Roadburn Festival 2019: 11-14 aprile, Tilburg, Olanda
Dieci biglietti staccati in sequenza e una virtuale spilletta da veterani per una manifestazione che ha condizionato buona parte dei miei ascolti dell’ultimo decennio, una vera e propria dedizione alla causa che per molti anni ha garantito un’adesione quasi fideistica e che diviene oggi l’occasione per un po’ di riflessioni di prima mano sullo stato dell’arte del festival olandese. Il Roadburn è sempre fico e continua ancora in maniera unica a mettere insieme la professionalità più totale e quella familiarità tipica dell’essere gestito in prima persona da veri appassionati. Lo spirito underground non è mai stato tradito e gli sponsor, che ad un certo punto premevano per entrare, sono rimasti fuori garantendo la linearità quantomeno spirituale con le sue prime edizioni (e la webzine originaria).
In un aspetto però la continuità è venuta meno e purtroppo, per gente all’antica tipo me e Il Conte Max, è il centro della questione: il suono trattato dal festival è in grandissima parte mutato in altro. Al culto del riff punto e basta si sono sostituite una serie di sonorità disparate che vanno sotto il generico ombrello di “roba pesante” (etichetta che però può essere declinata in un milione di modi) e quelle che erano le varianti a sorpresa sono divenute oggi la portata principale. Parliamoci chiaro, ma se non ci fossero stati gli Sleep, si farebbe quasi fatica a trovare punti di contatto con lo “stoner e doom a tutta birra” della prima edizione alla quale ho assistito (2010 – quella del vulcano, della quale per qualche motivo il report non è mai stato fatto). Un altro dubbio di quelli più impalpabili poi (tirato fuori anche tempo fa) è quello relativo al prendersi sul serio e sempre ripensando all’edizione vulcanica mi viene da chiedermi se un gruppo come gli Witchfynde troverebbe posto nel cartellone di oggi. Io la vedo difficile. Ma questo è solo l’amore per la pippa mentale alla quale in molti non amiamo sottrarci, per il resto sono stati quattro giorni fichissimi intorno a quelle due tre cose (ad esempio i riff degli Sleep) che rendono la vita degna di essere vissuta. Però stavolta rispetto ai trionfalismi di cui avete letto negli anni è sembrata un po’ la vittoria del singolo rispetto al festival nel suo complesso e questo mi fa pensare che forse siamo un po’ giunti alla fine di un ciclo.
GIOVEDÌ
L’arrivo allo 013 ha oramai qualcosa del ritorno a casa e, pur mancando il gusto della scoperta, lo sbarco riesce ad essere sempre eccitante. Un’attesa fremente della prima birra, della prima scapocciata e della prima maglietta nuova. Io personalmente sono in uno stato di percezione aumentata, ho una serie di intuizioni inconsce sull’immediato che mi lasciano pensare di possedere un’intelligenza e una sensibilità superiori (che purtroppo sembra io riesca a sviluppare solo in questo tipo di situazioni). Stiamo vedendo i Crippled Black Phoenix, che forse avevo visto in qualche edizione precedente, ma non sono proprio quello che mi aspettavo: mentre li ascolto mi viene in mente una delle più note parolacce del giornalettista musicale (ebbene sì: pinkfloydiani!) e loro dopo dieci minuti annunciano che per l’ultima mezz’ora suoneranno tale Echoes; inizialmente immagino una semplice omonimia con il noto brano della band della parolaccia, ma invece è proprio quella. E quindi vai di pippe allo specchio e complimenti a me stesso che ne capisco addirittura più di quanto credo. Sono talmente bravo e in palla che ci prendo pure con i Molasses che (l’ho letto, confesso) sono una qualche nuova incarnazione di Devil’s Blood ossia di quella roba di quando il Roadburn era un raduno tutto pentacoli, teschi e candele nere. Tra l’altro The Thousandfold Epicentre è da risentire sempre. Tra i vari giretti alla cazzo di cane io e il Conte Max finiamo in un posto in cui suona (suonano se è un gruppo) tale Petbrick, con una fila assolutamente insensata le cui ragioni capiremo solo più tardi. È un tragico mix di rumoracci che escono da qualche macchinario mentre un batterista pestone (di cui intravedo solo la gigantesca circonferenza del braccio) ci va giù con la mano pesante aggiungendo caos al disordine. Ci provo a farmeli piacere ma non è proprio roba che fa per me. “È il tipo di cacate che piace a Matteo Cortesi”, mi ritrovo a pensare e manco a farlo apposta ancora una volta il pensiero si materializza: il bolognese in versione barbuta insieme al fido Blasf appare nella folla. I saluti reciproci e il piacere dell’ennesima intuizione sono gli