Avere vent’anni: THIRDMOON – Sworn Enemy: Heaven

Quando si parla di capolavori semisconosciuti che avrebbero dovuto diventare icone del metal senza che ciò accadesse per una serie di malaugurate circostanze avverse, è meglio essere il più sintetici possibile. La curiosità stimola e solletica il bisogno di procedere all’ascolto per recuperare quanto si è incautamente trascurato. I Third Moon sono (o erano? Non lo so, l’ultimo album – il sesto – è uscito nel 2018, undici anni dopo il precedente Dimorphic Cynosure; chissà se sono ancora effettivamente attivi come certifica Metal Archives) un gruppo austriaco nato nel 1994 sulla scia degli Abigor con l’intento di proporre black metal melodico, d’impatto e malefico, paragonabile o riconducibile a quello dei loro celeberrimi conterranei.

Prodotti dalla piccola ma attivissima label CCP records, condotta da quel Claus Prellinger scopritore prodigioso di svariati talenti (DornenReich, Orphaned Land – la loro demo l’ha pubblicata lui – Astaroth, Gergovia, The Bishop of Hexen, Love Lies Bleeding solo per citarne alcuni tra i più importanti), i ThirdMoon (il cui nome si trova scritto sia attaccato che staccato) hanno sempre e solo realizzato dischi della madonna. Tesi, veloci, tecnici, sempre votati al melodico/atmosferico mai banale o ridondante, i ragazzi passano già con il secondo album alla Napalm records quando ancora non era la propinatrice di roba petalosa come sarebbe diventata in seguito. Tuttavia, scarsamente considerati visto il livello della loro musica che (Summoning a parte) stava livellandosi verso un peggio che sembra non avere mai fine, i ragazzi desistono e si accasano presso la FM records, piccola etichetta greca che più che altro ristampa cose vecchie fuori catalogo. Per loro incidono il capolavoro in questione, Sworn Enemy: Heaven.

Lo stile del disco è francamente indescrivibile, è come se i Dream Theater avessero messo in piedi un side project per portare verso lidi più estremi quanto esaltato in When Dream and Day Unite. Melodie impossibili, stacchi improvvisi di ogni strumento, flamenco, jazz, progressive, hard rock, thrash, death melodico, un pizzico di black metal, tempi dispari, alte velocità, poi subito dopo il silenzio, oppure qualunque altra cosa possibile, costanti sovraincisioni di tre o quattro tracce di chitarra con perizia orchestrale, quasi nessuna tastiera… Il disco è una meraviglia perché, anche se formalmente diviso in dieci brani, sembra una geniale lunghissima suite di 47 minuti. L’unica cosa che si allontana dallo stile degli americani è l’utilizzo della voce in growl/scream moderato (va anche in pulito nondimeno) oltre alle pochissime tastiere. Tutto il resto è pura goduria. Si trova incredibilmente a pochi spiccioli su Discogs, se no trovate tutta la loro produzione sul loro Bandcamp e ve la consiglio caldamente. Non fatevi trarre in inganno dalle copertine, in quello non sono mai stati troppo fortunati. Fatevi un favore ed ascoltateveli, quello sì. (Griffar)

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