Avere vent’anni: aprile 2004

FEAR FACTORY – Archetype

Marco Belardi: In molti gli preferiranno la fase successiva, in particolar modo Mechanized e The Industrialist. Vedete, quei due dischi a me piacciono. Ma non li ricordo in nessun modo, e questo è un indicatore assai importante. Ogniqualvolta questa condizione si verifica, per me quel gruppo potrà anche azzeccare cinque dischi di fila, ma non ha comunque più niente da offrire. I Fear Factory, sarò drastico, hanno smesso di avere qualcosa da offrire molto presto: 1998, Obsolete. Dopodiché ne ricordo un solo album, uscito all’epoca dello sfascio che portò Dino Cazares fuori dai ranghi. In teoria doveva essere pure il successore di Digimortal, una roba che non mi è mai piaciuta. Christian Olde Wolbers aveva imbracciato per l’occasione la sei corde, Burton C. Bell sembrava stabile al timone e al basso era stato reclutato nientemeno che Byron Stroud, con gli Strapping Young Lad dall’epoca di City. Uno parecchio adatto, insomma. Uscì questo Archetype e riscosse un responso tiepido. Le ultime canzoni dei Fear Factory che io mi ricordo a menadito stanno tutte qui dentro. Drones, Slave Labor, Cyberwaste, Bonescraper blast beat annessi, una cover dei Nirvana e poi pure Act of God e Corporate Cloning. Non dico che sia il mio album preferito dei Fear Factory, perché quello è lo stesso grossomodo per tutti (e sapete il suo titolo). Ma lo metto al terzo o quarto posto, per il semplice fatto che quello sfigato di Archetype uscì fuori senza il gordo in cabina di regia e con tutto il vento a sfavore possibile e immaginabile. E fu tutto sommato un buonissimo disco. Dimenticato dai più, a vent’anni di distanza meriterebbe quantomeno un’attenta ripassata.

ELVENKING – Wyrd

Barg: Il secondo album degli Elvenking è anche l’unico senza Damnagoras alla voce, qui sostituito da tale Kleid il cui timbro, però, non si discosta troppo da quello del cantante storico. Se il fascino di Heathenreel stava soprattutto nella sua ingenuità, con Wyrd la band inizia ad arrotondare gli spigoli, iniziando un percorso che li porterà in breve tempo ad essere un gruppo meno peculiare ma più esportabile, diciamo così. Lo stile del debutto è comunque riconoscibilissimo, con tutte le sue peculiarità: la commistione tra power metal e fascinazioni folkeggianti, l’allegria dei cori a contrasto con la malinconia tratteggiata da archi e flauti, il growl che ogni tanto fa capolino, eccetera. Insomma, un bel dischetto con una personalità spiccata e composto da canzoni orecchiabili che ti rimangono in testa, come un po’ accade in tutta la discografia dei friulani.

VELES – The Black Ravens Flew Again

Griffar: Il problema maggiore di The Black Ravens Flew Again è che succede a due lavori storici del calibro di Night on the Bare Mountains e Black Hateful Metal. Quelli sono i veri Veles, dati per scomparsi e poi ritornati sette anni dopo il loro secondo album con un disco poco convincente, lento, con forti influenze epico/pagane in classico stile Graveland, proprio loro che dell’intransigenza e della ferocia più cristallina avevano fatto un vessillo impossibile da ammainare e durissimo da sconfiggere. Sei composizioni statiche, lontano ricordo di quanto proposto in passato, con (troppi) interventi di tastierina stile Bontempi suonate da Rob Darken in persona (come già successo negli album precedenti, dove però i tasti bianchi e neri ricoprono un ruolo decisamente più marginale), che scivolano via come acqua di un temporale senza lasciare quasi traccia, anche a causa di riff che, pur non essendo scadenti o mosci, definirei banali. Visto che la No Colours li aveva lasciati liberi dopo Black Hateful Metal, l’album uscì per la minuscola Der Sieg records in 500 copie appena; diventato poi rarità, è stato ristampato più volte e si trova facilmente. Il suo valore è principalmente storico perché è la pietra tombale sul glorioso nome Veles, primi attori di una scena, quella polacca, che al black metal ha dato tanto e continua ancora a dare tanto dopo tutti questi anni. La band si divise in svariati rivoli, Conqueror formò i Plaga, che però sono inattivi già da dieci anni, mentre Blasphemous riprese il vecchio nome dei Veles, Belthil, senza mai uscire dall’underground più profondo, ed ad oggi non sembra essere coinvolto più in alcun progetto.