unici motivi che mi fanno restare qualche minuto in più nella sala prima che debba arrendermi al fatto che ‘sti Petbrick fanno troppo cacare. La fila fuori continua ad esserci e io vorrei consigliare a tutti di impiegare il proprio tempo in maniera più costruttiva, ad esempio facendo una bella partita al biliardino lì dietro. Dopo un po’ il mistero della lunga coda è svelato: qualcuno mi racconta che il braccione che avevo intravisto apparteneva ad Igor Cavalera, il che spiega la ressa ma non perché lui si sia messo a disposizione per una roba del genere. Si migliora, ma non di molto, con Emma Ruth Rundle che da qualche tempo è presenza fissa in vari festival di metallo e affini ma che in realtà c’entra abbastanza poco e se gli levi di dosso la maglietta di qualche misconosciuto gruppo black metal è solo una cosa tipo indie anni 90. Nel frattempo giungono le prime notizie del disperso Enrico che mi informa che tutti gli spartani del film 300 hanno preso il controllo del palco principale. Mi pare capire che gli sia piaciuto, ma a distanza di giorni a parte le parruccate messe in atto non ho mica capito che roba era. Ve lo racconterà lui nel suo report previsto per il weekend del 2 giugno 2020. A ‘sto punto per me e il conte la scelta è abbastanza netta e si opta per i Midnight perché va bene tutto ma mo’ datece le chitarre. Finalmente parte la caciara e “la gente può soddisfare le proprie voglie represse di pogo” (cito il Conte stesso) con un bel mix di rock and roll grezzone di marca Motorhead barra Venom sparato a tremila. È un sospiro di sollievo, non tutto è perduto. Ma è un saliscendi continuo e con i Mono va di nuovo meno bene, fanno non so che disco dal vivo per intero con l’aggiunta di un quartetto di archi (mi pare) di cui apprezzo particolarmente la bella milfozza con i capelli bianchi (il che sintetizza il mio pensiero sul valore artistico dell’intera operazione). Pensavo a una roba tipo i Boris l’anno prima ma a parte gli occhi a mandorla siamo piuttosto distanti, va detto che il giorno dopo in versione semplice rock band funzionano molto meglio con più spinta sull’elettricità. A parte tutto lo show è abbastanza significativo perché introduce quella che mi sembra essere uno dei temi del 2019: gente che non parla. Dovunque ti giri sono tutti gruppi tra lo strumentale e il post qualcosa e alla lunga questa cosa rompe un po’ il cazzo (e io sono uno che con quel filone sta abbastanza in fissa). Riparliamone domani però che ora si è fatto tardi.
Prima giornata quindi solo benino, e anche le seconda non inizia secondo i migliori auspici, ossia con il solito cazzo di black-metal-stracciapalle tutto scatarrate e poco altro che alle tre di pomeriggio è veramente insostenibile. C’è un mega palo in mezzo al palco e spero che gli diano fuoco, però hanno 20 minuti per farlo che poi io mi voglio vedere i Triptykon con l’orchestra. È quello il vero eventone di richiamo della giornata che però viene piazzato nel primo pomeriggio a causa della complessità dell’allestimento. L’idea è quella di fare un’opera (uso il termine in maniera impropria ma non mi viene in mente di meglio) con cose che Tom Warrior ha scritto con i Celtic Frost e integrarle con una nuova composizione nuova di zecca scritta apposta per questa sede. La visione è magnifica ma il concerto mi prende fino ad un certo punto; lo show ha i suoi momenti e questo è indubbio, ma mi lascia anche un po’ di down, perché alla fine la ricerca eccessiva dell’intellettualizzazione è proprio il contrario della pancia, ossia quello che da pischelli ci ha portato al metallo in primo luogo. È un discorso complesso e dipende dai gruppi, ma per chi capisce la nostra lingua sarà tutto sommato chiaro. La svolta comunque è dietro l’angolo, per l’esattezza dentro la Green Room dove degli ottimi Seven That Spell sono già impegnati nel secondo di ben tre set consecutivi, spettacolo ancora una volta molto spinto sul lato strumentale ma davvero molto fico, e la prossimità fisica data da una sala più piccola crea quell’atmosfera di sentirsi parte di qualcosa che per me alla fine è la caratteristica principale di questo festival. La confidenzialità viene completamente restaurata nel momento in cui il chitarrista si dichiara completamente ubriaco e si scusa per aver fatto il primo set da sobrio ma voleva provare ad essere professionale, ammette che non ha funzionato e si ripromette di arrivare pisto al terzo set. Applausi a scena aperta. È il click che ci si aspettava ed è come se tutto il meccanismo si fosse finalmente messo in moto.
