Avere vent’anni: ottobre 2004

ANOREXIA NERVOSA – Redemption Process

Gabriele Traversa: Per gli Anorexia Nervosa vale lo stesso identico discorso che di solito faccio per i Dark Tranquillity, ma anche per i Soilwork, i Sonata Arctica e chissà quanti altri che ora non mi sovvengono: hanno tutte le carte in regola per piacermi ma alla fine non mi piacciono. Così come la band di pel di carota Stanne ha tutte, ma proprio tutte, le caratteristiche che ricerco nel death melodico svedese (il growl profondo e drammatico, le atmosfere malinconiche, quel romanticismo urbano da supermercato occupato di Göteborg coi magazzinieri coi guanti di lana che giocano a carte e bevono birra dando fuoco a vecchie cassette della frutta per riscaldarsi mentre fuori c’è il tramonto ecc ecc) ma, a parte una manciata di pezzi, sparsi su una carriera quasi trentennale, non me l’hanno mai contata giusta, anche gli Anorexia hanno dalla loro le tastierone imperiose, lo screaming perforante e quell’immaginario da castello pieno di nobili vampiri col parruccone assetati di sangue e vergini che si nascondono sotto al letto per non farsi prendere che a me, da sempre, manda ai pazzi. Ma com’è come non è, salvo qualche passaggio particolarmente azzeccato, non sono mai riusciti a farmi battere il cuoricino. Confermo quanto detto quattro anni fa su Drudenhaus: sostanzialmente un caos piatto e involuto. Purtroppo è così, e un po’ mi dispiace pure.

CHILDREN OF BODOM – Trashed, Lost & Strungout

Luca Venturini: Nel 2004 avevo un amico, che ora penso stia a Berlino, col quale ascoltavo spesso i Children of Bodom. Lui una volta disse una cosa che ancora mi ricordo: “Quando sei allegro (per via dell’alcol, nda) i Children of Bodom sono il miglior ascolto che puoi fare. Hanno un suono che riempie benissimo le orecchie e ti fa stare bene”. Ascoltavamo i COB compulsivamente e i due dischi che giravano di più erano il live Tokyo Warhearts, fighissimo ancora oggi, e Trashed, Lost & Strungout, appunto. Roba semplice, diretta e divertente per i sabato sera nella provincia veronese. Questo in realtà è solo un EP e onestamente ora lo trovo abbastanza dimenticabile, se preso seriamente, ma tuttavia è perfetto per lo scopo che gli avevamo dato noi: passare un bel sabato sera in compagnia dopo esservi bevuti 4/5 birre nel parcheggio degli impianti sportivi davanti casa. Il fatto che in chiusura ci sia una cover di She is Beautiful di Andrew WK dimostra quanto l’intenzione originale di Alexi Laiho, verso il quale avevamo un certa fissazione adulatoria, fosse proprio quella di farci divertire. Almeno a noi piaceva pensare fosse così.

GORGASM – Neurotripsicks

Griffar: Spaventosa band francese di brutal death metal tecnico con la particolarità di avere una ragazza alla batteria (Sandrine Bourguignon, un martello pneumatico), non vanno confusi con i loro omonimi americani, pure essi dediti al brutal death ipertecnico. Loro stessi si resero conto del possibile qui pro quo e cambiarono nome in Gorod all’altezza del 2005, e sono ancora in attività. Neurotripsicks è un disco che va ascoltato anche se non siete puristi del genere perché – a parte lasciare a bocca aperta per la perizia tecnica degli strumentisti coinvolti nel progetto – è permeato di costanti melodie che ricordano una possibile mescola tra gli Spawn of Possession, i Theory in Practice e il death/thrash di Sadus, Atheist, Cynic e fenomeni di quel calibro. Un diluvio di note lanciate ad altissima velocità vi coglierà quasi di sorpresa; continui cambi di tempo, frenetici, improvvisi, stacchi sincopati, riff melodici su note alte che arabescano ritmiche intricatissime, assoli di chitarra armonici e non banali. Smoked Skulls e Harmony in Torture sono quasi delle hit, impressionanti per creatività pura che sfiora il geniale. Come Gorod hanno ibridato il loro death metal con sempre maggiori quantità di progressive, oggi suonano qualcosa che potrebbe somigliare a quanto avrebbe potuto inventarsi Schuldiner con i Death se il fato non ci si fosse messo di mezzo.

