Un po’ di (neo) folk e di (post) punk per le vostre scampagnate fuori porta

BLOOD AND SUN è un nome da generatore automatico di moniker neofolk. In effetti colui che c’è dietro, tale Luke Tromiczak, di Brooklyn, New York, deve essere bello in fissa col nefolk sia europeo che ovviamente americano (quello un po’ ambiguo, tipo “no, non era un braccio teso, salutavo solo lo zio Peppino”), ma anche con il folk a stelle e strisce tout court, quello gotico, rurale (quello di gente che ambigua non è per niente, se ha qualcosa da dirti te la dice, altrimenti no, o al massimo ti spara). Ma non ci addentriamo nel pantano della politica, non oggi, per carità, ho il mal di testa, ho il Covid. C’è il sole, è primavera, tempo per scampagnate. In giro già da un pezzo (e con un ottimo album alle spalle, Love & Ashes del 2020, a proposito di nomi un po’ telefonati), Tromiczak ha fatto uscire quest’anno un Ep di quattro pezzi, dal titolo Ochre. Dolente, magniloquente. A me ricorda parecchio Rome, soprattutto nella prima traccia omonima. Pure nella successiva Wellspring, dove però esplode pure il lato appalachiano della faccenda. E parecchio dinamico, cinematografico. Ancora Crossroad, che più gotico americano di così si muore, haunted music acustica da cowboy con gli occhiali da sole. Infine Crown, con quel folk che gli emigrati inglesi hanno portato con sé nel New England e ancora mentre colonizzavano l’entroterra massacrando degli irochesi un tantinello incazzati. Ochre è un Ep breve, ma splendido, e soprattutto perfetto per un bel trekking tra boschi e montagne selvagge. Occhio però agli irochesi.
Persino Thomas Jefferson Cowgil, da Seattle, WA, alias KING DUDE, ha ceduto all’istinto di sovrappopolare il pianeta. Fosse stato un agricoltore, avrebbe prodotto lui stesso il cibo per la sua prole. Fosse stato un falegname, ne avrebbe costruito e intarsiato la culla. Invece fa, bene, il musicista e gli registra un disco di ninne nanne tradizionali e canzoni per bambini virate folkish. Nursery Rhymes (bel titolo) ne raccoglie ben quattordici, e noi ce lo immaginiamo vestito di nero, arcigno e marziale, a lato del pargolo o della pargola coi sui ninnoli (tutti neri) che gli canta “London bridge is falling down, falling down, folling down, my fair lady” (London Bridge, esatto, quella lì), o una Mary, Mary, Quite Contrary coi Synth di Badalamenti. Immaginarlo mentre canta “fra’ Martino campanaro” (Frère Jacques) o “brilla brilla la stellina” (Twinkle, Twinkle, Little Star) è impagabile, ce lo ricorderemo quando riprenderà a raccontare di amore, sesso, paura e morte. Comunque tutte le versioni sono anche parecchio cupe, gotiche. Chissà se avesse avuto la stessa idea Mark Lanegan, visto che qualche arrangiamento lo evoca pure, ma non mi risulta abbia figliato. Nursery Rhymes non sarà un episodio cardine nella sua discografia, ok, è disponibile esclusivamente su Bandcamp, ma è una collezione perfetta se per la vostra scampagnata primaverile non siete riusciti a mollare il marmocchio ai nonni. E dovete pure riuscire a farlo addormentare nell’area picnic.
Death. Folk. Country. Se vi doveste chiedere come suona l’album di DORTHIA COTRELL, da Richmond, VA, ovvero la cantante dei Windhand, vi basterebbe il titolo. Per l’appunto: Death Folk Country. Anche la copertina horror aiuta. Se un richiamo doveva esserci al cantautorato gotico femminile contemporaneo (Chelsea Wolfe, Marissa Nadler), eccovelo servito. Ma per il resto qui siamo al cospetto di un disco ancora più folk e ancestrale. Folk appalachiano e folk desertico. Black Canyon, probabilmente la migliore del lotto, troverebbe a proposito cittadinanza in una collezione di brani del Mark Lanegan più acustico (tra Whiskey for the Holy Ghost e Field Songs). Stessa rassegnazione blues e silenzio macabro. Ancora per tutto il resto dell’album, pochissimi momenti più sereni (Effigy at the Gates of Ur), tantissimo sounthern gothic, invece. Potenzialmente ideale per un western moderno tipo Hell or High Water, Death Folk Country è anche colonna sonora perfetta per una camminata in solitaria verso il posto più remoto che riuscite a raggiungere. Senza rotture di scatole. Pubblica sorprendentemente la Relapse.
