Caproni e tripponi: TUBE CULT FEST 2019

VENERDÌ

Partiamo da Milano a mezzogiorno, più o meno, tanto ci vogliono sei ore circa per Pescara e il festival comincerà alle nove, quindi siamo belli comodi. E invece veniamo ovviamente bloccati dal traffico infernale nel tratto Milano-Rimini arrivando in ritardo mostruoso, dopo quasi 10 ore di viaggio: ho riletto il report dello scorso anno e mi sono ricordato che anche in quell’occasione eravamo arrivati tardi per lo stesso motivo, quindi nessuna giustificazione: siamo stupidi noi. Comunque questo è il quinto anno di fila che faccio il report del Tube Cult Fest, quindi un rapidissimo riepilogo per chi non sa di cosa stiamo parlando: trattasi di una specie di Roadburn in minuscolo, organizzato da Davide Straccione degli Shores of Null, che si svolge in due localini adiacenti del centro storico di Pescara: lo Scumm, più grande, e il Mamiwata, praticamente un pub la cui capienza massima è di poche decine di persone. Atmosfera intima della serie pochi ma buoni, birra, doom e carne di pecora arrosto.

Arriviamo allo Scumm giusto per le note finali degli IMPURE WILHELMINA, che avremmo tanto voluto vedere; e invece. Una nota dolente di quest’edizione è che non ci sono quei piccoli depliant in cui ogni gruppo veniva descritto con una breve quanto improbabile biografia, però fortunatamente stavolta ho ascoltato i gruppi in preparazione del festival e mi sono appuntato qualche parola chiave per ognuno di loro, quindi sappiamo cosa aspettarci anche di fronte a gente mai sentita prima. Ad esempio ora suonano gli OREYEON, che continuo a chiamare Oreo e che sul bloc notes avevo laconicamente descritto così: “La Spezia. Heavypsych. Kyuss. Tripponi. Troppo casino”, laddove Heavypsych sta per l’etichetta su cui escono e tripponi non si riferisce alla loro massa adiposa ma alla propensione ai trip psichedelici, parafrasando il famoso motto di Stefano Greco secondo cui questo genere di gruppi si divide in caproni e tripponi, più o meno la linea di demarcazione che divide, che so, gli Electric Wizard dai Kyuss. Insomma, avevo scritto che facevano troppo casino, invece ci pigliano: hanno delle melodie vocali molto anni Novanta, non proprio Kyuss, diciamo Kyuss + Alice in Chains; poi che facciano casino è verissimo, del resto il chitarrista pelato ha una Gibson SG che fa casino per definizione; il chitarrista coi baffi invece ha una splendida maglietta col caprone del primo dei Bathory ma invece di Bathory c’è la scritta Belzebong. In sostanza i quattro liguri spaccano il culo a tutte le pecore dei colli che contornano la città e il Tube Cult è la situazione migliore per vederli: a conferma di tutto ciò arriva anche JU CINGHIALOTTU che si piazza lì a gambe larghe col suo sguardo porcino, un grande ritorno dopo l’assenza dell’anno scorso, probabilmente passata a sbranare quintali di arrosticini dato che sembra essere stato messo all’ingrasso. I volumi comunque sono veramente esagerati e guardando la faccia disturbata di Carlotta le mie parole di prima sul troppo casino trovano un senso. Nel frattempo gli Oreyeon rimestano nel torbido, tanto che a un certo punto mi sono sentito in mezzo alle paludi della Louisiana, e invece ero nel Mamiwata col cinghialotto che scapocciava come un dannato. Comunque il Tube Cult è veramente il festival più fico del mondo dopo il Roadburn e quelli in cui suonano i Manowar; non cito la crociera neofolk nel Baltico perché non ci sono mai stato, ma spero di poter provvedere al più presto a questa mancanza.