MYSTIC PROPHECY – Neverending

Barg: Dopo l’ottimo Regressus di appena un anno prima, i Mystic Prophecy tornarono con un album inferiore alle attese. Niente di grave, sia chiaro: questo Neverending rimane un disco tutto sommato carino, che conferma le principali caratteristiche della band tedesca (o greco-tedesca), ma i cui pezzi non sono, nella loro totalità, all’altezza del recente passato. C’è qualche picco rimarchevole, ad esempio When I’m Falling o Warriors of Lies, ed è sempre piacevole ascoltare la maestria chitarristica di Gus G (come in In Hell); resta però il fatto che il terzo album dei Mystic Prophecy non è uno dei loro migliori, perlomeno limitandoci alla prima fase della discografia dei suddetti. È comunque tutto confezionato alla perfezione, come sempre; a partire dalla produzione potente e piena, merito del cantante Roberto Liapakis, per finire alle prestazioni strumentali, qui ancora appannaggio del bassista Markus Pohl (già negli Stormwitch) e del batterista Dennis Ekdahl (Thyrfing, Raise Hell, Mork Gryning, Siebenburgen, tra gli altri), per tacere del già citato Gus G. Dategli un’ascoltata, se vi piace il genere, e non fate troppo caso all’imbarazzante copertina.

AJATTARA – Tyhjyys

Michele Romani: Questo è il terzo ventennale che faccio sugli Ajattara e probabilmente comincerò a diventare ripetitivo, quindi non mi dilungherò più di tanto. Nonostante il genere proposto dalla band finlandese sia per certi versi unico nel suo genere (in trent’anni che ascolto metal non ho mai sentito una band che suoni in maniera simile), l’ex Amorphis Ruoja e soci hanno questo vizio di fare dei dischi tutti uguali, la solita miscela di death, doom e black molto catchy che si traduce in brani che non superano superano i quattro minuti di durata. Tyhjyys, rispetto ai primi due, si differenza solo per un maggior uso di synth che donano una maggiore atmosfera al tutto, per il resto siamo sul medesimo schema strofa-ritornello che si ripete all’infinito, con brani strutturalmente molto semplici ma che ti si stampano in testa sin da subito. Io personalmente sono solito ascoltarli in macchina a volume altissimo, invischiato nel folle traffico romano in modalità sfogatoio maledicendo tutto il creato, e devo dire che in questo contesto come sottofondo sono a dir poco perfetti.

GORATORY – Rice on Suede

Griffar: Non ho mai inteso cosa volesse significare il titolo del terzo album degli americani Goratory, per cui se qualcuno volesse illuminarmi ne sarei lieto. Probabilmente nulla di serio, letteralmente sarebbe “riso su pelle scamosciata”, ma ci dev’essere del nonsenso dietro, perché i testi dei Goratory sono sempre stati improntati a un humour nerissimo e macabro, possibilmente delirante. Calcolando che all’epoca avevano una ventina d’anni, la cosa ci può stare. I Goratory sono stati alfieri di quell’ondata di brutal death violentissimo nonché estremamente tecnico nato in America nei primi 2000, il che se si pensa alla loro giovanissima età ha del prodigioso; ispirandosi a gente come Cryptopsy, Suffocation, Lividity, Dying Fetus & compagnia, e mutuando un certo metodo compositivo derivato dal black metal, ottennero un risultato vincente e piacevolmente originale. Sin dall’opener A.I.D.S. (sta per Anally Injected Death Sperm, interessante, vero?) il disco è divertentissimo da ascoltare e riascoltare, perché le ultime note della conclusiva Mutilate Remodified arrivano appena 33 minuti dopo, suddivisi in nove macelli strapieni di cambi di tempo, blast, fill, riff brutali e altri più “moderati”, stacchi, persino amare melodie. Nel suo genere Rice on Suede è una cannonata, per cui se una cosa simile vi intriga procuratevelo a colpo sicuro. Avverto solo che abbondano i samples – forse qualcuno di troppo – e che il growl è davvero estremo, il batterista è una macchina, basso e chitarra formano un muro sonoro di triplo cemento armato e la produzione perfetta è a cura di Colin Davis (fondatore dei Vile, una garanzia). Buon ascolto.

