Avere vent’anni: febbraio 2000

FLOWING TEARS – Jade

Trainspotting: Proprio il mese scorso avevo parlato di Swallow, l’EP dei Flowing Tears, che all’inizio si facevano chiamare Flowing Tears and Withered Flowers, per il fatto che in dieci anni non li avevamo mai nominati. Non ricordavo che proprio a febbraio 2000 pubblicarono Jade, che comprai appena uscito perché mi piaceva il nome. Eh già, quando non c’era internet si era costretti a fare tentativi disperati di questo genere. Mi andò bene ma non benissimo, perché rimasi piuttosto colpito dai primi tre pezzi (Godless, Sistersun e appunto Swallow) ma non mi riuscii ad affezionare all’album completo. Il motivo è molto semplice: l’album è moscio, noioso e suonato con troppa flemma. Le melodie sarebbero anche carine, se approcciate con un’altra verve, ma purtroppo messa così l’intera faccenda è da latte alle ginocchia. Non aiuta la flebile vocina lagnosa di Stefanie Duchene, che nella vita tutto avrebbe potuto fare tranne la cantante. Quei tre pezzi iniziali sono carini, ma arrivare alla fine del disco è un’impresa titanica. Questa cosa avrà conseguenze: dopo quattro anni la piccola Stefanie verrà defenestrata per fare spazio a una tizia più normale e, più in là, il chitarrista manderà affanculo il gothic metal strappacore per fondare i Powerwolf, concettualmente all’opposto speculare dei Flowing Tears. Non tutto il male viene per nuocere, evidentemente.

HIGH ON FIRE – The Art of Self Defense

Marco Belardi: Gli High On Fire fattoni, grassi come panini con tre sottilette Kraft sciolte dentro che nella cottura si sono incrostate su tutta la piastra, al punto che il giorno seguente la starai ancora pulendo. Gli High On Fire che preferisco, figli degli Sleep e loro naturale passo successivo. Da qui al terzo album Blessed Black Wings fu una goduria totale: li ho comperati tutti, ho gridato al miracolo, e grazie a loro ho trovato quello che faceva per me. Non era né stoner rock né doom metal, non era sludge e nemmeno qualcos’altro di preciso. Era un casino infernale sotto forma di ottime canzoni, era Matt Pike che trovava la sua dimensione strafatta e fumosa. Poi è salito gradualmente il metallo, la piastra in ghisa ha continuato a cuocere delle gran carni ma è anche ritornata luccicante. Gli High On Fire sono ad oggi un gran gruppo metal, ma non sono più quello che furono nelle intenzioni iniziali: un casino infernale, appunto, ma fatto nella migliore maniera possibile. Ah, io preferisco questa copertina qua a quella col rapace con l’artrite.

STRATOVARIUS – Infinite

Gabriele Traversa: Il SanreMetal esiste solo dal 2017, ed è un vero, vero peccato. Sì, perché Infinite è un disco dignitoso, ma è anche (insieme credo a Century Child e Once dei Nightwish) il brodo primordiale di quello che è il melodic power (sanre)metal odierno. Pensate, senza una Hunting high and low oggi forse non avremmo i Temperance, e i loro ritornelli super-pop da sala d’aspetto del medico curante. Pensate, senza una Mother Gaia oggi forse avremmo ancora dei testicoli di dimensioni normali. Pensate, senza Glory of the world oggi forse avremmo un ritornello in meno da cantare sotto alla doccia. Pensate, pensate, pensate. Assolutamente l’ultimo disco degno di un ascolto dei due Timo, irrilevante all’interno della prima parte della discografia della band ma di importanza seminale per la (de)generazione power che verrà.

BREACH – Venom

Ciccio Russo: Di fronte a dischi del genere, il recensore dell’epoca non sapeva di solito che pesci pigliare. Non era hardcore, non era post-thrash, non era crust, non era sludge. Era tutte queste cose e ancora di più. Era un ibrido intricato e sfuggente che prendeva l’HC metallizzato della scuderia Victory Records – seminale ponte tra due mondi abituati a guardarsi in cagnesco – e lo apriva a suggestioni nuove, scrivendo le regole di quello che sarebbe stato il suono del nuovo millennio, quel calderone “post” dove i generi codificati hanno finito per liquefarsi. Non so se Venom è il miglior disco dei Breach; sicuramente è il più completo, quello che riassume meglio tutte le anime di questa grandissima band, da quella noise, sempre più dominante, a quella psichedelica, qua ancora accennata rispetto al successivo Kollapse, con il quale gli svedesi avrebbero concluso la loro fulminante carriera. E che suono poi, signori, oscuro e cristallino al tempo stesso. Un lavoro fondamentale per comprendere l’evoluzione della musica dura negli ultimi vent’anni.