Ci spostiamo nello Scumm per gli ENTROPIA, che avevo descritto così: “Polacchi. Psichedelia. Mezzi black, mezzi etnici. Effettistica”. Loro sono esteticamente improbabili e sembrano dei tipi scelti a tavolino come le Spice Girls, con quella peperina, quella sportiva, quella elegante eccetera. Il chitarrista ha un ciuffo emo e un aspetto da comprimario di Dawson’s Creek; il tastierista con la maglietta nera e la sfumatura alta sembra uno dei Triarii; l’altro chitarrista sembra un Edward Norton in miniatura che ondeggia voluttuosamente ammiccando alle ragazze in sala; il batterista ha una maglia nera a maniche lunghe che a guardarlo sudavo pure io; e infine il bassista, che sembra Karl Logan. La loro musica è analoga all’impatto visivo: un susseguirsi di cose strane, che non si capisce mai se siano state messe perché ci stavano bene oppure perché sono strane, appunto: viaggioni psichedelici, blastbeat, arpeggini, urla nello spazio, campionamenti da fattoni, rallentamenti, sbronze prese a male, WOOOOSH, doppio pedale, droghe sintetiche, astio verso sé stessi e l’altrui. Mutatis mutandis mi hanno ricordato gli Antimateria, non so se avete presente. Dapprincipio mi paiono troppo fighetti, suonano troppo bene per il contesto del Tube Cult, una specie di Dream Theater della droga, e continuo a pensare agli Oreyeon/Oreo e a come fare per vedere gli Impure Whilelmina da qualche parte nel Canton Ticino. Poi mi fisso sulle movenze sinuose del mini-Norton che è veramente ipnotico, perché su quella musica completamente fuori di testa lui sta tutto il tempo ad ancheggiare tipo Antonio Banderas in qualche film di mariachi. Dopo un po’ però riesco a sintonizzarmi sulla loro lunghezza d’onda, e alla fine mi prendono bene anche loro. Anzi, dopo averli riascoltati dopo su disco con più calma penso siano stati loro la vera scoperta del Tube Cult di quest’anno.

Quando finiscono usciamo fuori a fumare e rimaniamo un po’ fuori mentre nel Mamiwata attaccano i THE MARIGOLD, che a causa dei volumi si sentono abbastanza bene pure da fuori. Io e Carlotta rimaniamo impelagati in una discussione su cosa effettivamente sia sta cazzo di entropia, discussione che però non porta a molto dato che rimaniamo d’accordo che avremmo studiato più approfonditamente la questione una volta tornati a casa (spoiler: non l’abbiamo fatto). Dopo un po’ entriamo e i volumi sono mostruosi. Questo pensiero mi rimane in testa per un po’ di tempo finché poi inizio a chiedermi che cazzo stanno facendo questi. Il problema è il continuo ondeggiamento di ambientazioni: con gli Oreyeon mi sembrava di essere in una palude, poi siamo passati allo spazio profondo e ora con questi veniamo trasportati in pieno deserto. I Marigold poi sono particolarmente ipnotici e con quel volume ti rimbomba tutto nel cervello. Il chitarrista assomiglia un pochino a Ciccio Russo e la cosa aggiunge un tocco di surrealtà al tutto.

I WAYFARER esteticamente sembrano un gruppo hair metal però attento ai diritti delle minoranze oppresse. Loro sono il classico gruppo cascadico fighetto e mezzo hipster, e vederli dal vivo ti fa capire quanto questa definizione sia tristemente calzante, ma a me questa roba è sempre piaciuta e continua a piacere, mannaggia. Li avevo recensiti qui esprimendo la mia continua confusione tra loro e i Windfaerer, che oltre ad avere il nome simile suonano più o meno la stessa roba e condividono la provenienza statunitense; peraltro preferivo questi ultimi, e quando è uscita la notizia che uno dei due gruppi avrebbe suonato al Tube Cult sono andato a controllare sperando che fossero i Windfaerer, e invece no. Però mi sono ricreduto: sarà stata la stanchezza devastante delle 10 ore di viaggio, sarà stata la birra che sulla condizione appena descritta provoca effetti psichedelici, sarà stata la mia poco eterosessuale fascinazione per il black cascadico, ma alla fine il loro evocativo ed inintelligibile casino mi prende benissimo.

Mentre mi lascio investire dall’ondata di astio che mi vomitano addosso i Wayfarer penso che i Windfaerer mi erano piaciuti di più perché maggiormente lineari e melodici, con quel violino e quella produzione più pulita; è normale che mi abbiano preso di più questi ultimi quindi, dato che ormai non si hanno più il tempo e il modo di ascoltare musica approfonditamente come si faceva una volta, quando se mi avessero detto che sarei finito ad ascoltare musica solo in macchina o dalle casse del computer mentre facevo altro mi sarei sputato in faccia da solo. Ma questo è, e peraltro la mia macchina nuova non ha neanche più il lettore cd, quindi ho smesso di comprare cd. Amici e fratelli del vero metal, ho smesso di comprare cd e il senso di colpa che mi consuma fa sì che per compensazione abbia iniziato a comprare magliette, col risultato che la mia collezione di magliette rivaleggia quasi con la sezione scarpe del guardaroba di Carlotta, che sembra sempre strapieno anche quando quest’ultima, presa da un impeto compulsivo, ne butta via una cinquantina di paia, rivelando probabilmente un doppio fondo che seguendo un sistema geometrico non-euclideo porta direttamente all’inferno delle scarpe, in cui immondi umpalumpa sono condannati a passare l’eternità a fabbricare calzature femminili sotto la frusta di un sadico demone folle dalle fattezze di quella tizia giapponese che dallo schermo televisivo intima alle donne di buttare via tutto ciò che hanno, perché così vuole il Kali Yuga. E mentre penso a tutto questo, i Wayfarer finiscono ed è tempo di tornare.

