Azzeccare la reunion: GORGUTS – Pleiades’ Dust

gorgutspleiadesI feel like avant-garde metal is in a very happy place now“. Così Luc Lemay, leader e solo superstite dei Gorguts, in una recente intervista. È l’unico compositore, ha totale libertà creativa e, in questo Pleiades’ Dusk, un’unica traccia di 33 minuti, dimostra pure di avere presenti le nuove tendenze più feconde e creative, ovvero il death tetro e lovecraftiano dei vari Portal e Ulcerate. C’entrerà l’aver preso a bordo uomini di una generazione successiva. Il bassista Colin Marston suona nei Krallice e nei Behold The Arctopus, il chitarrista Kevin Hufnagel viene dai Dyshrythmia e alla batteria, al posto di John degli Origin, è arrivato il tizio degli, ehm, Beneath The Massacre (e non se la cava manco male). Lemay pare aver colto con intelligenza dai compagni più giovani gli input in grado di far aderire i Gorguts del 2016 al presente. Il crescendo che apre l’ep, prima di sfociare dopo dieci minuti in uno stacco semiacustico memore delle atmosfere di Colored Sands, non è lontanissimo, come suoni e dinamiche, da quello che puoi trovare in un album dei Gojira. Perché, pure se ti chiami Luc Lemay, una formazione così non ti darà una sezione ritmica da death anni ’90. Pleiades’ Dust mi ha convinto fino a un certo punto. Mi ha lasciato la sensazione di un cazzeggio di lusso per provare il batterista nuovo e magari riarrangiare un paio di idee rimaste appese durante la lavorazione del disco prima.

Mettetevi nei panni di Lemay, però. Vedi che i giovani d’oggi escono pazzi per roba insulsa come gli Spawn Of Possession e che i vecchi fan si accontentano di un gruppo che si chiama come uno dei tuoi album migliori. Pensi: vabbè, mo’ vi faccio vedere io; cerchi tre ragazzi a posto e te ne esci con Colored Sands per far capire chi comanda. Colored Sands è un bel disco ma non era scontato che incontrasse un consenso simile, che tutti i maggiori portali specializzati dell’internet lo eleggessero tra gli album dell’anno. Anche i Protector e gli Exumer hanno pubblicato da poco dei bei dischi (ne scriverò a breve) ma ne è fregato giusto a noi anziani ubriaconi. Un sito che voglia seguire la scena con puntualità e completezza  – non Metal Skunk, quindi – oggi deve poter contare su due o tre persone appassionate dei suoni più tecnici ed elaborati. E, se dopo esserti bevuto ettolitri di fuffa, sbatti contro Colored Sands, per forza ne esci pazzo. Quando li vidi dal vivo all’Hellfest, c’erano pure più donne di quanto plausibile a un concerto di death tecnico.

I Gorguts si sciolsero per motivi tragici (il suicidio del batterista Steve MacDonald, sconfitto dalla depressione) dopo l’ottimo From Wisdom To Hate, classe 2001. Era arrivato Daniel Mongrain, il futuro sostituto di Piggy nei Voivod, e firmava pure tre pezzi. In compenso si sono riuniti nel momento migliore possibile, ovvero in un periodo nel quale l’approccio compositivo ed estetico del progressive si sta rivelando un’influenza pesantissima in una buona fetta delle ultime leve metallare. È il discorso che avevo iniziato ad affrontare nell’articolo sui Vektor. Tirando il bilancio degli ultimi cinque anni, i due filoni che hanno portato avanti la scena sono la musica per fattoni che non si perdono un Roadburn (a proposito, Walter ha appena fatto sapere che dall’edizione 2o17 con il braccialetto del festival potremmo entrare nei coffee shop di Tilburg, evviva Walter) e l’accoppiamento espanso e sudaticcio tra heavy metal e progressive. E qua qualcuno più competente di me dovrebbe scrivere un trattato sull’enorme rilevanza di lungo periodo dimostrata dai Meshuggah. A quanto pare, vent’anni fa, mentre eravamo impegnati a farci le canne con gli Alice In Chains o a tentare, con esiti più o meno felici, di sedurre le tipe suonando il giro di basso di Black N.1, c’erano legioni di coetanei che – prendendo lo strumento molto più seriamente di noialtri, che avevamo il gruppo giusto per cazzeggiare – stavano ore a imparare i riff di Destroy Erase Improve. E ora comandano loro, come è giusto che sia. (Ciccio Russo)

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