NIGHTINGALE – Invisible

Barg: Invisible è un disco diviso equamente in due: metà scritta da Dan Swanö e l’altra metà scritta dal suo quasi omonimo fratello Dag, il cotitolare del progetto Nightingale. E non sarà certo un caso, ma i pezzi scritti dal fratello minore, ossia Dan, sono migliori degli altri. Quelli di Dag li trovo tendenzialmente troppo da hard rock americano anni Ottanta, ma in senso deteriore. Di contro, quelli di Dan li trovo più equilibrati, pur rimanendo grossomodo sulle stesse coordinate; ma con melodie migliori, meno sdolcinatezze, un maggiore tiro, una maggiore aderenza a stilemi più classicamente metal. In generale, a prescindere dalle differenze tra i due autori, Invisible, pur non essendo sempre perfettamente a fuoco, affascina per l’atmosfera delicata, la bella voce di Dan Swanö e certe melodie soffuse. Un po’ la storia dei Nightingale, in sintesi.

NASUM – Shift

Luca Venturini: Shift è, purtroppo, l’ultimo lavoro in studio della carriera dei Nasum, essendo morto a causa di uno tsunami Mieszko Talarczyk, cantante, a pochi mesi dalla sua uscita. Io li conobbi proprio leggendo della sua morte, che amarezza. I Nasum sono stati una band fondamentale in un genere come il grindcore e io li apprezzo, ancora e soprattutto, per aver mantenuto nel tempo una violenza distruttrice, quintessenza del genere, unita a una discreta ricerca melodica, cosa secondo me lodevole e coraggiosa da fare nel grindcore, dove non hai molto spazio di manovra. Ci sono 24 tracce per 37 minuti di ascolto. Si passa dai pezzi più rabbiosi, hardcore e crust a pezzi come Fury, Wrath o The Deepest Hole che invece propongono momenti più melodici e (quasi) rilassati. L’album è bello, vario, dinamico. Riascoltato ora il disco quasi mi commuove, e mi ero dimenticato quanto mi fosse piaciuto vent’anni fa. Se li volete ricordare questo è, come tutti gli altri della band svedese, un grandissimo disco, ottimo anche per iniziare a conoscerli.

FATES WARNING – FWX

L’Azzeccagarbugli: Sono sempre stato legato ai Fates Warning e, come si diceva tempo fa su queste pagine, non si può davvero parlare male dei Fates Warning. E questo vale, si badi, per tutte le fasi della loro carriera, da quelle più classiche degli esordi – fino all’ingresso di Ray Alder – a quella di mezzo inaugurata con No Exit, fino a quella degli ultimi vent’anni, connotata da una maggiore cupezza e apparente algidità, che parte dallo splendido DisconnectedFWX si pone in quest’ultima fase e, pur non essendo il migliore album di questo segmento della discografia degli americani – Long Day Good Night – o il più rilevante – il summenzionato Disconnected – resta un album assolutamente riuscito e molto sottovalutato. Lo è stato fin dalla sua uscita, quando ricevette anche pesanti stroncature per un suono troppo sintetico e per un’asserita “toolizzazione” del loro suono (del tutto assente) e lo continua ad essere ancora oggi, nonostante si parli di un disco che contiene un pezzo come Heal Me che non sfigurerebbe su un ideale best of dei nostri. Per non parlare di brani come Simple Human o di Crawl in cui le partiture progressive che hanno contraddistinto gli ultimi lavori della band, si mischiano ad una certa atmosfera anni ‘90 davvero notevole. Cosi come notevole è, come sempre, la prestazione di tutta la band, con in Ray Alder come sempre impressionante (son particolare, su River Wide Ocean Deep). In conclusione, l’ennesimo ottimo disco dei Fates Warning.