 

SABATO

Il sabato lo passiamo insieme ad alcuni autoctoni che attraverso sterrati e boschi incantati ci portano là dove osano gli orsi marsicani. Giunti in un’ampia radura lascio scorazzare libero il piccolo Cooper e lui fa metodicamente la pipì su tutte le cacche di mucche, cinghiali, orsi, lupi e troll disseminate in giro, coprendo il loro odore col suo e diventando così il RE DELL’ABRUZZO. Ad un certo punto finiamo in un caseificio sperduto in mezzo a colline e dissesto idrogeologico, accolti da uno dei cani più grossi che abbia mai visto, un enorme pastore abruzzese probabilmente allevato con una dieta a base di teste di pecora e bambini morti, che viene da me e prende a leccarmi i pantaloni intrisi dell’odore del mio cane, il re dell’Abruzzo di cui si diceva prima. Sudo un pochino freddo. “No ma è tranquillo“, mi dicono, “è cucciolo“. Si vede lontano un miglio che non è cucciolo e inoltre già adesso pesa ottanta chili, ma magari in Abruzzo i cani a un certo punto subiscono una mutazione che li trasforma in abominevoli cinghiali delle nevi che nelle notti di luna piena divorano i primogeniti maschi. Prima della mutazione sono quindi considerati “cuccioli”. Il formaggio del caseificio comunque era buono, se a qualcuno interessa posso fornire numero di telefono.

Abbiamo mangiato talmente tanto a pranzo che arriviamo al concerto con lo stomaco pienissimo, in uno stato confusionale di simil-ubriachezza senza aver praticamente toccato alcol. Il primo gruppo di oggi sono i KATASTAH, che nei miei appunti avevo descritto con le testuali parole very good for digestione arrosticini, il che al momento sembra una manna dal cielo. Effettivamente i tre scoppiati ascolani fanno una musica talmente sovraccarica e pesante da aiutare la digestione, con lo stesso misterioso criterio secondo cui più l’amaro dopo cena sa di medicina scaduta più ti aiuta a smaltire i chili di roba che ti sei mangiato prima.

A questo punto devo mettervi a parte di una cosa che mi è accaduta adesso, e per adesso non intendo al momento del Tube Cult ma al momento della recensione, che come potrete notare sta uscendo a più di due settimane di distanza dal festival: ho perso il mio bloc notes degli appunti. O meglio: non l’ho perso, so esattamente dove sia, cioè a mille chilometri esatti da qui, laddove non può essere recuperato: la prima parte del report l’avevo già scritta qualche giorno fa, adesso mi accingo a scrivere la seconda parte e devo fare affidamento solo sui miei ricordi, quindi buona fortuna.

Ricordo che mi sono piaciuti tantissimo i TUNA DE TIERRA, il cui nome vuol dire peyote in gergo messicano. Sono napoletani e come influenza principale hanno i Kyuss più psichedelici di Blues for the Red Sun e cose così. Dal vivo confermano le buone impressioni, nonostante il volume assordante del Mamiwata che non accenna a diminuire neanche dopo i morti e feriti lasciati sul campo di battaglia il giorno prima. Volevo prendere una loro maglietta ma alla fine non l’ho presa più, non ricordo perché. Comunque grandissimi, davvero, quindi FORZA TUNA DE TIERRA, FORZA IL TUBE CULT e FORZA NAPOLI

Giunge quindi il momento dei GORILLA PULP da Viterbo, che ascoltati su Spotify mi avevano lasciato indifferente e infastidito. Invece col cazzo, amici: dal vivo spaccano parecchio e hanno pure quella sicumera stradaiola che per qualche motivo funziona pure in questo contesto, tra un arrosticino di pecora e una invocazione ai demoni fattoni del deserto del Nevada che hanno creato lo stoner rock (and they saw that it was dope). A un certo punto il cantante introduce pure una canzone con sguardo lascivo dicendo “questa è dedicata a tutte le donne” facendo partire un bluesettone strappamutande intrinsecamente più retrivo e reazionario di tutti quei gruppi black metal che i disagiati americano-bolognesi vomitati fuori da questa epoca di declino e disonore invitano a boicottare dai commenti di Metalsucks. Va a finire che mi compro la loro maglietta con su scritto TUFO ROCK POWA – ed ecco che mi sono appena ricordato perché non avevo preso quella dei Tuna de Tierra.