FINNTROLL – Nattfodd

Maurizio Diaz: Nattfodd, per molti, è l’apice dei troll finlandesi. Io gli preferisco i precedenti, ma, nonostante l’effetto novità sia bello che andato, resta comunque un disco ben fatto, godibile dall’inizio alla fine, che esplora ancora una volta una mitologia caricaturizzata e fumettosa avendo però l’accortezza di prendersi anche incredibilmente sul serio. Almeno quel tanto che basta da rendere fascinoso il quadro complessivo e perdersi dentro a foreste misteriose e paludi putrescenti piene di animaletti un po’ matti inventati da me. Difficile ormai immaginarsi un concerto dei Finntroll senza alcuni dei pezzi contenuti in questo disco, pezzi che li hanno portati ad essere un faro e un punto di riferimento per chiunque si cimenti con questa sorta di polka hard. Sembrerebbe molto facile in effetti riprodurre una cosa simile, e questo piccolo equivoco ha causato innumerevoli danni. Però alla fine abbiamo un disco che dopo vent’anni si ascolta ancora tutto d’un fiato e Trollhammaren, che per rovesciarsi addosso la birra ai concerti è il massimo.

PECCATUM – Lost in Reverie

Michele Romani: Al contrario del collega Barg non mi sono mai fatto infinocchiare dai Peccatum, nel senso che avevo intuito sin dall’esordio Strangling from Within che, nonostante la presenza ingannatrice di Ihsahn (e parentela al seguito), fosse musica che decisamente non faceva per me. Questo almeno fino a Lost in Reverie, che posseggo originale in un elegantissimo slipcase ma, giuro, non ricordo assolutamente il motivo per cui l’abbia comprato. Può essere che fossi nel pieno del mio periodo gotico pipparolo, oppure che mi sia fatto ingannare dalla suadente copertina raffigurante la moglie Ihriel o dalle cringissime foto in bianco e nero di Ihshan in camicetta bianca intento a remare, o ancora fosse stato un acquisto per elaborare il lutto del recente scioglimento dell’Imperatore, o (cosa assai probabile) l’abbia preso in prestito a qualcuno e mai più restituito. Da qualunque parte la si veda (e dubito tra l’altro ve ne possa fregare qualcosa) la verità rimane una sola: i Peccatum sono una rottura di coglioni colossale, sette lagne infinite di avantgarde rock-metal, fraseggi jazz, rumori indefinibili, musica classica, parti black messe a cazzo di cane e altre amenità che non vi starò qui a descrivere. Ringrazio solo il cielo di non aver mai ascoltato i primi due.

COUNTESS – Heilig Vuur

Griffar: I Countess sono stati dei pupilli di Blackgoat e della sua Barbarian Wrath records, nata e cresciuta anche (ma non solo) grazie a loro, vista l’aura di culto che ha accompagnato la band dalla nascita ai giorni nostri. Dopo le concessioni alle melodie epiche dei due album precedenti (The Revenge of the Horned One part I e II) i Countess per il loro ottavo full tornano indietro nel tempo e si riportano su schemi compositivi utilizzati quando la band di Orlok muoveva i primi passi. Solo che, essendo passati già più di dieci anni, l’esperienza e la maggior padronanza strumentale risultano decisivi nel confezionare un prodotto sensibilmente migliore. Il risultato è un disco che sembra essere stato scritto quindici anni prima, quasi ascrivibile al proto-black metal dal quale il black ha avuto genesi. Richiami costanti ai soliti noti (Venom compresi, loro che black metal non sono mai stati) si ritrovano nel corso dei nove brani, tutti prevalentemente cadenzati – solo di rado la velocità aumenta – con riff semplici, sintetici e memorizzabili, molto vintage e di conseguenza perfettamente aderenti al contesto. L’apice sono i 14 minuti della conclusiva Schemering der Goden, ma non ci sono cali di tono o d’ispirazione nel corso del Cd. Questo viene considerato quasi unanimemente come il disco migliore degli olandesi (che vantano una discografia di 16 album affiancati da svariati demo, Ep e altro) e oggi è un’autentica rarità: ne furono realizzate solo 666 copie, non è mai stato ristampato e per acquistarlo oggi ci vogliono cifre piuttosto elevate.