SUICIDAL WINDS – Wrath of God

Griffar: Ho sempre apprezzato tantissimo la musica degli svedesi Suicidal Winds, alfieri del black/thrash metal che hanno – e siamo alle solite – raccolto assai meno di quanto avrebbero meritato. Se vi piacciono gruppi come Nifelheim, Bestial Mockery, Desaster, Gravewürm, Destroyer 666, oppure tutto il black/thrash sudamericano uscito in tempi più o meno recenti, davvero non capisco perché non abbiate mai filato più di tanto una band che di mazzate ne ha tirate a destra e a manca fin dalla sua prima manifestazione (Winds of Death, 1999 se non consideriamo le quattro demo tra il 1994 e il 1998) e non ha mai cessato di farlo fino a quando è stata attiva, lungo tutta una carriera che li ha portati ad annoverare una discografia piuttosto nutrita. Wrath of God è il terzo full ed è un macello da cima a fondo. 11 brani, 33 minuti e 33 secondi, almeno la metà di essi non arriva ai tre minuti di durata. Puro odio e malevolenza messi in musica grezza, barbarica, poco rifinita e per questo spontanea, dannatamente efficace e coinvolgente. Le chitarre sono spudoratamente thrashy sebbene vengano utilizzate seguendo schemi prettamente black metal, e quello che viene fuori è una furia tempestosa più intenzionata a radere tutto al suolo piuttosto che anche solo lontanamente a emozionare. Non cercate soluzioni particolari o passaggi tecnici e intricati, qui si parla unicamente il linguaggio della violenza più efferata, in questo i Suicidal Winds sono stati assoluti maestri. A quanto sembra sono usciti di scena dopo il quinto ed ultimo album Chthonian Sun del 2014.

JON OLIVA’S PAIN – ‘Tage Mahal

Barg: Ammetto che all’inizio ci ero cascato. Il fatto che Jon Oliva uscisse con un disco solista mi aveva preso bene proprio come concetto, quindi diciamo che sono pure riuscito a sentirmi il disco parecchie volte immaginando che mi piacesse. Dico immaginando perché ricordo benissimo che il mio apprezzamento era sincero, ma vent’anni dopo reputo impossibile che questa roba mi potesse piacere sul serio. ‘Tage Mahal è brutto, non c’è molto altro da dire. È proprio una gran rottura di coglioni, a voler essere brutalmente onesti. Sembra pure partire bene, con The Dark che presenta un Jon Oliva in versione crooner e che musicalmente sembra una rimanenza dei Savatage, ma poi il disco continua e non è una bella esperienza. Probabilmente si sente l’assenza di Paul O’Neill e già all’epoca Jon Oliva non stava per niente bene, però in certi momenti ti chiedi davvero perché cazzo stai perdendo tempo a sentire sta roba. Incredibile che lo stesso mese Oliva sia uscito fuori pure con The Lost Christmas Eve dei Trans-Siberian Orchestra, ma lì Paul O’Neill c’era, cazzo se c’era.

VREID – Kraft

Michele Romani: Apprezzai ai tempi  la decisione di Sture, Steingrim e Hvall di non continuare col nome Windir dopo la tragica morte di Valfar, anche perché la cosa avrebbe avuto poco senso, visto che componeva tutto lui e gli altri erano dei session o poco più. È abbastanza naturale quindi che la musica dei Vreid sia piuttosto diversa, anche se in realtà questo esordio Kraft è sicuramente il loro disco più propriamente black e anche l’unico ad avere un minimo retaggio degli antichi fasti a nome Windir. Non a caso è il mio preferito della loro discografia, grazie a pezzi notevolissimi come Helvete o Eldast, Utan A Gro I successivi avranno un retaggio maggiormente black’n roll, eliminando quasi del tutto quel folk-viking black metal dissonante che era stato il geniale marchio di fabbrica della band madre, con risultati piuttosto deludenti.

