Avere vent’anni: maggio 2005
SYSTEM OF A DOWN – Mezmerize
Stefano Greco: Su Mezmerize penso di averci pure avuto una discussione semianimata con qualcuno in non so che occasione. Perché questo tizio insisteva che era non so che cacata inenarrabile, che si erano venduti e non so che altro. Ovviamente noi che bazzichiamo il genere siamo abituati a qualsiasi sorta di questi intransigenti massimalisti integralisti custodi dei valori; quindi va bene tutto, però qui mi pare si esageri. Dovendo fare una lista è forse dietro ai primi due (neanche troppo eh), ma il livello è comunque ancora altissimo, con il pregio inedito di essere meno prolissi e di conseguenza nessuna canzone davvero sacrificabile (forse solo la 9, tiè). Insomma, i System of a Down sono sempre quelli: un sacco di idee e una capacità impensabile nell’unire frenesie e melodie. Unica differenza sensibile con quanto fatto prima è che il dualismo tra Tankian e Malakian si fa più ancora accentuato, con il chitarrista che pretende per sé sempre più parti vocali (superbo in chiusura con Lost In Hollywood). E, sebbene dovere ridimensionare uno come Tankian possa sembrare una cosa da pazzi, avere più voci in alternanza funziona eccome, tanto più se hai fatto della schizofrenia il tuo tratto stilistico principale. C’è poco da dire in realtà: Mezmerize fa tre su tre, non è roba da tutti.
DEAD CONGREGATION – Purifying Consecrated Ground
Luca Venturini: Nell’affollato, sebbene arido di idee, panorama death metal del 2005 comparve questa band greca che suonava un death novantiano, sulla falsariga di Incantation e Immolation, oscuro, cattivo e gagliardo. Nati dallo scioglimento dei Nuclear Winter, che erano stati in giro dal 1995 al 2003, i Dead Congregation pubblicarono l’EP Purifying Consecrated Ground mettendo subito in chiaro di avere personalità da vendere e idee chiare, pur non inventando assolutamente niente. Riffoni, blast beat, growl profondissimo, produzione in stile “caverna” e, quello che più conta, belle canzoni. Questo EP ha tutto. Tra i numerosi figliocci delle due band americane, i Dead Congregation dimostrarono con la loro produzione di essere quelli che avevano capito meglio cosa bisognasse fare. Con i due successivi full, entrambi capolavori, si guadagnarono negli anni a venire talmente tanto credito tra i fan del death da essere considerati oggi al pari dei nomi tutelari del genere. È da dieci anni che non pubblicano niente, ma quello che ci hanno lasciato ha talmente tanto valore da non stancare mai.
ANDRAS – … Of Old Wisdom
Griffar: Cinque anni dopo l’eccellente Quest for Deliverance tornano con il quarto album i tedeschi Andras, e di nuovo la loro musica colpisce in pieno il bersaglio. Eccellente pagan/viking black sinfonico, con più di una sfumatura death metal, una propensione a scrivere melodie maestose ulteriormente arricchite da arrangiamenti di tastiera precisi ed efficacissimi, una voce versatile che spazia dall’evocativo in stile Vintersorg al growling pieno e cavernoso fino al più canonico screaming black, e un riffing trascinante grazie al quale è impossibile stare fermi, adattissimo a sottolineare storie di eroismo, valoroso coraggio e prodi guerrieri. Partiture quasi mai veloci donano al tutto una sensazione di possanza e marzialità impagabile e, quando si mettono a scrivere melodie da pelle d’oca, si fatica a trovare qualcuno che possa rivaleggiare con loro. Dei nove brani (più 4 interludi) qui presenti almeno cinque sono stupendi e, se gradite gente come Menhir, i Graveland più pagani o cose di questo tipo, non dovete trascurare Of Old Wisdom, anzi in realtà mi stupirebbe se non lo conosceste già. Ci sono pezzi che da soli valgono il disco, tipo Passing the Portal, Warrior’s Hill o The Beloved che chiude l’album dopo circa un’ora di gran musica.
