Avere vent’anni: SOILWORK – Natural Born Chaos

Soilwork nel 2002 andavano attraversando quel particolare periodo di carriera in cui erano ancora in grado di tener botta al prefissato obiettivo di confezionare un disco all’anno. Saltarono solamente il 2000. Natural Born Chaos fu il quarto d’una serie interminabile di album, e, per la seconda volta consecutiva, gli svedesi si ripresentarono al pubblico con una ricetta assai variata. A mente fredda dico che l’evoluzione dei Soilwork si fermò per la prima volta esattamente nel 2002, e che oggi, a line-up rivoluzionata e con Bjorn Strid galvanizzato e rivitalizzato dai Night Flight Orchestra, possiamo finalmente goderceli in una inedita forma. Quella, per intenderci, di Verkligheten.

All’epoca odiai con tutto me stesso i Soilwork, perché la macchina devastatrice di The Chainheart Machine s’era rapidamente tramutata in una brodaglia dominata dai ritornelli puliti. Nello stesso anno assistemmo anche alla completa trasformazione degli In Flames, che già Clayman preannunciava, ma che speravamo si manifestasse molto più tardi. I Soilwork non erano certo miei idoli, dato che certo più legato agli In Flames. Ognuno di codesti gruppi svedesi, in egual maniera, mi procurò dolore fisico dopo la pubblicazione di certi album. Non funzionò affatto come con Projector, laddove i contenuti erano i contenuti e l’avvenuta evoluzione un buon motivo per esaltarli.

Sempre a mente fredda, l’ascolto odierno di Natural Born Chaos mi lascia piuttosto interdetto. Credo che i Soilwork si siano artisticamente fermati con A Predator’s Portrait per ritornare interessanti nelle annate più recenti. Qualcuno si strofinava le mani pensando che avrebbero venduto copie su copie riducendo un surrogato del death metal a poltiglia: la mossa “astuta” che in America non era riuscita né agli (ottimi) Obituary di World Demise né ai riottosi Six Feet Under e che, in Europa, stavamo ottenendo mediante l’ibridazione di concetti e influenze assai più radiofoniche, eliminando dalle fondamenta ogni traccia di death metal sinora individuabile. Non fu una puttanata colossale come nel caso dei Morgoth di metà Novanta, ma un movimento corale, studiato a tavolino col criterio d’un etichetta partita col death più rancido e che nel 2002 assumeva le dimensioni e i tratti somatici e comportamentali tipici di un impero. Non lo si fosse compreso, c’era di mezzo la Nuclear Blast, come sempre. Per il sottoscritto non funzionò, e non lo dico da metallaro oltranzista: lo dico perché la musica radiofonica riusciva bene a chi sapeva suonare musica radiofonica. Non era sufficiente disporre di un cantante duttile, cosa che, in ogni caso, Bjorn Strid sarebbe diventato più avanti, a maturità artistica raggiunta. Il Bjorn Strid attuale faceva le prove generali per il salto e teneva il piede in due staffe (l’altra si chiamava Terror 2000). Caruccia la title track, e segnalo la comparsata di Devin Townsend (Black Star Deceiver, un pezzo non trascendentale ma decisamente sopra la media) eppure, per il resto, non vedevo l’ora che finisse. L’anno venturo sarà l’anniversario di Figure Number Five, e, se non vado errando, riascoltare quello richiederà uno sforzo ancor più disumano. (Marco Belardi)

4 commenti

  • mi piace abbastanza, a differenza dell’atroce successivo. o meglio, diciamo che non faccio fatica a sopportarlo. ma non lo ascolto mai, torno sempre su predator’s portrait…

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  • Dai su è un bel dischetto, magari alcune tracce non sono il massimo ma lo ascolto sempre piuttosto volentieri. Stupendo poi il brano finale

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  • All’epoca odiai con tutto me stesso i Soilwork, perché la macchina devastatrice di The Chainheart Machine s’era rapidamente tramutata in una brodaglia dominata dai ritornelli puliti.
    Credo che i Soilwork si siano artisticamente fermati con A Predator’s Portrait.
    Confermo!

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  • Non mi hanno mai fatto impazzire neppure ad inizio carriera. Riascoltandolo adesso un disco del genere suona davvero stucchevole però diciamo che, se gli In Flames post clayman non avessero deliberatamente deciso di fare schifo al cazzo, questa avrebbe potuto essere la direzione verso la quale muoversi. Ad ogni modo penso che dischi come questi rappresentino molto bene la scena metal “mainstream” dei primi anni duemila : lavori formalmente corretti ma privi di mordente, incapaci di andare oltre il limite di un ammorbidimento commerciale ormai spinto ai limiti.

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