici För dem mitt blod non si sorprese affatto di quale strabiliante capolavoro gli svedesi avevano composto, ma, vista la scarsissima reperibilità di quel dischetto in vinile e l’allora quasi totale assenza di internet, chi si trovò al cospetto di Nord rimase a bocca aperta, probabilmente citandolo come uno dei dischi più straordinari dell’intera storia del metal e prendendolo come termine di paragone per molta musica venuta dopo, prima tra tutte quella composta dagli stessi suoi autori. Lords of the Nightrealm e Hell Eternal sono due disconi della stramadonna ma raramente è stato loro riconosciuto questo valore, perché la presenza ingombrante di Nord era impossibile da scrollarsi di dosso. Così passarono quattro altri anni prima di questo quarto full, dal titolo impegnativo e dalla copertina apocalittica a colori quasi sgargianti. Il disco non ha nulla da invidiare a Nord, ma neanche questa volta il pubblico gli ha riconosciuto questo merito. I nove pezzi sono costruiti alla perfezione, gelidi come la loro musica è sempre stata, un’overdose di blast beat che farebbero saltare come un grillo un paralitico grazie a riff lunghi ed elaborati non alla portata di tutti. Tutto il discoè strutturato in modo personale, seguendo lo stile che loro stessi si sono inventati, nel quale la malignità predomina e il disgusto per il divino è palese e sputato in faccia. Non ci sono riempitivi o cali di tensione: Endtime Divine è un eccellente disco riconducibile a quel capolavoro pazzesco che è Nord, ma senza esserne una copia conforme. Spero che se i ragazzi leggeranno queste righe considerino questo come un complimento perché è quello che vuole essere, oltre che un sentito ringraziamento a una band che ha scritto dischi storici e che purtroppo ora è dispersa nelle nebbie del tempo.

SKINLESS – From Sacrifice to Survival
Ciccio Russo: Mentre la scena europea si era avvitata in una sterile gara a clonare i The Haunted, nei primi anni duemila il circuito death americano era entrato nella sua fase più fervida dai tempi della golden age di Tampa. Nile e Dying Fetus erano i nuovi leader, i Suffocation si erano riuniti, i truci adepti dello slam avevano alzato l’asticella dell’estremismo e la Relapse aveva ancora il tocco di Mida. From Sacrifice to Survival è il secondo disco degli Skinless per l’etichetta americana e il terzo della loro carriera. Il dinamico brutal dei newyorchesi ora poggiava su una maggiore coscienza dei propri mezzi e godeva di una produzione nitida che non smorzava però un assalto affidato soprattutto a mid-tempo poderosi e scapoccioni, con le accelerazioni in secondo piano ma piazzate sempre al momento giusto. Se l’assenza di una seconda chitarra è funzionale al piglio hardcore che distingueva allora gli Skinless (il deathcore non era ancora una moda), qualche assolo non ci sarebbe stato male. E ritengo girino meglio oggi, con due chitarre. Peccato non essere ancora riuscito a vederli dal vivo.
BALTAK – Македонски бој
Griffar: Quarto e ultimo lavoro per i Baltak capitanati da Sir Gorgoroth, australiano di origine macedone e fierissimo di esserlo, al punto che in passato si credeva che questo fosse uno dei pochi progetti attivi nell’odierna Macedonia del Nord. Altro che massacri i Baltak non hanno mai inciso, e pazienza se lo screaming di S.G. non è il massimo della vita, se il riffing è semplice e senza troppe pretese, se la capacità di suonare gli strumenti più di tanto in là non si spinge, o se la diversificazione compositiva non è mai stata una loro priorità. Questo è genuino black metal, per tematiche quasi inquadrabile come war black metal, spontaneo, diretto, senza fronzoli, orpelli, barocchismi, lustrini o glitter distanti dall’eterosessualità o dalla mascolinità tossica. Nove pezzi, trentasette minuti e mezzo. Neanche tutti scaraventati in faccia a velocità da paura da cima a fondo, ma la norma è il blast beat più spinto, quindi anche un up-tempo stile Bathory risulta in proporzione meno fulmineo del normale. La missione più ardita è riuscire ad apprezzare la voce, che a tratti è talmente torturata, strillata e strepitata da essere poco digeribile anche per chi a questi estremismi vocali è avvezzo. Qualche rara tastiera arrotonda un suono che di per sé è un macello senza fine, ma, se adorate il black metal dall’impatto devastante che sbriciola qualsiasi cosa con la grazia di un bulldozer lanciato a tutta velocità, i Baltak fanno al caso vostro. Oramai inattivi dal 2004, credo si possa tranquillamente darli per disciolti anche se Metal Archives segnala altrimenti. Probabilmente Sir Gorgoroth si è dedicato a mandare avanti la sua etichetta Battlegod Productions, consegnando al passato il gruppo con il quale ha ottenuto, ai vecchi tempi, una discreta notorietà. Si è fermato al livello di cult band, ma qualche soddisfazione se l’è tolta, il ragazzo. Onore a lui.
