Un giorno al FRANTIC FEST
Io ad agosto di solito resto a lavoro, un po’ perché lo richiede la natura della mia occupazione, un po’ perché si tratta dell’unico mese dell’anno in cui Roma, svuotata di una buona metà dei residenti, è vagamente vivibile. La cosa mi è sempre andata benissimo finché non è venuto fuori il Frantic Fest. Sono due anni che, roso dall’invidia di fronte ai report estasiati del Masticatore, rosico perché non ci posso andare. Con la crisi di governo balneare, a ‘sto giro sembrava buttare ancora peggio ma almeno una giornata dai doveri di operatore dell’informazione riesco a strapparla. La scelta non è difficile: venerdì è headliner uno dei miei gruppi favoriti di sempre. Il risultato? Ora rosico ancora di più perché non sono riuscito a presenziare alle altre due, giacché ho scoperto che è tutto spettacolare come me lo avevano raccontato.
Pur avendo sbagliato la direzione del bus da Pescara a Francavilla (era difficilissimo, dato che già il mare ti indicava quella giusta, ma come ovvio ci sono riuscito lo stesso), riesco ad arrivare al TikiTaka Village, la struttura sportiva che ospita l’evento, in perfetto orario per il gruppo d’apertura, THE HAUNTING GREEN, che avevo già visto qualche anno fa al Tube Cult, altra rassegna curata dal Duca degli Abruzzi Davide Straccione, e confermano le buone impressioni di allora. Un tizio alla chitarra e una tizia alla batteria, entrambi impegnati a scartavetrarsi le corde vocali dietro il microfono. Rubando il facile paragone a Trainspotting, praticamente i White Stripes del male. Qualche mese fa è uscito il loro primo full, Natural Extinctions, che devo ancora ascoltare. Me li ricordavo più doom e dilatati: non so se nel frattempo qualcosa sia cambiato nella scrittura o nell’approccio ma del loro ambient/doom questa volta viene fuori la componente più black e aggressiva, il che rende ancora più anti-life il sole pomeridiano che picchia sulle nostre teste. Ora urge recuperare il disco.
Per i SAOR nutrivo grandi aspettative, un po’ per il valore intrinseco dei loro album, un po’ per il resoconto del Black Winter Fest, un po’ per l’incongruo endorsement di Kurt Angle. Aspettative che vengono rispettate appieno: Andy Marshall sale sul palco con una formazione di turnisti piuttosto affiatata e, nonostante la brezza marina e la canicola agostana delle cinque del pomeriggio, ci trasporta subito nelle Highlands con un paio di estratti dall’ultimo Forgotten Paths. C’è qualche problema di bilanciamento dei volumi che viene presto risolto. Il paradosso è, che con suoni meno nitidi, veniva resa benissimo quella produzione un po’ impastata che caratterizza i lavori in studio. Una performance trascinante ed evocativa che ha un solo punto debole, ovvero quello già sottolineato dal mio sodale in sede di recensione: il growl in stile death non ci azzecca proprio tantissimo con quei brani e ogni tanto ti fermi a immaginare come sarebbero ancora meglio con uno screaming più classico. Ma quando chiudono con Tears of a Nation mi dimentico subito le mie oziose recriminazioni.
Il concerto dei GAEREA è l’unico che ho seguito un po’ distrattamente. Un po’ perché mi andava di farmi un giro tra stand e banchetti, un po’ perché è ancora abbastanza presto e io e il buon Roberto Angolo stabiliamo che è meglio cenare subito piuttosto che rischiare lunghe file più tardi. In realtà la coda per birre e cibarie è minima, se non inesistente, ma pizze e arrosticini vengono cucinati sul momento, il che richiede un minimo di attesa. Però lo spazio è abbastanza raccolto e il banco delle cibarie è posto strategicamente a metà tra i due palchi, quindi la situazione si riesce a tenere sotto controllo. Confesso di non aver ascoltato ancora Unsettling Whispers, primo lp dei portoghesi, che si presentano sul palco coperti da neri burqa del male. Mi sono parsi dei buoni epigoni degli ormai popolarissimi Mgla, con un black dai toni cupi sospeso tra antico e moderno. Da approfondire.
E il volto coperto caratterizza anche Athenar, leader dei MIDNIGHT, in studio una one man band che non mi ha mai convinto troppo, dal vivo una macchina da guerra. Sulla carta dovrebbero piacermi, dato che suonano un genere che adoro: blackthrash rozzo e ignorante. Di fatto, mi sono sempre parsi un’operazione un po’ posticcia, a partire dai suoni troppo minimali, ché certi album suonavano in un certo modo pure perché chi li incideva non aveva alternative migliori. Dal vivo, però, spaccano tutto, e pezzi che su disco mi erano parsi un po’ mosci diventano una randellata nei denti dietro l’altra. Lo spirito del capro prende sempre più corpo e mi spinge a farmi un secondo giro di arrosticini. Al quale seguiranno un terzo e un quarto e così via fino all’ultimo cambio palco.
