ATHEIST – Jupiter (Season Of Mist)
Il ritorno in studio degli Atheist a diciassette anni da Elements (punto di non ritorno e picco di sperimentalismo del techno-death di allora e, allo stesso tempo, il passo volutamente più lungo della gamba di una band che si era di fatto già sciolta) si è rivelato un’operazione fatta perlomeno con intelligenza. Poco più di mezz’ora per dieci canzoni, nessuna delle quali supera i cinque minuti, compatte, ben costruite e senza sensibili variazioni sul tema (non c’è una Samba Briza, insomma). Il rischio più grosso, quello di strafare, è stato quindi evitato. Tocca però capire quanto questo basso profilo sia voluto e quanto legato a una non trascurabile contingenza. Su Jupiter della line-up originale troviamo solo il cantante Kelly Shaefer e il batterista Steve Flynn. Tony Choy, che era stato della partita sin dal 2006, quando gli Atheist si erano riuniti per quella che all’inizio doveva essere solo una serie di apparizioni live, non ha partecipato alla registrazione del disco, né si è capito bene che intenzioni abbia per il futuro. Le parti di basso sono state suonate da Jonathan Thompson, uno dei due chitarristi che completano la formazione (l’altro è Chris Bakers, anch’egli prelevato dagli Gnostic), e non appare certo casuale che il mixaggio spesso le sacrifichi come in un disco death metal qualsiasi. Manca quindi un elemento fondamentale del sound dell’act floridiano e l’album è, di conseguenza, più guitar-oriented di quanto ci si potesse attendere. Pochissimi elementi jazz/fusion, dunque. Per il resto, Shaefer e compagni non hanno che resuscitato nel terzo millennio le strutture ritmiche multiformi e sincopate e il riffing acido e schizoide di Piece of Time e Unquestionable Presence con quegli accorgimenti minimi che non facessero suonare il tutto datato, e qua ha fatto la sua parte il lavoro dietro la consolle di Jason Suecof (il tizio è un po’ il Ross Robinson dei Trivium e di tutta quell’altra roba della quale non ci occupiamo volutamente mai ma – attenzione – suona la chitarra nei Charred Walls Of The Damned). E sinceramente non vedo cos’altro avrebbero dovuto fare. Considerando che le aspettative non erano altissime, il disco funziona. L’opener Second To Sun e la psicotica Faux King Christ sono brani aggressivi, efficaci e inaspettatamente catchy, e le trame avvolgenti di una Live And Live Again riescono ancora a colpire. Facendo un confronto con le riesumazioni degli altri vecchi arnesi del techno-death dell’epoca, Jupiter non è ambizioso come Traced In Air dei Cynic ma nemmeno ordinario come il curiosamente morbidangeliano Resurrection Macabre dei Pestilence. Su quest’ultimo disco, però, Tony Choy ci aveva suonato. Boh. (Ciccio Russo)
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