ASTARTE – Rise from Within

Michele Romani: Ricordo che, quando uscirono fuori le Astarte, nelle varie riviste di settore si ironizzasse sul fatto che questo trio fosse tutto al femminile, e io stesso mi avvicinai con un misto di diffidenza e curiosità al loro debutto del 1998, Doom Dark Years. I dubbi furono fugati poco dopo minuti di ascolto: si trattava infatti di un notevolissimo disco di black metal anni ’90, molto darkthroniano nella sua essenza ma caratterizzato da aperture sinfoniche a dare atmosfera al tutto. Il gruppo capitanato dalla bella  Maria “Tristessa” Kolokuri (che purtroppo è stata portata via da un cancro nel 2014) non è riuscita però a mantenere le promesse con questo successivo Rise From Within. Da buone adepte della scena norvegese, anche le Astarte risentirono di quel particolare periodo a cavallo dei due secoli in cui nella scena black metal nordica stava chiedendosi quale via seguire, il che portò a sperimentazioni varie e influenze marcatamente death metal che non risparmiarono neanche il trio greco. Il risultato finale non è neanche così malvagio, i brani sono più snelli al punto da potersi definire più blackened death metal che BM vero e proprio, ma la magia del debutto purtroppo è andata irrimediabilmente perduta. Dopo altri due dischi piuttosto anonimi e la tragica morte di Tristessa, la band ateniese si è definitivamente sciolta.

GORGOROTH – Incipit Satan

Gabriele Traversa: I Gorgoroth sono tipo i Vasco Rossi del black metal. Adorati ed elevati a oggetto di culto da praticamente tutti, ma a me fanno cagare. E, come il Comandante di Zocca, anche qui vale la regola del “Sì, vabbè, posso capire alcuni pezzi dei primi album, ma il resto… santoddio che schifo!”. Ecco, Incipit Satan non è fra i primi. E qui termina la recensione.

OBSCENITY – Intense

Ciccio Russo: Tra i nomi più sottovalutati della scena death metal europea, gli Obscenity sono sempre stati un mio gruppo feticcio. Inciso in un periodo in cui a pubblico e riviste di queste sonorità fregava meno di zero, Intense non è esattamente uno dei lavori migliori della band tedesca. Pur non mancando di un paio di colpi ben assestati e di quel peculiare gusto melodico che ha sempre distinto i sassoni dal grosso della scena brutal, questo loro quinto full soffre di un’ispirazione un po’ altalenante e qualche poco felice strizzata d’occhio alle mode dell’epoca, con alcune “panterate” di troppo nei mid-tempo. Un momentaneo disorientamento comprensibile in una fase, come si è detto, non proprio favorevolissima al death di marca tradizionale. Se non li conoscete, cominciate a recuperarli da The 3rd Chapter o, perché no, dall’ultimo Summoning the Circle, uscito, come al solito, nella colpevole indifferenza generale.

HAGGARD – Awaking the Centuries

Trainspotting: L’esordio And Thou Shalt Trust… The Seer aveva lasciato tutti spiazzati, perché non si era mai sentito nulla del genere; gli Haggard erano quindi rapidamente diventati un nome di culto, da cui ci si aspettava moltissimo. La loro velleità di coniugare ugualmente il metal e la musica sinfonica portò il pubblico a chiedersi come quest’idea si sarebbe potuta sviluppare nel futuro: più metal? più musica sinfonica? più qualcos’altro che ancora non potevamo immaginare? Con Awaking the Centuries la creatura di Asis Nasseri si impegna a dare la risposta definitiva: non spostarsi in alcun modo dalle coordinate del debutto. Il secondo album, infatti, così come gli altri due lavori del gruppo di Amburgo, non introduce elementi di rilievo alla formula vincente, preferendo concentrarsi su come mantenere il precario equilibrio tra gli elementi senza mandare tutto in vacca, cosa che in effetti con gli Haggard non è mai successa. Awaking the Centuries è un concept album piuttosto breve, nei suoi 36 minuti di durata, in cui le parti narrate e funzionali a portare avanti la narrazione rimangono fortunatamente minoritarie e marginali; di esse ricordo soltanto un’introduzione con una francese che grida “C’est la peste! C’est la peste!” che suona inquietantemente simile ad un “Sei una bestia” in dialetto barese. A parte questo, il disco è molto gradevole e interpretato con sorprendente levità; e come sottofondo funziona benissimo.