Guardiamo i Gorilla Pulp fino alla fine e gli chiediamo pure il bis, ma poi è il tempo di tornare al Mamiwata, nonostante le ritrosie di Carlotta che ha paura che se in quel cazzo di locale non abbassano il volume a lei possano esplodere le orecchie, al che io gli dico quantomeno di urlare Allah akbar prima, così almeno facciamo ridere la gente. In quel cazzo di locale dovrebbe suonare SARRAM, che – ricordo – avevo appuntato sul mio bloc notes semplicemente come drone. Carlotta mi chiede cos’è il drone e io cerco di spiegarglielo usando termini come casino, rumore e conati di vomito, e dalla sua espressione capisco di non essere stato troppo allettante. Rientriamo nel suddetto locale e ci troviamo questo tizio seduto su una sedia con una chitarra in mano, piegato su pedali, pulsanti e vari ordigni sparsi per terra, al centro di un cerchio di decine di candele, mentre gli amplificatori a mezzo metro da noi sparano a volume agghiacciante un suono che non riuscirei a definire senza usare i termini casino, rumore e conati di vomito. Sarà stato il 2001 o forse il 2002 quando Matteo Cortesi mi passò alcuni dischi di robe per me allucinanti e all’epoca mai sentite prima se non dalla bocca dello stesso Cortesi, come Sunn 0))), Merzbow, Gerogerigegege e varie altre amenità. I Sunn 0))) poi sono diventati famosi, per qualche motivo a me incomprensibile, ma mi viene in mente pure un’altra conversazione avuta pochi anni dopo col Messicano, secondo il quale non era possibile che a qualcuno potesse piacere davvero roba del genere e chi si comprava ‘sti dischi lo faceva per fare il figo eccetera. Io non lo so, non so nulla, massima stima al commendator Sarram la cui provenienza sardagnola me lo rende simpatico, ma, dei pochissimi minuti che abbiamo resistito là dentro mentre questo ci sfondava i timpani girando manopole, la cosa che ricordo vividamente è Carlotta che si gira, mi lancia uno sguardo difficilmente dimenticabile e mi dice allora questo è il drone, che secondo il vocabolario Italiano-Femmine/Femmine-Italiano vuol dire più o meno “usciamo di qui adesso altrimenti ti lascio e mi prendo anche il cane”. Messo quindi di fronte al bivio tra il signor Sarram e il re dell’Abruzzo, faccio cenno a Carlotta di muoversi verso l’uscita, a riveder le stelle.

A me i COLTSBLOOD non sono mai piaciuti e mi hanno annoiato pure al Tube Cult. Dopo 5 minuti di growl e cambi di tempo ingiustificabili mi allontano per prendere una birra al Mamiwata, il che mi dà l’occasione di vedere forse la scena madre dell’intero festival, e cioè l’esimio Sarram che con una scopa in mano ripulisce il locale dalla miriade di candele ormai spente. L’associazione tra la Sardegna e la scopa, ovviamente, mi riporta alla mente uno dei momenti più alti della televisione italiana:

Poi ci sono gli SHERPA, da Pescara, della cui esibizione non ricordo nulla. Non è un’iperbole: non ricordo nulla. Non ricordo le loro facce, non ricordo la loro musica, non ricordo quanti fossero, niente. Mi dispiace ragazzi, ma quando riprenderò in mano il bloc notes perduto magari proverò a rielaborare quanto mi ero appuntato durante l’esibizione.