Il livello si alza ancora con Hanna Von Hausswolff (nome da leggere con voce alla Fantozzi) e il suo gruppo che giungono qui sotto invito diretto di Tompa degli At The Gates. Premesso che non ne so nulla, all’inizio la cosa mi sembra un po’ simile a roba svedese alla Fever Ray, pop inquietante un po’ onirico un po’ così e un po’ colà. Già andrebbe bene ma, nello svolgimento, il volume si alzerà e non di poco, e con esso la sensazione sempre crescente di stare assistendo a un qualcosa di epico. È quello che su qualche palco capita ogni anno, il concerto di cui tutti parlano il giorno dopo, quello al quale in molti fingono di aver presenziato per evitare di essere derisi dai parenti. Quello bellissimo. Per me di sicuro il top tra le cose non pronosticate. Subito dopo seguono un cicciosissimo hamburger e i Grails, il momento magico sembra non avere fine. Si alza ancora il voltaggio e gli At The Gates arrivano sul palco con le cannonate. Slaughter Of The Soul subito, tipo al secondo pezzo, ad un certo punto si materializza pure Matt Pike per cantare un pezzo dei Trouble (sì è successo). La famigerata compilation di schiaffazzi del paninaro di Drive-In. Però mi rode un po’ il culo perché con tutti i buchi che c’erano qui è il tipico momento di panico assoluto con la quasi-contemporaneità con Caspar Brotzmann e pure i Messa per i quali saremmo stati bel felici di andare a sventolare la bandiera. I Loop fanno un finalone che la metà basta, li ho visti varie volte (anche qui) ma a sto giro sono più in palla che mai, un distillato di stoogesismo puro ipnotico a strapalla. Chiusura scontata (ma manco troppo) con Burning World, pezzo che dà il nome all’etichetta discografica sorella del festival. Roba che fa bene alla salute. Giorno due spettacolare.
Sabato
Il giorno tre parte con un discreto cannolone alla menta verde e il progetto di onorare in maniera degna il Record Store Day, inutile ricorrenza di cui non mi frega assolutamente nulla ma qualsiasi scusa per sperperare in musica è ben accetto. In stato confusionale ci si avvia vero il Sounds di Tilburg dove prima di entrare indugio un attimo tipo gatto al sole per godermi il breve tepore, una brevissima tregua agli orridi blizzard che tagliano le stradine della città. L’interno è strapieno di tossici che per un giorno si sentono tenuti a vantarsi della loro dipendenza. In realtà per quello che riguarda gli acquisti siamo sovrastimolati già da un paio di giorni quindi non c’è nulla di cui possa sentire il bisogno. Però qualcosa da desiderare c’è sempre; da qualche giorno i social degli High On Fire pubblicizzano un’uscita apposita per la giornata: un singolo in vinile colorato sciccosissimo che si chiama Bat Salad (un titolo, un programma) con annesse un paio di cover inedite di lusso (Celtic Frost & Bad Brains). Corro nella sezione apposita dove attendo pazientemente il mio turno per lo spulciamento. Il tipo accanto a me nota le mie toppe sul giacchetto e si sente autorizzato a intavolare una conversazione sui Motorhead. È uno dei miei argomenti di discussione preferiti, quindi non mi sottraggo di certo. Il tipo parte con una domanda facile, tipo li hai mai visti dal vivo ecc. Credo in un interesse sincero e in una discussione che alla fine potrà solo culminare con corna al cielo e invocazioni allo spirito di Lemmy ma in realtà bastano pochissimi passaggi per rendermi conto che il tipo è un cazzone assurdo. Parte dicendo che quando li ha visti “ad un qualche festival in Nuova Zelanda (così ho capito ma ero un po’ in alterazione) il batterista ha lanciato la bacchetta in alto facendola roteare e poi ha continuato a suonare” e che lui “ha cercato su tutti i video di youtube questa cosa ma non l’ha mai ritrovata”.