È poi il turno dei padroni di casa SELVANS, autori di uno dei migliori dischi black metal usciti dall’Italia negli ultimi anni. Dal vivo, al Traffic, mi erano piaciuti molto ma stasera si superano, mettendo su quella che è stata, per me, una delle migliori performance del giorno, complici le ancestrali divinità italiche che, guardandoli dai colli retrostanti, infondevano loro ulteriore energia. Scaletta piuttosto aggressiva, che privilegia la ferocia e le velocità sostenute. Haruspex sembra posseduto sul serio. Alcuni testimoni hanno affermato in seguito di aver visto la sua figura stagliarsi sulla luna a cavallo di un cinghiale alato ma ormai s’ha fatt nott e lu porc n’a reve, il tasso alcolico generale inizia a diventare impegnativo, quindi non ci giurerei.
E il Frantic Fest è stata anche l’occasione per iniziare ad amare una band che ho tentato più volte a farmi piacere invano: i PRIMORDIAL. Conosco un sacco di gente a cui fanno impazzire e ogni volta che esce un loro nuovo lavoro ci provo. Li trovo sempre bravissimi, originali, affascinanti ma non scatta mai la scintilla. Ebbene, hanno fatto un concerto talmente epico che, il giorno dopo, ancora galvanizzato, mi sono riascoltato l’intera discografia a ritroso, partendo dall’ultimo Exile Amongs The Ruins, e mi sono chiesto dove mai avessi sbagliato. Lunghe suite guerresche come Nail Their Tongues e Where Greater Men Have Fallen, che apre l’ostilità, ti investono con l’impeto di una carica di cavalleria. La tensione regge fino alla fine, non c’è un attimo per respirare e Nemtheanga è un frontman incredibile, che tiene per la gola un pubblico che ha ormai riempito quasi del tutto l’area del festival, che il giorno prima era pure andato sold out. Si chiude con Empire Falls ed è un po’ come quando le luci si accendono all’improvviso alla fine di un film che ti ha lasciato inchiodato per tutta la sua durata. Straordinari.
Dopo l’assalto degli irlandesi, i MESSA sono il gruppo ideale per riprendere fiato e rilassarsi con atmosfere più rarefatte e avvolgenti. Il doom con voce femminile sta diventando un genere pericolosamente inflazionato ma i veneti, grazie anche a un sound piuttosto personale, continuano a spiccare tra i migliori esponenti europei del filone. Li avevo visti un annetto fa, o forse più in un piccolo club romano e nel frattempo i ragazzi sono cresciuti ulteriormente in amalgama e in solidità, complice il sovrappiù di motivazione giunto da una presenza sui palchi internazionali che inizia a farsi consistente (quest’anno li si è visti pure al Roadburn). Gli astanti sono un po’ stanchi ma felici e la voce di Sara li accompagna quasi materna verso il capitolo finale di una serata intensissima dove, a prescindere dai gusti personali, era davvero molto difficile trovare un tempo morto per andare in giro, cazzeggiare o collassare.
Si finisce con quella che – tolti i capisaldi obbligatori per tutti come Maiden, Slayer etc – è forse la mia band preferita. Nondimeno, non sarò fazioso e dirò che, per quanto la prestazione dei VOIVOD sia stata come sempre eccellente, un po’ mi ha lasciato l’amaro in bocca una scaletta pressoché identica a quella di circa un anno fa al Largo Venue, quando era appena uscito The Wake. È bellissimo che i canadesi volanti non guardino indietro e credano tanto nel nuovo lavoro (che ho apprezzato molto meno di Target Earth: la mancanza di Blacky si sente), però, a un festival estivo a undici mesi di distanza, mi sarebbe piaciuta una setlist più ampia, non composta al 50% dal materiale dell’ultimo album e dell’ep Post Society. Di fatto, da quando al timone compositivo c’è solo Mongrain il gruppo ha perso quell’immediatezza punk che ha sempre mantenuto anche nei dischi del periodo progressive. E ciò si nota ancora di più se dal passato vengono recuperati alcuni dei brani-simbolo più diretti come The Prow e The Unknown Knows, durante i quali perdo ogni residuo di dignità e lucidità. Poi li vedrei comunque dal vivo una volta al mese, si capisce.
Quando i Voivod ci salutano, già mi viene il magone per non poter essere qui anche il giorno successivo. Il Frantic è come ritrovare l’atmosfera del tuo piccolo club di fiducia in un contesto da festival. E, soprattutto, in questo momento è l’unico festival estivo di questo livello che abbiamo in Italia, e già per questo andrebbe sostenuto incondizionatamente. Perché uno di solito d’estate va in Olanda e in Germania (parlo di quelli medi, chiaro, l’Hellfest e il Wacken sono un altro campionato) perché in Italia non c’è nulla. Ora che c’è il Frantic, non c’è davvero alcun dubbio sulla trasferta da scegliere. Anche perché in Olanda e in Germania non hanno le proiezioni di film trash nazionali la mattina, non hanno il torneo di calcetto, non hanno il mare a due passi e le tante facce amiche in giro, non hanno il bar aperto h24 con il dj set fino all’alba, non hanno il parcogiochi per chi si porta dietro i bimbi, non hanno il mitologico quiz alcolico-musicale Sarapanda. E, soprattutto, non hanno gli arrosticini. (Ciccio Russo)
(Fotografie di Benedetta Gaiani e Daniele Di Egidio, dalla pagina Facebook dell’evento)
Ciccio sei tuttora senza patente?
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