Non ho bisogno invece di alcun appunto per ricordarmi del concerto dei canadesi ZAUM, headliner del secondo giorno. Entriamo un po’ prima nel locale perché fuori fa freddo, e ci troviamo in pieno soundcheck. L’impatto visivo è devastante, e per descrivervi la cosa partirò dall’inizio. La prima cosa che noto è un tizio nel pubblico, probabilmente un loro roadie, alto, muscolosissimo e pompato come un lottatore di wrestling dell’era gimmick, che si aggira sotto al palco interagendo con il fonico e con Straccione, che se si fondessero non farebbero la metà del suddetto tizio. Sul palco invece ci sono tre persone, alla cui vista Carlotta si gira verso di me per dirmi “questo gruppo ci darà parecchie soddisfazioni”:
1-il cantante/bassista, semplicemente la persona più enorme che abbia mai visto, una specie di incrocio tra Adinolfi e il proprietario del negozio di fumetti nei Simpson. Questo tizio ha preso a battibeccare per parecchio tempo col fonico, reo di non aver capito cosa lui volesse fare coi riverberi, parlando a macchinetta in inglese nel microfono che però aveva già il riverbero. Quindi pensate a ‘sto povero cristiano che cercava di accontentarlo tentando disperatamente di seguire il filo del suo intricatissimo discorso in inglese su frequenze, onde sonore etc, il tutto – ripeto – fatto in un microfono già riverberato e quindi incomprensibile anche se quello avesse gridato semplicemente, che so, “forza Inter” oppure Cinghialotto o muerte!. Indimenticabile l’espressione infastidita del tizio quando il fonico gli chiede “ok, e ora per le chitarre?” e lui risponde sprezzante “no guitars”.
2-il batterista, una specie di sosia di Speed Strid in piena esplosione ormonale, un energumeno non così esagerato come il campione intercontinentale WWE tra il pubblico ma comunque bastante a uccidere un paio di astanti con la sola mano destra nel giro di una trentina di secondi. Pelato, incazzosissimo, con la faccia di uno che sta andando al concerto dei Dente di Lupo solo perché sulla locandina c’era scritto “seguirà raid punitivo al centro Baobab – bring your own spranga”, sulle prime il nostro stimatissimo eroe ha l’aria di volersi alzare e far saltare l’intero concerto a causa di problemi tecnici con la sua batteria. Io guardo il fonico e leggo la disperazione che gli angoscia il volto.
3-una danzatrice del ventre. Esatto, amici del vero metal: una danzatrice del ventre. Non avrebbe suonato alcuno strumento, è qui solo per dare un, uhm, surplus visuale all’esibizione.

Quindi praticamente gli Zaum si compongono di due musicisti, oltre alla ballerina. Da parte del pingue bassista è la mossa pubblicitaria definitiva: con una danzatrice del ventre la gente verrà a vederti, i locali quindi ti chiameranno per suonare, e le testate si interesseranno a te. Inoltre, se qualcuno ti dovesse prendere in giro per la stazza, ci sono il roadie e il batterista a difenderti sparando HADUKEN tra la folla. Il sistema è simile a quello delle stable di wrestling: le stable sono quei gruppi di lottatori che si uniscono, tipo la D-Generation X, l’NWO o, che so, l’Evolution; e spesso hanno anche una donna con loro, sempre per lo stesso ragionamento di cui sopra. Una manovra pubblicitaria azzeccatissima, ripeto, anche perché sono qui da mezz’ora a scrivere degli Zaum che non mi sono neanche piaciuti più di tanto. In mezzo a tutto il casino riverberato mi distraggo controllando le date dei Gorilla Pulp, sia mai che vengano a suonare a Milano. Nel frattempo la danzatrice si cambia d’abito, si nasconde dietro un separè, maneggia una sfera luminosa, eccetera. Niente, non mi prendono: mi sembrano troppo quadrati, troppo studiati e troppo lucidi, nel senso letterale del termine. Quindi finisce qui la mia quinta volta al Tube Cult, questa volta con meno arrosticini del solito ma sempre con la ferma convinzione di tornarci l’anno prossimo. Peste e corna a chi non viene, gloria eterna a chi viene, HAIL a Davide Straccione che continua a tenere botta e HAIL al RE DELL’ABRUZZO. (barg)

 

4 commenti

  • A quando una intervista esclusiva con Ju Chianghialottu? A parte gli scherzi, mi sono segnato gli Oreo o Oreyeon, e i Seven That Spells del Roadburn come cose da ascoltare, con i La Janara capolista. Ovviamente tempo permettendo…

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  • sergente kabukiman

    Onestamente io e miei compagni di scorribande abbiamo rinunciato per il semplice fatto che non ci stavano grossi nomi di richiamo, che per carità, il tubecult gruppi brutti non ne chiama manco sotto minaccia, ma diciamo che ci mancava l’ufomammut o il weedeater che ti da un senso alla macchinata di 5 ore..pazienza, ci si vede al frantic.

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  • doveva in qualche modo essere destino, che, appena (oddio, appena, ormai è un pò) comincio a trascorrere gran parte dell’anno all’estero, partono i festival belli e sudati a due metri da casa, ma vabbè…quest’anno tra l’altro il frantic sarà una bomba, chiedo umilmente una scapocciata di solidarietà per il sottoscritto a chi presenzierà

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