FLOWING TEARS – Razorbliss

Barg: Fulgidissimo esempio di gotico pipparolo fuori tempo massimo, il quinto album dei Flowing Tears non si discosta troppo dai precedenti due lavori del gruppo se non per una produzione più leccata e un’attitudine più moderna, vagamente americaneggiante. Per il resto è sempre quella roba lì, che scorre via di sottofondo senza che ti venga voglia di prestargli troppa attenzione. L’unica vera novità è il cambio alla voce, con la sfiatatissima Stefanie Duchene sostituita dall’incredibilmente ancor più sfiatata Helen Vogt, i cui pregi si riassumono sostanzialmente nel fatto che esteticamente è la classica tipa il cui poster sarebbe finito sul muro della stanzetta di Michele Romani dell’epoca. Non riuscirei a parlar bene di Razorbliss nemmeno con tutta la buona volontà di questo mondo, ma allo stesso tempo non potrei neanche parlarne troppo male: è un disco uguale a tremila altri, con l’unica particolarità di essere cantato peggio, e il fatto che nel 2004 ‘sta roba iniziasse già a non tirare più lo rende non dico controcorrente ma quantomeno nostalgico. Alla fine l’emozione più intensa che restituisce è lo stupore di quando ti ricordi che il nucleo storico dei Flowing Tears è andato a formare i Powerwolf.

SPASTIC INK – Ink Compatible

Marco Belardi: La formazione degli Spastic Ink comprendeva ex membri di Watchtower e Fates Warning. In teoria, il mio gruppo preferito di sempre in tempi moderni. Me li raccomandò un carissimo amico, Tiziano, che vedrò domani pomeriggio in centro a Firenze e che per l’occasione butterò di sotto dal Ponte alle Grazie per il solo essermi ricordato il fatto che mi fece una testa tanta con un gruppo di merda del genere. Cominciai col primo album Ink Complete i cui titoli tradotti erano una roba tipo “una mattinata con lo scoiattolo”. La musica era non di meno stupida, una sequela di gag che faceva sembrare i Primus di certe canzoni (se non addirittura dischi interi) un qualcosa di senso perfettamente coeso e compiuto. Ink Compatible l’ho sentito una sola volta, vent’anni fa esatti, e non ho alcuna intenzione di rimetterci mano ora che cade il suo anniversario.

ANASARCA – Dying

Griffar: Terzo lavoro per i tedeschi Anasarca, nati come progetto brutal death puro e semplice ed evolutisi poi in una forma di death metal sempre molto aggressiva ma senza compressioni di suono troppo esasperate, rallentando in parte la velocità dei pezzi a tutto vantaggio del groove. La loro musica rimane violentissima, sparata assai di frequente alla velocità della luce, ma i pezzi sono molto vari, stracolmi di cambi di tempo, talvolta arrivando a sfiorare il black metal (ad esempio in Anopheles, una delle migliori del disco) e non disdegnando incursioni nel thrashcore d’antan. Dying è un riuscitissimo concept album nei cui testi si riportano testimonianze reali di malati terminali e questa amarezza, questa sensazione di debacle al cospetto della sorte nefasta si percepisce in ogni solco. Io lo trovo meno melodico rispetto al precedente Moribund; sono consapevole che parlare di melodia riferendosi a un album così estremo possa sembrare un controsenso, ma non commettete l’errore di pensare che qui ci sia solo frastuono fine a sé stesso: i musicisti sono preparatissimi, il batterista lascia a bocca aperta per i trick che s’inventa a simili velocità, i suoni sono ricercati e arrangiati per risultare il più possibile nitidi senza perdere d’impatto, i riff sono studiati in ogni particolare e prevalentemente assai elaborati; si semplificano quando vengono ibridati con i monocorda black metal, anche se gli Anasarca usano questo espediente in modo differente rispetto al classico approccio black. Voce gutturale non eccessivamente esasperata e produzione eccellente completano un quadro di grande valore. Inspiegabilmente la band si sciolse poco dopo la pubblicazione di Dying, salvo riformarsi dieci anni più tardi (un quarto lavoro è uscito nel 2017 e al momento è l’ultima prova della loro attività).

