Avere vent’anni: A Predator’s Portrait, ovvero i SOILWORK come Pieraccioni

Il mio primo contatto con la comicità fiorentina fu attraverso Vernice Fresca (in seguito Aria Fresca), un programma andato in onda nei primissimi anni Novanta su un qualche canale minore. Stavano tutti lì: Pieraccioni, Alessandro Paci, Panariello, Militello di Striscia la Notizia, il Ceccherini, Graziano Salvadori che poi era anche colui che all’epoca preferivo, e molti altri ancora. Conduceva Carlo Conti.

Stavano tutti lì, dicevo, ed ebbero un successo smisurato per l’emittente che li mandava in onda, almeno a ripensare oggi alla sproporzionato peso specifico di quei nomi; un successo, però, perfettamente proporzionato alle risate che tutta Firenze si faceva ad ogni sua trasmissione. Erano gli anni di quel programma comico e dei Litfiba, una Firenze forte a dispetto della clamorosa retrocessione in B e del Roby Baggio da poco passato alle righe più scolorite che esistessero. Via Pontello.

Tanto ero sicuro che il mio primo contatto con la comicità fiorentina fosse stato quello, quanto sono certo d’aver messo piede nel death melodico svedese con Slaughter of the Soul. Non ho alcun dubbio in entrambi i casi, e, approfondendone uno, toccherò inevitabilmente l’altro. Tanto nelle cose che ti piacciono va a finire sempre alla stessa maniera.

I tizi che ho elencato sopra migrarono in gran numero alla RAI, un concetto non dissimile dai Gatecreeper che finiscono su Nuclear Blast. Tentarono – invano – di replicare un format , o uno stile, che naturalmente l’Italia intera non capì, dato che l’umorismo dei suoi interpreti era destinato a un pubblico limitrofo. Dovevano ancora maturare, oppure diventare dei comuni comici che dettano o leggono benissimo le regole dello show business. Alcuni lo fecero, altri scomparirono e li ritrovai a pescare le trote al lago La Cassiana o disfatti su qualche marciapiede di San Frediano. Concettualmente non faceva alcuna differenza, fisicamente direi di sì.

Vernice Fresca chiuse intorno al 1993. Due anni più tardi Leonardo Pieraccioni già debuttava alla regia con I laureati, un successo figlio d’una discreta pubblicità sebbene ne ricordi la sola scena della fuga col conto non pagato. Una storiella alla Amici miei, con molta meno malinconia e pessimismo, appunto sull’amicizia, lo scazzo giovanile, l’opportunismo e tutto quanto il resto: era carino, ma non mi si stampò in testa come sarebbe avvenuto a chiunque con il successivo. Nel 1996 uscì Il ciclone, il che cambiò per sempre il modo in cui estranei, forestieri e cittadini di qualunque altra provincia – al di fuori delle nostre – avrebbero percepito il concetto stesso di “comicità toscana“. Lui, Il ciclone, non lo sa. Ma è qui, nel punto più alto raggiunto dal successo della comicità toscana, che ci rendemmo conto che le cose avrebbero potuto solo peggiorare, e rapidamente, perché tutti i difetti futuri erano già insiti ed evidenti. Quello era Il ciclone, e di certo non potevamo analizzarlo in maniera così fredda e pessimista nel lontano 1996 dei baci e degli abbracci e delle battute sul ramato.

Il ciclone è il motivo per il quale quando nominano la comicità toscana mi getto in un angolo e rimango nascosto per alcuni minuti. È un film che memorizzai battuta dopo battuta e che oggi genera in me un generale sconforto interiore, se penso allo stereotipo che di rigetto venne affibbiato alla comicità toscana – traducendola in: da prendere letteralmente a sassate – che sporadicamente rivedo in giro anche senza l’ausilio autodistruttivo di politici e altre note figure ai limiti della caricatura. Per inciso, sono un amante del primo Verdone e di Alberto Sordi. Sono un amante della comicità romana. Quella fiorentina ebbe una rapida esplosione, fatta di Panariello che imitava casi umani realmente esistiti (il Simone col cappellino, per intenderci, era ispirato a un operaio di fabbrica dello scandiccese) e d’altri personaggi probabilmente più inediti, e fu sdoganata con una rapidità tale da uccidersi in poco tempo.