LEAVES’ EYES – Vinland Saga
Michele Romani: I Leaves’ Eyes all’inizio degli ani 2000 furono un progetto superpompato da casa discografica e riviste di settore, soprattutto per la presenza di Liv Kristine al primo vero e proprio banco di prova dopo la dipartita non proprio amichevole dai Theatre of Tragedy. Per l’occasione Liv si portò dietro Alex Krull (ai tempi ancora suo marito) e tutta la cricca degli Atrocity al seguito, con l’idea ben precisa di dare vita ad una sorta di gothic-symphonic metal (genere che allora stava esplodendo) corroborato da liriche legate a tematiche vichinghe e antichi miti nordici, proprio come in questo loro secondo Vinland Saga, che a detta di molti resta ancora il loro disco più rappresentativo. In realtà i Leaves’ Eyes all’atto pratico non s’inventano nulla, il suono praticamente è quello di un qualsiasi disco Napalm uscito nei primi anni 2000, quel symphonic metal a tinte gotiche su cui, ai tempi, molte band si buttarono a capofitto per tentare di fare il botto. Qualche pezzo carino in realtà ci sta pure (Elegy su tutte), tra alti ma anche molti bassi, compresi i growl di Alex Krull totalmente fuori contesto.
REBELLION – Sagas of Iceland. The History of the Vikings (volume 1)
Barg: La storia dei Rebellion è esemplificativa di come troppo spesso la pubblicità e la pigrizia mentale facciano e disfacciano il successo di un gruppo. Loro sono nati da due transfughi dei Grave Digger, Uwe Lulis e Tomi Goettlich, e io ricordo benissimo come fu accolto il loro debutto Macbeth: credo di esserne stato l’unico a scriverne bene, mentre chiunque altro lo trattò, nella migliore delle ipotesi, con schifiltosa sufficienza. I Grave Digger all’epoca erano usciti col disco eponimo, che era ancora vagamente dignitoso, diciamo, e nonostante in futuro avrebbero disceso sempre di più la china che avevano già ampiamente preso da anni, giungendo poi all’imbarazzante sfacelo attuale, hanno comunque mantenuto uno status di vecchia gloria che continua tuttora a farli inserire piuttosto in alto nei festival. Ma la gente non aveva capito niente, perché erano i Rebellion il gruppo da tenere in considerazione. Di più: la sola esistenza dei Rebellion toglieva ogni senso all’ascolto dei Grave Digger, visto che dischi come questo Sagas of Iceland si bevono con estrema facilità gli ultimi venticinque anni abbondanti di quegli altri. Tutto quello che i Grave Digger avrebbero dovuto diventare è qua dentro: metallo roccioso, epico, trascinante, cazzuto, fondato sui mid tempo, con riffoni massicci e linee vocali da mandare a memoria, e pure un cantante della madonna quale Boltendahl non è mai stato. Nulla da togliere ai dischi storici dei Grave Digger, ovviamente, ma i primi dei Rebellion sono degnissimi di affiancarli sullo scaffale.
INFERNAL WAR – Terrorfront
Griffar: Sinceramente fatico a credere che non conosciate gli Infernal War, gruppo estremo polacco fondato da Triumphator e Stormblast dei Thunderbolt sul finire degli anni Novanta, in principio accostato al movimento NSBM salvo poi dissociarsene in tutto e per tutto appena dopo il contratto con Agonia productions, che ne ha fatto uno dei loro gruppi di punta, e che, grazie alle cospicue vendite dei loro dischi, è riuscita ad espandersi fino a diventare una delle label più importanti del continente europeo. Magari non saranno dei fulmini a spedire i dischi quando te li vendono in preorder, ma oramai le loro uscite sono tutte di alto livello e confezionate come dio comanda, sono persone serie. Terrorfront è l’esordio degli Infernal War e, se siete in crisi d’astinenza da primi Marduk, primi Dark Funeral, Setherial, Svartsyn e compagnia massacrante, potete corroborarvi con questi 32 minuti di carneficina oggi come vent’anni fa, senza che si abbia la minima percezione del tempo passato. Sembra che prendano la ferocia di Reign in Blood e ne raddoppino la velocità di esecuzione, oppure che reinterpretino l’impostazione compositiva del brutal death rivedendola in chiave fast black metal. Costanti assoli di puro stampo Hannemann/King squarciano i timpani come suoni lancinanti di odio, mentre uno screaming impazzito mette in sofferenza anche l’ascoltatore più avvezzo a cotanto sfacelo. Terrorfront è di una violenza impressionante, senza dubbio il loro album più feroce, non fa prigionieri e non ha alcun momento di cedimento per tutta la sua seppur breve durata. In seguito hanno lievemente tirato il freno, ma se si parla di aggressività cristallina gli Infernal War sono primi candidati allo scettro dei sovrani.