INNER SHRINE – Fallen Beauty

Gabriele Traversa: Mi sono sempre piaciute quelle due sacerdotesse incatenate al suolo in copertina. Mi piace soprattutto quella vestita di nero a destra, che solleva la mano sofferente per trasmetterti chissà quale oscura e recondita emozione quando in realtà, magari, stava chiedendo un bicchiere d’acqua. Il secondo dei fiorentini è un buon disco di gothic metal vecchia scuola, che non lesina nell’utilizzo del growl e delle distorsioni doom. Migliore del debutto, Nocturnal Rhymes Entangled in Silence, che aveva delle buone intuizioni ma la peggior registrazione credo di sempre, roba da ergastolo. Non una pietra miliare del genere ma comunque ottimo metadone se, per qualche motivo, avete smarrito le vostre copie di Aegis o Velvet Darkness they fear.

GOATWHORE – The Eclipse of Ages Into Black

Marco Belardi: Anno Duemila. Trovo questo cd ed esclamo: Goatwhore??? E’ già mio ad honorem ma occorre la prova del nove, che consiste nel metterlo all’interno del lettore e provarlo anche giusto per qualche minuto. Confermo al negoziante che è già mio. Il tizio dei Soilent Green di Sewn Mouth Secrets in un gruppo a sua volta sporchissimo, che mescola alla roba di New Orleans il thrash e il black metal. The Eclipse of Ages Into Black è un capitolo a sé stante nella discografia degli americani: sebbene ritenga più complete e funzionali le loro uscite centrali, da Carving Out the Eyes of GodConstricting Rage of the Merciless, questo titolo qua mantenne un’aura sudicia e indisponente che in futuro non avrei rivisto facilmente. Il motivo? Più pulizia, più perizia nell’esecuzione, più attenzione alle melodie e alla costruzione dei pezzi. Questo disco qua uscì fuori un po’ come gli veniva, un po’ alla prima, ed uscì benissimo.

THOU SHALT SUFFER – Somnium

Michele Romani: Chi ha ben presente i primi vagiti della scena black metal norvegese non può non avere presente i Thou Shalt Suffer, che pur se col black metal non hanno mai avuto nulla a che fare hanno visto tra le proprie fila due personaggi (Samoth e Ihsahn) che un leggerissimo contributo alla causa l’hanno dato, diciamo. Dopo il demo Into The Woods of Belial e l’ep di culto Open the Mysteries of Your Creation, che vedeva la band cimentarsi in un death metal piuttosto funereo infarcito di sporadici inserti di tastiere, le redini del progetto sono state prese esclusivamente da Ihsahn. Il risultato è questo Somnium, che con la precedente produzione della band non c’entra assolutamente nulla, tanto che in molti si sono chiesti il motivo per cui Ihsahn abbia voluto mantenere il monicker Thou Shalt Suffer. Parliamo infatti di una quarantina di minuti infarciti esclusivamente da musica neoclassica e divagazioni ambient, che confermano (semmai ce ne fosse bisogno) tutto il talento di Ihsahn, ma che alla lunga possono forse annoiare chi non è avvezzo a questo tipo di sonorità. Se dovessi fare un paragone, il disco potrebbe ricordare vagamente Fjelltronen di Satyr Wongraven (in cui tra l’altro aveva collaborato pure Ihsahn), anche se quest’ultimo era più tipicamente dungeon synth ed aveva quelle spettrali atmosfere medievali che purtroppo mancano in questo lavoro. Solo per appassionati del genere.

DECEASED – Supernatural Addiction

Ciccio Russo: I Deceased sono un tesoro nascosto, la miglior band che non avevate mai sentito nominare, il gruppo metal americano con la maggiore proporzione inversa tra meriti artistici e affermazione commerciale. Dando per scontato che la maggior parte dell’inclito pubblico di Metal Skunk non li avesse mai coperti, mi ero già dilungato più volte (ad esempio, in occasione degli ultimi due loro lavori in studio) su quanto spacchino, su quanto siano originali e inclassificabili, su come dovreste recuperare subito in blocco tutta la loro discografia, su quanto ogni loro canzone contenga più idee di quante il 95% degli altri non ne infili in un album intero. Auspico quindi che, nel frattempo, abbiate rimediato e non debba ripetere il pippone a proposito di questo loro quarto full, che approfondisce ulteriormente quella rilettura degli stilemi epic/power Usa anni ’80 attraverso gli strumenti espressivi del metal estremo già avviata nel precedente Fearless Undead Machines. Supernatural Addiction è l’ultimo disco dei Deceased a uscire su Relapse, quando ancora i ragazzi di Arlington potevano sperare di farcela. Seguirà un iniquo sprofondamento nell’underground più oscuro fatto di uscite sempre più rarefatte per etichette sempre più sfigate. Che mondo infame.

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