In buona compagnia
È completamente ossessionato da questa puttanata che me la rispiega di nuovo e poi mi chiede se anche io l’abbia vista mai. Gli dico che boh sì, può anche essere, è probabile, ma non ricordo questa cosa di preciso. Quello che in realtà vorrei dirgli è che mi pare una discussione ridicola e provo imbarazzo per lui. Sto tipo vorrebbe fare amicizia e parlare dei Motorhead come si parla del tempo ma per me questa cosa non è proprio possibile. Perché i Motorhead sono una delle cose più importanti della mia vita e non ne posso parlare con la stessa superficialità con la quali si affrontano i discorsi con la gente che incontri in treno. Gli vorrei dire che macchecazzo con tutta la roba che questo gruppo ha fatto stiamo a parlare di una bacchetta lanciata in aria? E il volume? E il rock’n’roll? E Orgasmatron? Ma per favore. Incredibile ma vero, vengo salvato dalla campanella che nello specifico assume le sembianze di mio figlio: il giovanotto oramai quasi pre-adolescente a casa a stento mi saluta ma ha ben pensato di telefonarmi in internazionale per avere il permesso di comprare un nuovo gioco per la Nintendo Switch con la mia carta di credito. La gratitudine per avermi tolto d’impaccio è infinita, quindi do il via libera a qualsiasi acquisto, spero di ottenere due chiacchiere di cortesia come contropartita ma niente da fare, magari qualche informazione su quello che sta facendo, se ha visto il suo amichetto, se si diverte, se ha mangiato, mi abbasso anche a chiedere come si chiama sto videogioco ma zero assoluto.

camera con vista
Alla fine mi arrendo. Solo pagare, va bene così, è il destino dei genitori. Quindi ok per il gioco e ci vediamo tra un paio di giorni. La ganja è salita e mi confonde, il negozio è grande, non so manco bene dove guardare, acchiappo due cose a caso tanto per consumare il rituale e poi fuori. Il programma della giornata è quantomeno interlocutorio, in buona sostanza una lunga sequenza di roba inutile in attesa degli Sleep. L’inizio in realtà non è male, tali Wolvennest sul palco grande mi prendono parecchio anche a causa del volume spropositato e dell’abbondante quantitativo di THC in circolo. Ci sta Shazzula con il suo tipico capello da vulcaniano e altra gente vestita in modo anomalo tra cui un chitarrista con le sembianze di un mash-up del wrestling old school: tipo Sergeant Slaughter con il cappotto dell’Undertaker. E poi hanno il ciarpame sul palco come ogni gruppo serio dovrebbe: un bel tavolino con candelabri esoterici vari, un teschio fumante e la coda del cappello di Davy Crockett, tutta roba che una volta era il pane quotidiano di questo festival e di cui io sento molto la mancanza. Tra un pezzo e l’altro chiedo al Conte che ne pensa e mi risponde facendo la musichetta della Famiglia Addams, probabilmente la più minuziosa descrizione possibile del gruppo. Poi vedo un pezzetto dei Gore che suonano nel disinteresse generale, mi riprometto di non vedere i Sumac perché mi fanno cacare e ripiego sugli Exorcist qualcosa ma non ricordo davvero nulla. Ad un certo punto mentre stiamo fuori attacca a nevicare (Snowblind?), cinque minuti di sconvolgente tempesta per aggiungere quel senso di confusione alla giornata caratterizzata da stati di confusione interiore. Poi finalmente