SHAAMAN – Ritualive
Barg: Uscito a un anno di distanza dal debutto, questo album dal vivo ripropone pari pari la scaletta di Ritual, ovviamente con la stessa formazione (Matos – Mariutti – Mariutti – Confessori). C’è pure qualche cover ad effetto: Sign of the Cross, dal primo Avantasia, venuta particolarmente bene anche grazie agli ospiti Sascha Paeth e Tobias Sammet (anche in Pride); una brutta versione di Eagle Fly Free che Michael Weikath e un particolarmente spompato Andi Deris non riescono a salvare; e infine Carry On, apertura del primo Angra. Niente di troppo brillante da dire, se non che il suono troppo impastato toglie sia potenza sia brillantezza ai pezzi di quel gran bel disco che fu Ritual. Riascoltare la voce di Andre Matos all’apice della gloria fa sempre male, comunque.
BAEL – Bleeding for him
Griffar: Stratosferico EP di neanche dodici minuti per i francesi Bael, band raw black metal che, come la maggior parte dei gruppi black transalpini, spacca il culo ai passeri. L’unico intento è di radere al suolo tutto ciò che esiste sulla Terra a colpi di musica estrema, e il resto non conta nulla, non significa un cazzo. I quattro missili ad alto potenziale distruttivo si appellano L’offrande, Raping the Gift from Heaven, Le règne du sang e Ma destruction e mi sembra che siano piuttosto significativi su quale messaggio portano avanti. Tutti brevissimi, con un’attitudine crust tramutata in black metal tale da frantumare ogni forma di vita, polverizzarla o vaporizzarla senza che alcuno scampo sia lasciato alla Vita stessa. Nulla si salva, non c’è redenzione, solo e unicamente sfacelo. Il black metal propriamente detto è questo; poi ci sono le divagazioni, le contaminazioni, le ibridazioni, le evoluzioni, ma quando si parla di black metal nella più pura essenza bisogna ascoltare Bleeding for Him dei Bael o qualcosa di equivalente. La band non ha mai composto un full, indice di un’attitudine nichilista ed elitaria senza rivali, cosa assai rara se si pensa che è stata in attività dal 1998 al 2010; attualmente non si sa che fine abbiano fatto, ma assai probabilmente il progetto non esiste più da anni, ed è a mio parere una grave perdita. Nel complesso la loro discografia si riduce a sei demotape, quelle di una volta con la cassettina riciclata e la copertina fotocopiata in modo artigianale, per essere generosi, tre EP (il già citato Néant, quello in oggetto e il sette pollici Le règne du Sang) e uno split, sempre in sette pollici, con Armagedda, Secrets of the Moon e Dark Storm. Nessuno dei loro brani ha mai superato la lunghezza di tre minuti e mezzo, ma una consistente percentuale ai tre minuti non ci arriva neanche alla lontana. Raw black metal adamantino. Serve aggiungere altro?















Mystic Prophecy veramente band massiccia e meravigliosa.
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Gli Shaaman <3
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Per me sta rubrica sta alla canna del gas.
Non è questione che il metal è peggiorato. Il metal col cazzo che è peggiorato. Smettetela con sta stronzata. Date retta, è una grossa stronzata.
È che i dischi di vent’anni fa oggi li dovrebbe recensire chi è nato vent’anni dopo chi scrive su sto blog.