QUEENS OF THE STONE AGE – Stone Age Complication

Stefano Greco: Stone Age Complication è veramente inutilissimo, non perché sia brutto ma perché, senza essere particolarmente smanettoni con WinMx, a rovistare fra Ep, singoli e B-side si trovava molto di più e meglio. Lo comprai per semplice completismo (e perché costava poco) ma erano cose che davvero chiunque poteva rimediare online in un quarto d’ora. Per dire, quando questo uscì io stesso ne avevo già assemblato una versione di gran lunga migliore, ci stavo talmente in fissa che mi improvvisai anche grafico e creai un artwork retro futurista finto-Kozik con immagini spaziali, font sci-fi vintage e sul retro una tettona bionda che all’epoca era al centro delle mie ricerche sul web. Il Cd ce l’ho ancora ma la copertina purtroppo l’ho persa. Tempo dopo, ancora meglio di me fece un tizio su internet con due Cd che coprono praticamente tutto l’extra che abbia senso avere dei QOTSA (il primo dei due in particolare è un semicapolavoro e meriterebbe una release ufficiale). Se vi interessa li trovate qui, ma se vi viene a cercare la polizia postale noi non ne sappiamo nulla. Ovvio poi che la mia copertina era centomila volte meglio.

FREEDOM CALL – Live Invasion

Barg: Il primo disco dal vivo dei Freedom Call aveva l’arduo compito di restituire l’atmosfera gioiosa e liberatoria che si è sempre respirata durante i loro concerti, e ci è riuscito. Personalmente scoprii la band di Chris Bay proprio grazie ad un loro concerto (in modo del tutto casuale: erano di spalla ad Hammerfall e Virgin Steele, nel tour del secondo Crystal Empire), e da allora ho sempre cercato di non perdermene mai un’esibizione ogniqualvolta passassero dalle mie parti. In Live Invasion la scaletta è fantastica: da We are One all’eponima, da Metal Invasion fino alla chiusura con Hymn to the Brave praticamente ogni pezzo è un loro classico. Completa il pacchetto l’Ep Taragon, interamente riproposto come bonus Cd con l’aggiunta di due cover. Fortemente consigliato per migliorare l’umore delle proprie giornate.

DEAD FOR DAYS – Creating Murderous Domain

Griffar: Interessante disco di granitico brutal death metal tecnico, ovviamente americano, che avrebbe meritato miglior fortuna anziché un quasi immediato oblio. Voce gutturale putridissima a-la Mortician, riffing vario ed intricato che denota una ricerca compositiva elaborata e complessa, padronanza strumentale di tutto rispetto e persino concessioni a melodie intese a restare in testa. Nove brani godibili, poco più di trentacinque minuti di musica senza apici particolarmente evidenti né in positivo né in negativo. Va comunque menzionata la brevissima staffilata al limite del grindcore e dal titolo squisitamente poetico Face Down in a Pile of Dogshit. Hanno poi pubblicato un secondo album quattro anni dopo (Disassociated from Reality), senza ottenere il riscontro che avrebbero sicuramente meritato, prima di sciogliere la band qualche tempo dopo. Piccolo aneddoto personale: questo è stato uno dei primi dischi che ho comprato su Bandcamp, penso oltre dieci anni fa. L’edizione fisica non era mai arrivata fino a quando, diversi anni dopo, il postino ha portato un pacchettino con su scritto il mio indirizzo a biro in modo quasi invisibile e nient’altro. Mai perdere le speranze.

KHOLD – Mørke Gravers Kammer

Michele Romani: I Khold sono sempre stati una realtà piuttosto discussa all’interno del panorama black metal. Sinceramente non condivido l’astio di Griffar per i primi due lavori, anche se ricordo pure io ai tempi la mastodontica e piuttosto ingannatrice campagna pubblicitaria della Moonfog che li descriveva come una sorta di next big thing della scena norvegese. Nati dallo scioglimento dei Tulus (gruppo che ha avuto una sorta di riabilitazione postuma che ho sempre faticato a comprendere del tutto), Sverre “Gard” Stockland e compagni hanno ripreso qualcosa della band madre snellendo ulteriormente il sound e dandole un anima diciamo black‘n’roll, soprattutto in questo Mørke Gravers Kammer: rispetto ai primi due lavori infatti i pezzi sono ancora più brevi e ritmati, dall’appeal commerciale notevole (il primo singolo Dod ad esempio) ma che comunque pur nella loro estrema semplicità ti rimangono in testa sin da subito, anche se ascoltato uno sembra di averli ascoltati tutti. Che poi è sempre stato il problema atavico dei Khold.

