Never Surrender, i DESTROYER 666 approfittano dello scivolo pensionistico

Gli odierni Destroyer 666 vanno presi per quello che sono: non più un semplice concentrato di death e black ma una scuola di musica estrema esportata in tutto il mondo grazie al cinquantunenne K.K. Warslut, che nel frattempo ha perso i pezzi importanti per strada (Shrapnel e ci metto anche Bullet Eater) per poi farsene una ragione e ritoccare la formula vincente prima che questa diventasse stantia. E stava davvero cominciando a diventare stantia, perché il periodo fra Cold Steel… for an Iron Age e Defiance l’ho vissuto in diretta e subito inquadrato come una lentissima discesa verso gli abissi dell’anonimato. Per quello che avevano appena prodotto, di certo non meritavano niente del genere.

Ho visto i Destroyer 666 per la prima volta all’apice, cioè nel tour di Phoenix Rising. Successivamente li avrò visti almeno altre tre volte. Me li ritrovavo dappertutto questi sparacristi australiani, percependo la loro decadenza non solo su disco ma anche sul palco: quella prima volta non fu solamente la migliore ma anche uno dei migliori concerti cui avessi mai assistito. Nessuno o quasi conosceva le loro canzoni, eppure, in sostanza, era come se appartenessimo a loro. Fu una guerra. Alla luce degli anni trascorsi e dei lunghi periodi di silenzio, credo fosse l’ora di svoltare un minimo. Sette anni fa all’uscita di Wildfire si era intravista la bozza di questo necessario processo. Lo ritengo tuttora un buon disco, nonostante non allacci neppure le scarpe ai primi tre. Facevano capolino i Motorhead e lo speed metal anni Ottanta, e tutto questo adagiato sul timbro riconoscibilissimo della band: quelle chitarre ultramelodiche a metà fra un lead ripetuto e un semplice riff black metal.

Mi insospettisce che sulle ali di questa rinascita stilistica siano trascorsi altri sette anni fra un titolo e l’altro, intermezzati da un EP più che decente come Call of the Wild.

Never Surrender è una genuina dichiarazione di vecchiaia, sapere di potersi tranquillamente togliere dai coglioni e osservare dal piedistallo i pischelli sottostanti mentre sbavano sulla tua posizione per agguantarla e divorarla, rispondendo con qualche sputo e insulto di scherno. I Destroyer 666 non sono finiti nelle barbe, non fraintendetemi, ma potrebbero usufruire dello scivolo pensionistico. Somigliano a quel genere di sessantenne che sa benissimo che ogni anno in più causerà un gran casino alle dannate articolazioni, ma non molla un solo centimetro. Fanno dischi con la stessa frequenza dei Metallica e non fanno niente di memorabile da quasi un quarto di secolo, eppure vanno bene così.

La title track ha un deciso andamento hard rock e non si vergogna a girare intorno al riff di Painkiller. È un pezzo altamente ruffiano e ben ne comprendo la necessità, perché a cinquanta anni suonati non puoi sempre mitragliare una I am the Wargod sul palco, o una Lone Wolf Winter. Altrimenti è automaticamente fisioterapia tutte le settimane. I gruppi estremi che, arrivati a una certa età, pianificano di rallentare ed esplorare le proprie radici io li capisco e li giustifico, e questo spesso si abbina ai risultati perché mette in tavola ciccia fresca. L’importante è svecchiare ciclicamente il batterista, perché portarsi dietro il defibrillatore è un affare costoso. I corsi di formazione per il primo soccorso pure.

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Mirror’s Edge è dedicata al cento per cento agli anni Ottanta e arriva dopo altri tre pezzi di ottima fattura, tutti quanti una scrematura del concetto di war metal melodizzato di Phoenix Rising: la velocità non abbonda ma lo stile è quello, in Andraste (sembra la coniugazione verbale di uno scandiccese nei confronti del verbo andare) come nel singolo Guillottine e nella favolosa Pitch Black Night. Anche Grave Raiders, altra up-tempo anni Ottanta, è piuttosto coinvolgente. La differenza col thrash metal estremo degli Aura Noir sta nel fatto che quando i Destroyer 666 volgono lo sguardo agli Eighties finiscono per risultare un po’ scanzonati.

Parte finale un po’ più moscia nonostante la chiusura con Rather Death, uno speed metal tiratissimo, e Batavia’s Graveyard, vano tentativo di rievocare i Bathory e dar luce a un degno successore da pugno alzato sotto al palco a quella gemma di rara bellezza che fu The Eternal Glory of War. Buon dischetto, ma i loro tempi migliori sono decisamente passati. Ora scopro con assoluto piacere band che, come i Craven Idol, si ispirano a questa colonna portante del metal estremo di un continente che da sempre adoro. Un plauso per il nuovo batterista Kev Desecrator, uno che il defibrillatore se lo mette sul cazzo tutte le mattine al posto della sveglia dell’iPhone. (Marco Belardi)

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