La finestra sul porcile: FURIOSA – A MAD MAX SAGA

Mai, mai scorderai l’attimo, la terrà che tremò. L’aria si incendiò e poi… silenzio.

Le immortali liriche della sigla italiana di Ken il Guerriero è sempre stata per me estremamente coerente con l’universo di Mad Max e lo è ancora di più per Furiosa – A Mad Max Saga,  proprio perché abbiamo anche in questo caso un attimo in cui tutto l’universo della sua protagonista – contestualmente – implode ed esplode e apre la strada ad un universo postapocalittico di rancore e violenza.

Si tratta del prequel sul personaggio di Furiosa che arriva a nove anni dallo straordinario Mad Max: Fury Road, votato come miglior film dello scorso decennio da diverse riviste specializzate di tutto il mondo. Fury Road, infatti, era stato un film contestualmente coerente e di rottura: coerente con la visione milleriana del mondo e del cinema, portata alle estreme conseguenze, e di rottura rispetto al modo di concepire “l’azione” del cinema degli ultimi anni: dialoghi pari a zero, personaggi legati ad archetipi, ma dotati di spessore psicologico, ritmi serratissimi e vertigine perenne per due ore e mezza di puro cinema. Perché è sempre stata questo lo sguardo di George Miller, sin dal primo capitolo di questa saga, da quell’Interceptor (per usare il titolo italiano) realizzato nel 1979 con pochi mezzi, ma con la stessa forza e con la stessa personalità che troviamo nei suoi film successivi fino a Furiosa.

Per comprendere pienamente il nuovo film di Miller, dobbiamo partire dall’eloquente sottotitolo con cui è stato presentato al pubblico: A Mad Max Saga. Perché nonostante gli evidenti richiami a Fury Road, Furiosa per alcuni aspetti è più vicino ai precedenti capitoli di questa saga piuttosto che al suo immediato predecessore. E ciò in quanto Furiosa non è solo un prequel, ma un tassello coerente di un universo che è stato costruito sempre in fieri, nel corso degli anni e che si fonda molto di più sull’umanità – molto presente nel secondo, immenso, The Road Warrior – rispetto che alla pura e rivoluzionaria vertigine di Fury Road.

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Si tratta di un vero e proprio revenge movie che ha alle sue basi gli archetipi della tragedia greca, che parte dalla perdita dell’innocenza, passa dallo scontro con la figura “paterna” e si dipana nella sua durata lungo un percorso di formazione, di coscienza e di consapevolezza, che arriva fino ad uno – splendido – epilogo, che giunge al termine di cinque fasi ben strutturate e funzionali.

Un romanzo di formazione, dove il termine “romanzo” assume un valore fondamentale, in quanto Furiosa è senz’altro più narrativo rispetto a Fury Road, maggiormente incentrato sulla sua protagonista e su tutti i personaggi secondari e non che popolano il film e che vengono maggiormente approfonditi e assumono maggiore spessore. Ciò non significa, però, che Miller abbia abbandonato quella epicità presente nel precedente capitolo della saga, perché anche in Furiosa, in molti momenti, si va “a tutta velocità”, anche in questo film abbiamo l’uso di “accelerati”, di sequenze da cardiopalma, da azione infuocata (letteralmente) da pelle d’oca, ma in questo caso abbiamo anche tanto altro.

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Pur non avendo l’impatto di Fury Road e pur non essendo – forse – altrettanto riuscito – in termini assoluti – rispetto a quello che è, a tutti gli effetti, uno dei film più importanti degli ultimi vent’anni, Furiosa resta un film straordinario e senz’altro più sfaccettato e strutturato. Perché abbiamo il mondo dell’infanzia, della scoperta del mondo che viviamo attraverso una Furiosa bambina (interpretata dall’incredibile decenne Alyla Browne) che si trova ad affrontare il dramma e la perdita della sua quotidianità, abbiamo il senso dell’avventura pura e semplice, quasi da b-movie, o comunque da film di genere (perché dobbiamo ricordare che Miller viene da lì) che si respira soprattutto nella prima parte del film e che lascia spazio, nella sezione interpretata impeccabilmente da Anya Taylor-Joy, all’azione e alla vendetta.

Una visione più ampia di questo mondo costellato da città invisibili di calviniana memoria (cit.), da mostri più umani di chi umano dovrebbe esserlo, da una schiera di personaggi secondari assolutamente indimenticabili, da un cattivo grottesco e più sfaccettato di quanto il suo nome (Dementus, interpretato da Chris Hemsworth) potrebbe farci penare e da un uso di diversi registri visivi e narrativi da applausi a scena aperta.

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Perché visivamente Miller gira quello che è a tutti gli effetti il suo “western”: non tanto nelle scene d’azione, ma nello sguardo che ha su questo mondo, sul modo di riprendere i personaggi e di farli incontrare, nell’aura quasi sacra che circonda alcuni personaggi, mentre a livello narrativo – riprendendo i primi capitoli della saga – abbiamo molti più momenti sfacciatamente “comici”, altri romantici e diversi momenti di “tenerezza”, davvero inattesi, che non diventano mai stucchevoli.

Una visione di ampio respiro che sopperisce ampiamente all’assenza di quell’”effetto sorpresa” che aveva accompagnato l’uscita di Fury Road  e che non può che farci rimanere, ancora una volta, a bocca aperta di fronte ad un autore di ottant’anni che gira con la forza di un ventenne e la maturità che si confà alla sua età anagrafica, unendo violenza e sentimento, velocità e introspezione, sogni di una bambina che vuole solo camminare e respirare insieme a chi ama e una brama di vendetta tragica, epica e, infine, etica. Un romanzo di formazione di rara forza, potenza e bellezza che ci ricorda, ancora una volta, che il cinema avrebbe sempre bisogno di autori come George Miller. (L’Azzeccagarbugli)

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