DROWNING POOL – Desensitized

Barg: Dopo la tragica morte del primo cantante Dave Williams durante il tour del debutto, i Drowning Pool riuscirono a rimettersi in piedi chiamando un altro cantante, l’allora sconosciuto Jason Jones, e tirando fuori questo Desensitized, disco che in linea generale non si discosta molto dal predecessore. Gli manca certo un pezzone spaccaclassifica come Bodies, che rimarrà per sempre il cavallo di battaglia del gruppo, ma anche qui dentro c’è roba serissima, da Step Up a Love&War passando per tutto quello che c’è in mezzo. Desensitized è un disco senza particolari difetti, da ascoltare tutto d’un fiato, che riesce perfettamente nell’intento di metterti un tale fomento addosso da farti venire voglia di comprare un cappello da cowboy e sparare ai palazzi con un lanciagranate inneggiando al sogno americano. Come già detto in passato, in molti si sarebbero messi ad imitare questo stile, ma gli originali rimangono di un altro livello.

REIGN OF EREBUS – Inversion Principle

Griffar: Erroneamente considerati gothic black per via della loro provenienza – essendo inglesi dovevano per forza essere cloni dei Cradle of Filth, no? – i Reign of Erebus di gotico non avevano praticamente nulla, giacché il loro black metal nel 2004 era fortemente influenzato dalla scuola svedese/norvegese. Li si può criticare per una totale mancanza di originalità ma, per favore, i Cradle of Filth lasciamoli stare, perché qui siamo in campi del tutto differenti. Inversion Principle oscilla tra sfuriate fast black di scuola Dark Funeral e momenti più lenti ma assai d’impatto che suggeriscono molti ascolti di capostipiti come i Gorgoroth. Qualche tastiera c’è, usata con sapienza senza mai eccedere, così come fanno la loro apparizione sporadica brevi assoli di chitarra che sono come schegge roventi di bombe esplose. Se si tiene in poca considerazione la mancanza di originalità Inversion Principle merita attenzione perché dotato di non pochi pregi: è furente quando serve ma mai confusionario, quando rallenta non è mai stucchevole o noioso, è suonato in modo più che accettabile, i riff sono tutti di alto livello e le composizioni sono curate come fossero scritte da un gruppo di caratura (e blasone) superiore. L’album contiene nove pezzi (inclusa una cover di Warfare degli Zyklon-B, non propriamente un gruppo di coticoni), dura circa 40 minuti ed è una piccola gemma persa nell’oblio dell’underground da riscoprire con gioia. Si sciolsero circa un anno dopo l’uscita dell’opera, salvo riformarsi nel 2015 e pubblicare un terzo full nel 2020 che mi sono sempre ripromesso di cercare prima o poi.

DRAGONFORCE – Sonic Firestorm

Barg: Di questo disco, e dell’impatto devastante (nel bene e nel male) che ebbe sulla scena power metal sia dell’epoca che degli anni a venire, abbiamo parlato qui e qui, con due articoli dalle prospettive speculari. Non credo ci sia nient’altro da aggiungere, se non che ogni tanto è sempre bello risentirsi qualcuno di quegli assoloni di chitarra di Herman Li che vent’anni fa ci fecero pelo e contropelo.

INFERNAL MAJESTY – One Who Points to Death

Marco Belardi: Ogni dieci anni circa, Chris Bailey, Kenny Hallman e Steve Terror smettono di vagare per le fredde lande dell’Ontario e rientrano in studio di registrazione. E fanno un disco a nome Infernal Majesty, moniker di cui tutti tranne il Belardi si sono a ragion veduta dimenticati. Lo dissi nel 2018: il loro unico must have è il primissimo None Shall Defy, un thrash metal incredibile che affinava e affilava le basi gettate dagli Slayer all’epoca di Hell Awaits, senza, con ciò, perdere un briciolo della malvagità dei Maestri. Il resto della discografia è appena passabile. Unholier Than Thou è del 1998 ed è un noioso compendio di mid tempo messo su copertina alla Dave Patchett. Gli ultimi due aggiungono qualche ingrediente in più, come i blast beat in occasione di questo One Who Points to Death e il senso di vaga modernità che pervaderà il successivo No God. Tutta roba ascoltabile, ma niente di paragonabile all’unica uscita storica targata Infernal Majesty. Rimandendo su One Who Points to Death ricordo che presentava brani piuttosto strutturati, mai brevi, e che era con tutta probabilità l’album più veloce sinora presentato dai canadesi. Il rallentamento a tre quarti della title track vale sinceramente tutto il disco e dimostra come la stoffa sia sempre quella. Difficile etichettarlo come semplice thrash, gli Infernal Majesty erano oramai completamente ibridati con il metal estremo e la virata verso il death metal era pressoché completata.