Fu così alto il picco che raggiunse il successo del primo Pieraccioni, fu altrettanto forte il tonfo sordo che derivò dalle ricadute che seguirono il 1996. Pieraccioni fece eternamente lo stesso film, in cui lui, un tizio simpatico e circondato dai soliti personaggi e dagli scemi di paese, a un certo punto incontra la donna senza un senso. E finisce bene, o benino ma anche un po’ male. Gira sempre lì. Non abbraccia mai la profondità di un Monicelli, la comicità toscana attraverso gli occhi e il sentimento di un regista e autore con i controcazzi e che mira al sodo, non al risultato ai botteghini o all’accontentare chi sta sulle poltrone lerce di un multisala. E qui aprirò una parentesi. Non ha mai osato il Pieraccioni del dopo 1996, aggiungo, e me ne dispiaccio perché era partito proprio dal revisionare alla leggerina il Monicelli, nel farlo alla maniera sua.

Se oggi rimettessi su Il ciclone non riuscirei a godermelo in alcun modo. Eppure, quotidianamente, ho la collega che paragona qualcuno a “che ce l’hai un gratta e vinci te?” e che ancora non ho trattato come Dillon tratta la Thurman in quel film di Lars Von Trier. Il ciclone è rimasto in maniera indelebile nella testa di tutti e allo stesso tempo è finito fuori tempo massimo, un po’ come quella Lorena Forteza che suppongo avrà fatto capolino giusto in mezzo film, dopo di esso. Ho forzatamente rimosso quel genere di comicità. Ripensare agli anni successivi, a Fuochi d’artificio, al Pesce innamorato, alle robe allucinanti come quello con Marilyn, è per me un autentico devasto psichico. Che cosa venne a mancare, a proposito della parentesi da aprire? La naturalezza, la semplicità di Vernice Fresca rivolta ai soli che avessero la voglia di sintonizzarsi su un canale minore per il gusto di godere di alcuni amici che se la spassavano: un concetto ampliato da I laureati, ma ampliato male e devastato in seguito. L’accusa di una comicità semplice e primordiale, da allora rivolta alla Regione tutta, ne era in realtà il piatto forte: il punto è che tutti la notarono quando non c’era più, quando la pappa scodellata si era fatta fredda e calcolata e proponeva un qualcosa in base al successo che avrebbe o non avrebbe avuto a seconda degli ingredienti sapientemente rimescolati ma mai sostituiti. Lo scemo di paese, la bellona, le solite cose e i soliti cameo. Il che è come infilare nel death metal dei ritornelli puliti: potrà essere sì bellissimo, ma le cose peggioreranno all’istante. (Marco Belardi)

6 commenti

  • A me che gli At The Gates (e i primi due dei Soilwork) non esaltano più di tanto, perché della scena svedese prediligo gli esponenti più melodici, questo disco piace moltissimo. Lo trovo l’anello mancante fra The Mind’s I, ovvero un death melodico tirato e tecnico senza esagerare in nessuno dei due aspetti, e Projector, con le sue voci pulite e le sue strutture semplificate. Poi davvero hanno attraversato il Rubicone, ma per me APP resta un gran disco

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  • Marco Cassigoli

    Che analisi forzata demmerda!
    Un esegeta frustrato che cerca di essere originale con parallelismi a dir poco patetici. Datti all’ippica e posa la penna!

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  • Belà sei troppo cattivo…sia con i Soilwork che con il buon Pieraccioni…dai fino al successivo, sebbene melodico oltre la soglia di guardia, è un disco che ascolto con piacere ancora oggi, poi effettivamente sono diventati inascoltabili. Per il buon Pieraccioni, effettivamente Il Laureato, rivisto la scorsa estate, me lo ricordavo più divertente, mentre il ciclone ed il successivo continuo a guardarli con piacere. Saranno pure cazzate da popolino, però mi lasciano sempre di buon umore e mi ricordano alcuni episodi del passato…i film successivi non credo mai di averli visti…

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  • Sono stranamente d’accordo col Belardi.

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  • Quello con Marilyn e il professor cenerentolo o come c**** si chiama sono oggettivamente il punto più basso del cinema italiano dopo qualche cinepanettone di quelli inguardabili…

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  • Per adesso,”in my opinion…” (cit. Mia Wallace),questa è la recensione dell’anno.
    Punto.

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