ILLDISPOSED – 1-800 Vindication

Griffar: Usciva vent’anni fa uno dei migliori dischi dei deathster danesi Illdisposed, gruppo in attività da più di trent’anni senza essere mai riuscito a fare troppa breccia nei cuori di chi ascolta metallo pesante più o meno estremo. Provenire da una terra storicamente considerata marginale nell’universo metal probabilmente ha contribuito, eppure grandi cadute di qualità la loro musica (a parte Kokaiinum, il loro unico album-ciofeca) non ne ha praticamente avute. Lo dimostra 1-800 Vindication, un disco di death metal compatto e tritaossa che non eccede in velocità supersoniche, preferendo assestarsi perlopiù su mid tempo molto groovy, che ci mettono del tempo a logorare la resistenza delle ossa ma ne causano alfine il totale sbriciolamento. Azzeccati inserti di effetti elettronici modernizzano a tratti il suono, mentre gli assoli di chitarra sono come usuale di assoluto pregio. Se da un certo punto di vista si può associare il loro stile nel riffing alla seconda ondata di swedeath zona Göteborg, non si può ignorare il fatto che gli Illdisposed rivedono la cosa secondo il loro punto di vista, creando qualcosa che non è improprio giudicare come personale, quadrato e compatto. Del resto stiamo parlando di gente che all’epoca suonava già da più di dieci anni ed era giunta al sesto full esordendo per una major del calibro della Roadrunner. Non gli ultimi arrivati. Come al solito cattura l’attenzione il vocione “subwoofer” di Bo Summer, in questa prova più variegato del normale con incursioni in uno simil-screaming black, mentre un session provvede ad inserti di voci pulite che diversificano ulteriormente il tutto. Se in definitiva evidenti cali d’ispirazione non se ne ritrovano, è innegabile che la triade iniziale I Believe in Me/Dark/Now We’re History valga da sola tutto il disco. Rivalutatelo, e dateci dentro.

PIG DESTROYER – Terrifyer

Luca Venturini: Considerato un capolavoro del grindcore, tanto da meritarsi addirittura una bella ristampa pettinata il mese prossimo, Terrifyer dei Pig Destroyer è stato il mio secondo disco grind. A introdurmi al genere fu proprio Scott Hull, chitarrista e mente del gruppo, un paio di anni prima con Frozen Corpse Stuffed with Dope della sua altra band, gli Agoraphobic Nosebleed, con i quali sperimentava di più. Al tempo non capivo niente di grindcore, ma il nome della band era accattivante e, a differenza degli Agoraphobic, dove la batteria era suonata avvalendosi di una drum machine, qui potevo ascoltare un batterista umano. Più grezzi quindi rispetto all’altra succitata band di Hull, i Pig Destroyer se ne erano usciti con questo disco che mescola un sacco di influenze, soprattutto death metal e (ovviamente) hardcore, e a me era piaciuto parecchio inizialmente. I pezzi erano molto schizzati e il riffing non era male. Poi però scoprii il suo predecessore Prowler in the Yard e questo lo mollai. Ad ogni modo però la presenza di Frozen Corpse era ingombrante nel mio stereo, tant’è che è l’unico disco di quella serie che ascolto ancora oggi con regolarità. Le idee di Hull mi sembrava, e mi sembra ancora, che tendano ad assomigliarsi troppo, alla lunga. D’altronde questi dischi usciti tra il 2001 e il 2004 si intrecciano molto l’uno con l’altro nella mia testa. Comunque sia, Terrifyer si distingue per la sua personalità e maggior accessibilità rispetto agli altri dischi citati e, vista l’operazione di ristampa, suscita ancora molto interesse.

NOKTURNAL MORTUM – Мировоззрение

Michele Romani: Мировоззрение è il disco della piena maturità artistica dei Nokturnal Mortum, la più famosa black metal band ucraina che spesso ha fatto parlare di sé più per le ideologie politiche piuttosto marcate che per la musica, la quale però è sempre stata su livelli altissimi. Uscito originariamente solo in territorio ucraino e russo per la Oriana Records, il disco fu ripubblicato nel 2005 con titolo e testi in inglese (Weltanschauung) dalla No Colours Records, mentre i successivi saranno tutti rigorosamente in lingua madre. Rispetto al demo e ai tre full precedenti la differenza è netta (anche se in realtà qualche avvisaglia c’era già stata in Nechrist): la componente sinfonica infatti è quasi del tutto assente, in favore di un suono che pesca a piene mani dalla musica popolare ucraina. Un disco molto lungo e che potrà risultare indigesto al primo ascolto, soprattutto per chi come me ai tempi era abituato a tutto un altro stile della band di Varggoth, ma che alla lunga non può non coinvolgerti grazie a pezzi spettacolari come l’omonima o Hail Be the Heroes.

