Avere vent’anni: KHOLD – Phantom

Forse qualcuno si ricorderà che l’anno scorso, nell’occasione del ventennale, non avevo trattato benissimo il loro esordio Masterpiss of Pain. Già avevo anticipato che la discografia dei Khold, gruppo dapprima reincarnazione poi nel tempo diventato side-project dei veterani Tulus, si riduce ad una serie di dischi tutti uguali che danno l’impressione di essere stati assemblati con pezzi di scarto della band primeva riarrangiati e rinfrescati un pochino (nemmeno poi tanto) nei suoni ed infine consegnati alla Moonfog, che con una sontuosa campagna pubblicitaria pompata a palla a base di ritorno alle origini, nere fiamme riprese a bruciare ed amenità simili è riuscita ad intortare una barca di gente, monetizzando come meglio non si poteva i suddetti scarti anziché lasciarli a languire dimenticati in un cassetto.
Phantom è un disco di classico black metal norvegese che ha come punto di riferimento stabile i DarkThrone. I nove brani sono tutti costituiti da pochi riff semplicissimi, in questo caso suonati quasi sempre a velocità medio-basse, e hanno il buon gusto di non durare in sette casi su nove oltre i quattro minuti, consentendo all’intero lavoro di superare di poco la mezz’ora. Meno male, perché presi ad uno ad uno i brani non sono particolarmente fastidiosi ma sciropparseli tutti in fila è una fatica, e farlo per più di una volta consecutiva una rottura di palle di primissimo livello; la voce monotona, sempre uguale, sempre con lo stesso timbro, più che dare senso di un demone che recita oscuri versi malefici induce alla narcolessia; lo scarso dinamismo (scarso è un eufemismo) di praticamente tutti i pezzi (Fra Grab Til Mørke parte più veloce ma poi rallenta nel finale, l’iniziale Dødens Grøde più o meno agisce nello stesso modo, gli altri sono puri mid-tempo che non cambiano mai) nuoce ad un prodotto che già in partenza denotava grossi problemi strutturali, a cominciare dalla diversificazione della stesura dei brani per concludere all’impressione finale che ne ha l’ascoltatore: questi pezzi sono più innocui del jingle dello spot pubblicitario di un supermercato.
Vale la pena espandere un attimino il discorso su quanto il metallo pesante in generale – ed il black metal più specificamente – abbia bisogno di miti per rinfrescare periodicamente la sua gloriosa storia ed attualizzarla. I Khold sono un gruppo mediocre, lo sono sempre stati, ma vent’anni fa c’era bisogno che qualcuno in Norvegia si rimettesse a suonare qualcosa di paragonabile a quanto fatto dai primattori della scena… c’era bisogno. È questo il punto: perché ce n’era bisogno? Vista a posteriori, cosa hanno cambiato nella storia del black metal? Chi hanno influenzato, cosa hanno portato di significativo, cosa si può definire peggiore se i Tulus non si fossero mai sciolti dopo Evil 1999 (disco che ribadisco essere una ciofeca senza se e senza ma) per poi rinascere con il nome Khold? A me sembra solo che abbiano nascosto la polvere sotto il tappeto: non avevano più idee vincenti prima e non le hanno avute in seguito, né riciclando pezzi che loro stessi avevano giudicato non all’altezza né – esauriti gli scarti – scrivendo ex novo brani nuovi. Khold o non Khold, il black metal vanta centinaia di album eccellenti usciti dal 2000 in poi in ogni parte del pianeta, non è che il black lo possono suonare solo i norvegesi per diritto non-divino e tutti gli altri si devono scansare per lasciar strada agli unici maestri. Ragionando in questo modo una marea di blackster si sono dati la zappa sui piedi, perché si sono trovati ad incensare giocoforza progetti che non valevano nemmeno la metà di quanto promesso, e forse ne hanno (in)consapevolmente ignorato molti altri che avrebbero meritato ben maggior successo (anche commerciale, perché no?).
Spulciando in rete vai a leggere recensioni/opinioni che lodano i Khold come fossero stati dei nuovi messia neri (en passant, i Black Messiah esistevano davvero, erano tedeschi e hanno pubblicato un paio di CD niente male, i primi due, fine OT), scritte da gente che non tollerava che qualcuno dicesse loro: “Ok, ma sono tutto qui?”. Non si poteva farlo: quando si parla e si scrive di musica metal e dei suoi miti, effettivi oppure creati ad arte, il dissenso è un’opzione non contemplata, sei tu dissenziente che non capisci un cazzo e in quanto indegno devi andare ad ascoltarti i… chi cazzo c’era all’epoca, i Take That? Boh, chi se lo ricorda? Mitizzare qualcuno o qualcosa solo perché si deve, perché ce n’è bisogno è una stronzata epocale che molto spesso al genere musicale che tanto ci piace ha fatto più danni che altro. Ti trovi poi in mano dischi che non solo non reggono il tempo, ma non reggono neanche il passare di un solo anno prima di venir dimenticati oppure rivenduti nel mercato dell’usato ad un decimo del prezzo. Eppure te l’avevano consigliato in tanti… quasi tutti ti dicevano: “Minchia vai sul sicuro, prenditi i Khold, quello sì che è black metal!”. E invece no, non è vero niente. E sei pure passato sopra a quella copertina di merda che meriterebbe un concorso per premiare chi scrive il Fartwork più divertente: chi vince si aggiudica una copia del CD, usata naturalmente, ché tanto la si trova in giro a pochi spiccioli. Proprio come i dischi mitici, oh.
Dopo la mezza delusione (ad esser buono) del primo album diedi la classica seconda chance ai Khold comprandogli anche questo, dopodiché li lasciai del tutto perdere. Credo pure che questa sia l’ultima e definitiva volta che dedico loro un po’ del mio tempo. Usciva, esce e continuerà ad uscire musica black metal spaventosamente migliore di questa. Non sarà originale, vero, ma nemmeno i Khold lo erano; non sarà norvegese, e chissene; non avrà occasione alcuna di uscire per una major (ricordo che Moonfog fu poi assorbita da Peaceville, a sua volta un ramo della Music for Nations) ma credetemi: è molto ma molto meglio così. (Griffar)
meglio del primo ma sempre ampiamente insulso
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