Storie per non dormire: MARISSA NADLER – The Path of the Clouds

Se non proprio sorella maggiore, Marissa Nadler è quantomeno cugina di infere chanteuse ormai pressoché adottate dal pubblico metal come Chelsea Wolfe ed Emma Ruth Rundle. Lo stesso Droneflower, riuscita collaborazione con Stephen Brodsky dei Cave In, può essere visto, con il senno di poi, come una sorta di anticipazione di operazioni come May Our Chambers Be Full e Bloodmoon: I. E, a testimonianza di una contiguità che è estetica ancor prima che musicale, proprio Emma Ruth Rundle è presente, con la sua chitarra, su due brani del nuovo The Path of the Clouds. Il consistente parterre di ospiti (ci sono inoltre Amber Webber dei Black Mountain, Mary Lattimore, arpista quotatissima in campo indie, e -soprattutto – l’ex bassista dei Cocteau Twins Simon Raymonde, qualcosa in più di una semplice influenza per Nadler) è funzionale a un lavoro molto più stratificato delle ultime prove, concepito durante il confinamento da un’artista abituata a scrivere in tour.
La cesura è netta rispetto al minimalismo di For My Crimes, con il quale la cantautrice di Washington aveva chiuso, almeno per il momento, i conti con i retaggi della tradizione statunitense, spingendosi fino a lambire territori country. E, fosse solo per il testo, il brano d’apertura Bessie, Did You Make It? potrebbe essere un’inquietante campfire song da strimpellare davanti a un falò.
La storia di Glen e Bessie Hyde, novelli sposi scomparsi durante una gita in canoa sul fiume Colorado nel 1928, segna il cammino dell’album sia dal punto di vista sonoro, con una morbida coltre di archi e sintetizzatori che abbraccia una scrittura rimasta incardinata nel folk, che tematico. L’ispirazione per le liriche è infatti venuta dalla visione della serie Netflix Unsolved Mysteries, riedizione di una vecchia trasmissione sui misteri irrisolti della storia americana che aveva ossessionato Marissa da bambina.
Il singolo e la successiva title-track hanno intuizioni melodiche di un’immediatezza che non si avvertiva dai tempi dello splendido July. Il resto del disco imbocca una strada più irta ed eclettica, senza perdere di vista l’essenzialità della forma canzone ma sperimentando, come raramente in passato, con stili, soluzioni e arrangiamenti. Era prevedibile, del resto, che una musicista così irrequieta e prolifica riemergesse dal lockdown con un lavoro, composto in gran parte al pianoforte, più rifinito e meditato.
Tra queste undici murder ballads, le meno coinvolgenti sono proprio quelle dai toni più eterei, ovvero più memori del passato, che prevalgono nella parte centrale dell’Lp, creando nondimeno un gioco di insinuante tensione con le distorsioni sommesse di episodi dove si ode ancora qualche lontana eco di quel Droneflower che Nadler deve essersi divertita parecchio a incidere. Il brano più classico è posto in chiusura: Lemon Queen rievoca il fantasma di Leonard Cohen e potrebbe essere un indizio del prossimo futuro come potrebbe non esserlo per nulla. Un disco diseguale ma dalla subdola potenza evocativa, che rimane sotto pelle come il turbamento sottile che rimane al risveglio da quei sogni dove si ha la parziale coscienza di sognare. (Ciccio Russo)