GRAVELAND – Dawn of Iron Blades

Griffar: Sebbene sia universalmente ritenuto uno dei dischi più ispirati del primo periodo pagan black dei Graveland di Rob Darken (assieme a Creed of Iron), Dawn of Iron Blades a me non ha mai fatto impazzire, proprio no. La costante ispirazione bathoriana associata al black metal retrò di band come i primissimi Kampfar o i Mayhemic Truth, specialmente questi ultimi che hanno insegnato a suonare a miriadi di band pagan black, a un certo punto ha cominciato a mostrare la corda, e il rendere le composizioni di lunghezza abnorme esagerando in almeno 4 casi su 6 appesantisce l’ascolto, al punto da renderlo indigesto già dopo poche volte. Riascoltare Iron in the Fog e Semper Fidelis, i primi due brani del disco entrambi da oltre 9 minuti, è stata una faticaccia. Nemmeno aiuta la produzione grezza e approssimativa, con le chitarre piatte e dal suono immutabile, monotono, statico, quasi del tutto privo di impatto; basso distorto tenuto piuttosto in secondo piano così come la batteria, lineare e stringata, alla quale non viene concessa divagazione alcuna, Rob che canta il suo screaming più basso del solito, quasi parlato, al quale ogni tanto associa degli urlettini acutissimi che non si sa bene cosa vogliano rappresentare. La situazione migliora quando intervengono le tastiere – di nuovo uscite pari pari da Blood Fire Death – principalmente arrangiate su riff lenti che sarebbero tutt’altro che disprezzabili se non venissero prolungati per un tempo che è lusinghiero definire eccessivo. Insomma, l’ascolto è tutta una salita, di quelle con pendenze durissime. Si scollina a fatica al termine degli 11 minuti abbondanti di While I Ride with the Valkyries (brano che chiude l’opera), poi in discesa si sente il bisogno di ascoltare qualcos’altro.

CHINCHILLA – Take No Prisoners

Barg: Power metal dal Baden-Wuerttemberg, testi a sfondo marxista e un nome tra i più imbecilli della storia. Cosa poteva andare storto? Questo Take No Prisoners è il quinto e ultimo disco dei Chinchilla ed è un caso di specie: dieci pezzi di cui sei brutti e quattro bombe atomiche. The Almighty Power, Death is the Grand Leveller e The Call che aprono il disco, Rich Hounds che lo chiude, e in mezzo una grande prova di forza del tastino skip. Nei suddetti quattro pezzi tutto sembra perfetto: il loro è un power metal molto personale, per certi versi neanche vero e proprio power metal, con il vocione roco di Thomas Laasch che urla cori da pugno in aria e i chitarroni che pompano. Produzione rozza, che funziona ma potrebbe benissimo essere una mera casualità, e che rende ancora di più Take No Prisoners un disco unico nel suo genere. Non si sa che fine abbiano fatto ed è un peccato, perché qua si riformano cani e porci ma una volta nella vita The Almighty Power su un pratone umido della Germania con la birra in mano avrei proprio voluta sentirla.

R.E.M. – Around the Sun

L’Azzeccagarbugli: Around the Sun è spesso considerato il disco meno riuscito dei R.E.M., probabilmente a giusta ragione, ma il problema non è tanto dell’album in sé, che resta comunque riuscito, ma di quello che i nostri hanno fatto prima (e anche dopo, basti pensare allo straordinario Accelerate). Tutto questo per dire che, se è vero che Around the Sun è il lavoro meno ispirato dei R.E.M., ciò non significa minimamente che si tratti di un brutto album. E del resto, come potrebbe essere poco riuscito un disco che si apre con Leaving New York, uno dei brani più struggenti su tutti i possibili addii che si devono affrontare nella vita? E che dire della perfezione pop di una I Wanted to be Wrong, o del brano che dà il titolo all’album e che riporta alla mente sonorità di un decennio prima, o anche dell’esperimento – riuscito – di The Outsider, in cui nella musica del trio di Athens fa capolino, per la prima volta, il rap grazie al featuring di Q-Tip. Peccato per la presenza di veri e propri filler, di altri momenti di palese – e più che giustificato – mestiere che, uniti ad una durata eccessiva, non possono far ritenere Around The Sun allo stesso livello dei suoi predecessori.