Prendete un paio di ventenni, venticinquenni o giù di lì e affidate a loro le recensioni della roba vecchia. Magari mettete a paragone come li vedete voi (alcuni di voi) e come li vedono i pischelli.
Date spazio ai giovani. Almeno qui. Questo sarebbe già rivoluzionario.
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Ma chi dice che il metal è peggiorato? Forse intendi male il proposito di questa rubrica, che riscopre/riesuma dischi usciti da tanto tempo e li sottrae all’oblio. Specie in tempi come questi, dove un disco uscito da due mesi è già obsoleto.
Per quel che riguarda me poi, io segnalo prevalentemente dischi che hanno avuto (spesso immeritatamente) scarsissima popolarità. Con tutto il rispetto, col cazzo che trovi 20/25enni che hanno ascoltato tutta la musica che conosco io, e che ne potrebbero parlare con cognizione di causa.
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Il mio commento voleva soffermarsi su quella che mi sembra la politica generale del blog. Non credo di fare chissà quale scoperta asserendo che, in linea di massima, scavallato il duemila, qua pare ci sia piovuta addosso solo merda. Discorso trito e ritrito, tra l’altro. Direi che siamo nell’ambito esopico. La volpe e l’uva, credo tu abbia presente la storiella. Oppure: non siano noi che siamo razzisti ma siete voi ad essere napoletani.
Traslando: a un certo punto se semo rotti er cazzo, eravamo impegnati con la fregna, la carriera e i pannolini all’orizzonte. Abbiamo altresì deciso che non eravamo noi a non capicce più un cazzo, perché di musica ne ascoltavamo molta meno, ma era colpa del metal che gradualmente è diventato ‘na mezza merdata ibridandosi col prog e poi avvitandosi sul revivalismo.
Che, per carità, si può anche comprendere ma a me suona come mi’ nonna che dice “ai miei tempi” mentre il mondo l’ha lasciata al palo.
Poi. Tutta la musica che conosci te: qua me pare che ne stai facendo un discorso su chi ce l’ha più lungo.
Io invece dico: che cazzo c’entra? Mò perché c’hai duecent’anni ti senti in diritto di poter dire che uno di venticinque capisce meno? Forse ha un altro approccio. Tu li frequenti i pischelli? Li vedi? Ci parli? Non direi, così a naso.
Questa è un’epoca in cui chi è giovane se la passa veramente demmerda. Sempre. O quasi sempre. E culturalmente non mi pare che tu esprima un repertorio culturale in controtendenza rispetto a quello che sostengo. Implicitamente stai dicendo che te la tieni stretta la poltrona.
Una volta uno che m’ha insegnato parecchio ci disse. Dividete il foglio che avete in quattro, a mò di assi cartesiani. Sulle ascisse scrivete rispettivamente: giovane/vecchio. Sulle ordinate: competente/incompetente.
Ora mettete la vostra preferenza su uno dei quattro quadranti.
Cosa pensate di aver fatto? Cosa troverete?
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È l’esatto contrario, non solo quella politica non esiste ma sono il primo che gradirebbe abbassare il più possibile l’età media del parco firme. Se un ventenne bravo si proponesse lo prenderei al volo. Ma un ventenne non è cresciuto con le riviste, perché dovrebbe voler scrivere su un blog invece di farsi un canale video?
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Questa è ancora un’epoca “testo-centrica”, come diceva non troppo tempo fa Franco Carlini. I canali video esistono in concomitanza al narcisismo che dilaga. Il che però non esaurisce affatto il campo delle tipologie umane in cerca di autore.
C’è ancora chi la faccia ce la vorrebbe mettere solo metaforicamente. Per cui, se si sapesse più apertamente che cercate giovani, chissà.
Grazie per la tua risposta, mi rincuora.
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Sì però FTW da Scandinavian Leather è una cazzo di bomba
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Scandinavian Leather invece secondo me è un degno successore di quel capolavoro assoluto che è Apocalypse Dudes (altro che Ass Cobra…). Ho trovato molto più deboli i successivi Party Animals e soprattutto Retox (quest’ultimo l’avrò ascoltato tre volte in tutto). Rock’n’roll Machine non sono manco riuscito a finire di ascoltarlo da quanto mi aveva rotto le palle. Quindi direi che non sono d’accordo su pressoché nulla di ciò che è scritto in questa recensione XD
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