IMPIOUS HAVOC – At the Ruins of the Holy Kingdom

Griffar: Titolo scemotto a parte, anche il secondo album dei finlandesi Impious Havoc vale il tempo della sua rievocazione o (ri)scoperta che dir si voglia. Una quarantina di minuti di black metal dal forte afrore retrò, senza fronzoli, senza abbellimenti particolari e con l’unico scopo di prendere l’ascoltatore per il collo e stringere. Basta ascoltare l’opener Dark Sacrifice, con la sua alternanza tra un riff portante in piena vecchia scuola thrash e un monocorda ad alta velocità (senza avventurarsi nel blast beat), per capire l’andamento del disco, perché sostanzialmente lo schema compositivo dei sette brani è quello e grandi variazioni sul tema non se ne trovano. Sì, magari ci sono episodi più brutali ancora (Dreams of the Damned), ma le mele che cadono lontane dall’albero sono poche. Non distantissimi dai Clandestine Blaze, da certe cose dei loro grandiosi conterranei Diaboli oppure (specialmente negli stacchi più lenti) dai Musta Surma (altri fenomeni fin troppo poco considerati), gli Impious Havoc rappresentano degnamente il black di scuola finlandese, camminando a testa alta in mezzo a gruppi che hanno scritto la storia di questo genere. Sempre del 2004 è anche l’Ep Monuments of Suffering che prosegue sugli stessi binari. Ricercate comunque i loro lavori, sei full e due Ep usciti tra il 2003 e il 2013: se non li avevate mai sentiti nominare, sono tutti di eccellente livello.

ATROCITY – Atlantis

Barg: Gli Atrocity di Alex Krull si erano guadagnati fama e rispetto all’interno della scena death metal coi primissimi dischi, dopodiché è scattato qualcosa, non si capisce bene cosa, che li ha spinti non solo a cambiare freneticamente genere ma anche ad azzardare “sperimentazioni” e colpi di testa di cui basterà ricordare i due dischi di cover di canzoni pop anni ’80. Atlantis arrivò in un periodo particolare, segnato soprattutto dalla liaison tra Krull e Liv Kristine, la cui conseguenza immediata fu l’uscita della stessa dai Theatre of Tragedy e la formazione dei Leaves’ Eyes, trascurabilissima banda con il soprano norvegese dietro al microfono e l’intera formazione degli Atrocity a supporto. Il disco qui in oggetto fu invece anticipato da Cold Black Days, paraculissima canzonetta gotica all’acqua di rose che fungeva null’altro che da specchietto per le allodole, perché poi il resto del disco era molto più estremo, seppur non in modo compiuto. Niente di particolare, comunque: una volta persa la magia dei primi dischi, gli Atrocity hanno sempre cercato di trovare una formula abbastanza cerchiobottista che però non riesce ad andare da nessuna parte. Riascoltare Atlantis adesso è faticoso, non solo perché invecchiato maluccio ma perché davvero non si capisce dove voglia andare a parare.

4 commenti

  • Simone Amerio

    Beh, sui Peccatum era stato chiaro l’elenco delle 101 regole per essere un vero blackster:

    “10) Mai e poi mai, in qualsiasi circostanza….11) ..ascoltare i Peccatum”
    Per il resto beh quello dei Finntroll per me è l’ultimo loro grande album, il resto ascoltato mille volte ma con poche canzone che mi sono entrate in testa, il che vorrà dire qualcosa.
    Concordo col buon Belardi sui Fear Factory, anche se penso di averli visti live in quel tour (al Chico Bum Festival di Borgaro Torinese, se qualcun altro c’è stato me lo confermi)

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  • Come si possa liquidare un disco come quello dei Peccatum in questa maniera me lo dovreste spiegare, visto che a 20 anni di distanza suona ancora attualissimo con un Ihsahn molto ispirato. Mentre parlate bene dei Finntroll, un gruppo che io e un mio caro amico incrociammo a un festival e che lui definì in un solo modo: patetici. Adoro questa rubrica ma mi sembra che esaltiate principalmente gruppi che suonano “marci” e “grezzi” (o grotteschi)…

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