THUNDERBOLT – Inhuman Ritual Massmurder

Griffar: Terzo di quattro album, cui si aggiungono un demo e un EP ripubblicati sotto forma di split con i Kataxu, Inhuman Ritual Massmurder annichilisce da quanto è sbalorditivamente violento. Esponenti di spicco della scena black polacca della prima ora, rispetto ad altri mostri sacri i Thunderbolt sono stati molto meno prolifici e fortunati, ma non meno meritevoli. Brani come Chaos Reign Over Megiddo o Ashes to Ashes… Death to All sono ai vertici del fast black metal e competono con progetti simili localizzati più che altro in Svezia: In Battle, Marduk quando erano ispirati, gli ultimi Setherial. Tuttavia più di una volta mi è sembrato di rinvenire tracce di death americano brutale e faccio pure il nome preciso dei Malevolent Creation, quelli di Eternal e In Cold Blood specialmente, a dimostrazione che se sei un compositore con i controcazzi te ne infischi di sconfinare in altri generi, il risultato sarà eccellente comunque. Il batterista Stormblast (pure negli Infernal War, gruppo che dai Thunderbolt ha preso moltissimo) è sconvolgente, il cantante/chitarrista Necrosodom di death metal ne mastica parecchio vista la sua militanza negli Anima Damnata (e nei Deus Mortem, gruppo non distante dai Blaze of Perdition) deliziandoci con uno screaming non esasperato in stile svedese. Paimon alla seconda chitarra è colui che il gruppo lo ha fondato quando ancora militava nei Veles, e fa spavento pure lui. Tutti assieme sono una forza della natura, ovviamente distruttiva, e hanno fatto dei Thunderbolt un’entità di culto. Se suoni black metal a certi livelli, con album del calibro di Inhuman Ritual Massmurder ti ci devi confrontare, ed è tutt’altro che improbabile uscirne sconfitti. Non c’è una sola nota fuori posto, pure i due interludi acustici sono fenomenali. Un disco da mal d’orecchie, una carneficina impressionante alla quale è difficile trovare termini di paragone. Ma poi, infine, a che servirebbe? Inimitabili, sono durati troppo poco, purtroppo.

TRANS-SIBERIAN ORCHESTRA – The Lost Christmas Eve

Barg: I bambini riescono a percepire l’atmosfera natalizia meglio di chiunque altro. Saranno i film che trasmettono in quel periodo, saranno i regali, le feste di famiglia o il rito del presepe e dell’albero di Natale, oppure sarà semplicemente l’innocenza del cuore puro dei bimbi, non lo so. È innegabile comunque che una delle primissime conseguenze dell’età adulta è la perdita quasi completa di quelle sensazioni che da piccoli percepivamo come magiche. C’è però una cosa che, quantomeno a me personalmente, riesce a far tornare quell’atmosfera di ingenuità e innocenza, e non è Il canto di Natale di Topolino ma i Trans-Siberian Orchestra. Ovviamente per apprezzare questi ultimi bisogna essere delle brave persone e non dei sudici infami bastardi e spie come i miei colleghi del qui presente blog, che in grande maggioranza non riescono neanche ad apprezzare i Savatage degli anni Novanta, figurarsi la creatura di Robert Kinkel, Paul O’Neill e Jon Oliva, che coi Savatage ha molto più che una semplice affinità: qui dentro li troviamo praticamente tutti, Chris Caffery, John Lee Middleton, Zachary Stevens e pure Al Pitrelli ed Alex Skolnick, che dai Savatage ci erano passati. The Lost Christmas Eve è l’ennesimo gioiellino firmato Trans-Siberian Orchestra, qualcosa che ha senso sentire solo sotto Natale ma che in cambio restituisce, appunto, esattamente quelle emozioni che pensavamo fossero perdute per sempre. Passano gli anni, eppure la seconda parte di What Child is This? continua a farmi venire la pelle d’oca ogni volta, con quella prova vocale meravigliosa di Rob Evan che qua sembra il miglior cantante del mondo e forse all’epoca lo era davvero. Se non vi emozionate anche voi, probabilmente non siete proprio delle bellissime persone.

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