giunge il momento tanto atteso: circa una ventina di minuti prima dell’inizio cominciano a partire le trasmissioni radio dell’allunaggio, alle nove meno dieci il bassista astronauta appare sullo schermo e infine da dietro agli ampli spuntano i tre. Cisneros/Pike/Roader prendono il comando dell’astronave e si parte con Dragonaut e tutto Holy Mountain in sequenza da cima a fondo, incluso pure l’intermezzo acustico Some Grass (vedere Matt Pike imbracciare la chitarra acustica, chi l’avrebbe mai detto? E invece pure questo è successo). Gli Sleep sono roba dell’altro mondo e vederli qui è il massimo perché sono forse il gruppo più intrinsecamente rappresentativo di quello che questo festival era e dovrebbe essere. L’amalgama è perfetto, da una parte il monaco mistico, dall’altra il guerriero dell’elettricità e in mezzo questo elemento apollineo di forza, bellezza ed eleganza, veramente non si sa dove guardare. Finisce Holy Mountain, il tecnico delle proiezioni fa un po’ di casini mettendo e levando la copertina di Dopesmoker. Un gigantesco spoilerone per i presenti, ma la delusione è presto annientata dalla prima nota. Io mi lascio andare al sogno perverso che lo suoneranno per interno ma invece si limitano (solo?) ai primi venticinque minuti, dopo di che parte The Clarity e ciao a tutti per chiudere una sequenza che copre in maniera cronologica una ventina di anni consecutivi. Solo all’ultimo Al Cisneros, che non ha interagito con il pubblico per tutto il concerto, ringrazia e dà l’appuntamento al giorno successivo. Forse dopo suonava qualcun altro, ma non ha veramente alcuna importanza. È chiaro che si può benissimo finire qui per oggi.
Domenica
Il giorno numero quattro in teoria dovrebbe essere concettualmente un po’ la stessa cosa del precedente, una lunga attesa prima dell’atto finale, ma in realtà rispetto agli anni precedenti non ha quel retrogusto amaro. Anzi forse di quelli che ho fatto è il migliore, e per una volta permette di concludere senza quel generico down dato da spossatezza e senso di chiusura. Tutto questo nonostante un Pavoletti lasciato in panca con annessi bonus tre punti buttati. Come al solito non conosco pressoché nulla di quanto viene proposto, mi butto prima su tali Have A Nice Life che Enrico mi aveva consigliato il giorno precedente ma che non mi dicono granché e mi ritrovo a vedere un gruppo di psichedelia morbida non particolarmente originale ma che almeno è nelle mie corde. Poi dato che non abbiamo visto praticamente nulla al Patronato (ultimo anno per questa sala, è già stato annunciato) si decide di dargli un saluto con la prima roba che capita, purtroppo è ultranoise inascoltabile e nonostante le circostanze tragiche riguardanti la sorte di uno dei componenti dopo un po’ tocca scappare. L’alternativa nel caso specifico si chiama Daughters ed è quel tipo di hardcore esasperatissimo che a me personalmente da un po’ l’ansia. La classica “robba che piace a Enrico” il quale infatti con un messaggino mi intima di andare. Una punta veloce allo skate park e poi tutto Main Stage con i Thou (diversi da quello che mi aspettavo ma non mi dispiacciono) e poi con gli Old Man Gloom che alzano notevolmente il livello con un concerto davvero fico.

Ciao mamma, mi è apparso Tony Iommi su un toast.