Sorprende di nuovo la Relapse pubblicando Härvest, secondo album dei POISON RUÏN, da Philadelphia, PA. Un anno fa li avevamo incontrati per un singolo. L’album precedente aveva sorpreso per un punk rock decisamente a bassa fedeltà, ibridato con strani paesaggi dungeon synth e la fissazione per armi e armature dei secoli bui. In Härvest li ritroviamo maggiormente asciutti (molte meno divagazioni sintetiche, meno atmosfera) e con lo stesso suono marcio. Per scelta, non venitemi a dire che la Relapse non avesse due spicci in più per la registrazione. Mi lascia un po’ freddo questa cosa. Anche se di canzoni divertenti ce ne sono (Tone of Illusion, Härvest stessa, le due Resurrection). Parliamo del punk rock stradaiolo di una certa vecchia scuola americana (Pagans, Dead Boys), anche se non particolarmente maleducato o brillante. Voce cavernosa manco fosse un gruppo Confederacy of Scum (e di sicuro non sono così scum). Non ne capisco il relativo hype (sbandierati nel bill del Roadburn) ma Härvest resta comunque perfetto nel caso la scampagnata fosse rimandata per cattivo tempo e finiste a bere nel garage di qualcuno. Portate abbastanza birra, nel caso.
Me l’ero totalmente perso a dicembre scorso With Open Arms, il ritorno inatteso dei CULT OF YOUTH, da Brooklyn, NY. Felicissimo di recuperare. Qualcuno altro li ricorderà dediti ad una forma non troppo conflittuale di neo folk (pubblicavano su Sacred Bones, intellighenzia indie hipster con più di un flirt interessante: Boris, Marissa Nadler, Rose McDowall, Këkht Aräkh). Uggioso neofolk tribale europeo poco problematico e mischiato con buon post punk e con la capacità di scrivere delle canzoni belle davvero. Come se al posto del passo dell’oca facessero da colonna sonora per una gioventù vitale che si ritrova nei boschi a celebrare ardore e natura. Ci sono infatti i Death In June (Final Kingdom), ma c’è anche serenità (i paesaggi del New England nelle due Awakening). Ci sono i Depeche Mode (Barking Without Dogs), i Killing Joke che sfidano i Virgin Prunes a casa loro (Beyond Self), ma c’è anche una chicca stranamente baggy e brit rock che non ci fa raccapezzare molto su che razza di disco stiamo ascoltando (Outside, in Reality). Eppure tutto è in equilibrio e With Open Arms è una raccolta di canzoni perfetta per radunarsi tutti attorno ad un falò in riva al lago, a cantare canzoni al chiaro di luna ed in tenuta paramilitare. Mi raccomando, non facciamoci prendere troppo la mano.
Chiudiamo infine questa lista di consigli per gli ascolti con The Boatman on the Downs del progetto TWENTY THOUSAND DAYS di Alan Trench (Orchis) e Martyn Bates (Eyeless in Gaza). E si, siamo nel Regno Unito, stavolta. In particolare nel sud dell’Inghilterra, le colline del South Downs. Semplifico, un po’ con l’accetta: pare di sentire Peter Gabriel nei Current 93. I due musicisti esperti si aggirano per campagne idilliache alla ricerca di storie e suoni misteriosi, con il loro armamentario di strumenti acustici e sintetizzatori analogici. L’atmosfera al contempo rurale e spettrale potrebbe trascinarvi con la mente nelle tenute di Lord Summerisle. È un disco piuttosto lungo, ma si chiude con una gemma folk malinconica e brillante, The Brides of May, che si scrolla di dosso quel senso di inquietudine eerie che permea il resto del disco. Stranamente un ascolto molto piacevole, non annoia, perfetto per andare a spasso anche per le nostre campagne a vedere se c’è rimasta un po’ di magia. Se ne trovate, fatemelo sapere. (Lorenzo Centini)
Ottimo articolo, al momento sono i miei sottogeneri preferiti. mi segno chi non conosco 🤘🏻
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