Il tempo di un boccone e ci siamo nuovamente: secondo set degli Sleep, concerto che oggi dovrebbe essere centrato su The Sciences. Il disco è uscito lo scorso anno ed è stato al centro di un qualche dibattito interno fra noi redattori con me schierato sul versante più no che sì. Un’opinione che è al momento è in netta mutazione proprio a causa della prestazione clamorosa che mi ci ha fatto tornare con orecchio diverso. Comunicazioni interplanetarie, rumoretti, Leagues Beneath e poi inizia Marijuanaut’s Theme che è tipo uno dei momenti più intensi di sempre; una quantità di elettricità tale che Pike fa addirittura saltare una testata. Per quanto possa sembrare improprio dico che il secondo set è a tratti meglio del primo, quello di ieri era uno sguardo al passato mentre questi sono gli Sleep del 2019. Siamo in una posizione migliore e i suoni sono più uniformi a allucinanti. È sublime essere sopraffatti da un’onda sonora di queste proporzioni. È tipo soccombere al suono, diventa un’esperienza di tipo immersivo totale, è un po’ complesso da spiegare senza sembrare dei coglionazzi sballati invasati di ritualità ma alla fine siamo un po’ da quelle parti lì. La proiezione dei Black Sabbath per colazione come dichiarazione di intenti (ne voglio appesa in casa una gigantografia) e nella seconda parte del set vengono riproposti un paio di pezzi Holy Mountain (unica ripetizione rispetto al concerto del giorno prima) e poi il gran finale con la sezione di Dopemoker corrispondente più o meno alla terza facciata e altrimenti nota come Cultivator/Improved Morris. La testa è partita e le considerazioni sono molteplici, tipo: ma quanto mena Jason Roeder? Che fine rischi di fare se ci litighi per una precedenza all’incrocio? Il Conte dal canto suo si perde in un complessissimo calcolo sulla quantità delle luci presenti sul palco (N file per N serie, se ognuna è composta da N faretti, il quale a sua volta può essere suddiviso in…). Appena si spengono gli ampli tutti hanno la sensazione di riemergere da qualche parte, ma nessuno sa dire di preciso dove è stato. E allora ti ritrovi a pensare che nonostante tutto forse per l’anno prossimo ci si può ancora fare un pensierino. (Stefano Greco)
Ho fatto la stessa riflessione iniziale, al mio ormai quinto Roadburn. Non so quanto dipenda dal curatore di turno ma vorrei anch’io un ritorno al riff come centro gravitazionale, per poi allargarsi ad altre eccezioni. Resta comunque intatto il piacere di scoprire roba nuova e dei momenti epici/irripetibili che si possono sperimentare solo là.
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Che report, chapeau.
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Terza edizione per me. La mia prima, in mezzo a tutta la roba sperimentale, aveva Repulsion, Skepticism, With the Dead, Pentagram, Abysmal Grief!!, The Skull, Paradise Lost, il tipo degli Anacrusis e quant’altro…la mancanza di cinghialate (tolti i Midnight, veramente un’ancora di salvezza) quest’anno si è sentita, e dire che con Tompa curatore mi aspettavo qualche chicca tipo, cazzo ne so, i God Macabre – con Stalhammar in giro, perchè no cazzo?
Eppure il festival è stato magnifico, con la Von Hausswolff assolutamente fuori paragone. E’ l’unico posto da cui cui porti a casa principalmente gruppi che non conoscevi (quest’anno Wolvennest, Birds in Row, Throane) e pezzi mai sentito primi (Thou/Emma, Molasses, Tryptikon), ancor più dei preferiti che aspettavi di vedere.
Spero solo che l’anno prossimo ficchino almeno una manciata di gruppi Doom e una roba da pogare al giorno – stare fermi tutto il dì spezza la schiena, l’unico momento senza dolori è stata la bolgia dei Midnight.
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Terza volta per me. La mia prima, in mezzo a tutta la roba sperimentale, aveva Repulsion, Skepticism, With the Dead, Pentagram, Abysmal Grief!!, The Skull, Paradise Lost, il tipo degli Anacrusis e quant’altro…la mancanza di cinghialate (tolti i Midnight, veramente un’ancora di salvezza) quest’anno si è sentita, e dire che con Tompa curatore mi aspettavo qualche chicca tipo, cazzo ne so, i God Macabre – con Stalhammar in giro, perchè no cazzo?
Eppure il festival è stato magnifico, con la Von Hausswolff assolutamente fuori paragone. E’ l’unico posto da cui cui porti a casa principalmente gruppi che non conoscevi (quest’anno Wolvennest, Birds in Row, Throane) e pezzi mai sentito primi (Thou/Emma, Molasses, Tryptikon), ancor più dei preferiti che aspettavi di vedere.
Spero solo che l’anno prossimo ficchino almeno una manciata di gruppi Doom e una roba da pogare al giorno – stare fermi tutto il dì spezza la schiena, l’unico momento senza dolori è stata la bolgia dei Midnight.
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