DECEASED – As the Weird Travel On
Ciccio Russo: Se il mondo non si era accorto dei Deceased nemmeno con due capolavori come Fearless Undead Machines e Supernatural Addiction, significava che non c’era davvero nulla da fare. Quello che rimane ancor oggi uno dei gruppi più originali e talentosi della scena estrema Usa fu mollato poco dopo dalla Relapse, una rottura particolarmente amara se si considera che il loro debutto Luck of the Corpse segnò anche l’esordio sul mercato discografico dell’etichetta americana. Per la band di King Fowley iniziò un periodo confuso, tra estemporanee raccolte di cover e compilation dalla dubbia utilità. Solo cinque anni dopo sarebbe arrivato un nuovo Lp di inediti, il quinto, uscito per una sfigata label portoricana in un momento di confusione e riflusso generalizzati. Il titolo sembra imbevuto di mesta autoreferenzialità: una formazione irregolare e incompresa prosegue il suo viaggio solitario, accompagnata da quei pochi fan devotissimi che non smetteranno mai di seguirli. La rilettura in chiave death metal degli stilemi epic/power nazionali che aveva reso grandiosi i due capitoli precedenti viene accantonata in favore di un piglio più thrash e aggressivo, con la melodia che gioca un ruolo diverso, esaltato negli splendidi assoli di chitarra. Permane una scrittura stratificata che riesce a far convivere una quantità pazzesca di idee senza che vengano mai meno l’impatto e la scorrevolezza di un lavoro non tra i loro migliori ma, ancora una volta, superiore al 99% di quello che stava uscendo nel frattempo nell’ambito del genere. Non mi resta che ripetere il consueto appello: se non conoscete questo straordinaria e misconosciuta band, rimediate subito. Mi ringrazierete.
THE RED CHORD – Clients
Luca Venturini: In un’epoca in cui il metalcore melodico dominava le scene e aveva iniziato ad avere un buonissimo successo commerciale, i The Red Chord si distinsero invece per la loro brutalità tecnica e un approccio più aggressivo. Mentre band come Killswitch Engage e As I Lay Dying addolcivano i loro suoni con melodie orecchiabili, Clients andava nella direzione opposta: death metal abrasivo ricolmo di grind e un’attitudine punk. La voce gutturale di Guy Kozowyk forse non sarà così originale, ma di certo era lontana dalle voci pulite che iniziavano a popolare il genere. Clients segna un’evoluzione per i The Red Chord rispetto al precedente, più grindcore, Fused Together in Revolving Doors. Se il debutto era un assalto sonoro disarticolato, Clients mostra maggiore coesione e maggiore semplicità negli arrangiamenti, pur mantenendo intatta la ferocia. Le influenze hardcore si fanno più sentire, con breakdown devastanti che si alternano a blast beat furiosi e riff intricati. Ascoltato oggi, l’evoluzione verso un approccio più “core” già si può sentire, ma l’album si erge come un disco maturo e vario, facendone un ascolto assolutamente interessante.
WOLFSMOND – Tollwut
Griffar: È stupefacente come dei Wolfsmond si siano interessati in pochissimi (al di fuori della Germania, dato che per i tedeschi anche la più scalcagnata band originata sul teutonico suolo è immediatamente storia della musica) finché, qualche tempo fa, i loro dischi hanno cominciato a prendere discrete quotazioni nel mercato collezionistico, portandoli a rasentare lo status di cult-band. In parte è dovuto al fatto che nel progetto è coinvolto Unhold (Luror, Absurd, Heldentum nonché proprietario della World Terror Committee records) oltre ad altri esponenti di spicco della scena black di casa loro. In realtà, anche se tardi, ci si sta rendendo conto del significativo valore della loro musica. Io ho sempre apprezzato moltissimo il loro black metal variegato, che svaria dal lento quasi depressive al furioso, passando per ogni possibile sfumatura che intercorre tra questi due estremi. Le composizioni sono impregnate di un’aura di epico, di pagan black, e le cupe atmosfere si accompagnano alla perfezione ai numerosi momenti crepuscolari e soffusi, presenti in quasi ogni brano, che escono dal contesto canonicamente black metal per addentrarsi in zone atmospheric death nordico. Cose alla primi Opeth, per dire, e ci stanno a pennello. Tollwut è il loro secondo album ed è un gran bel lavoro, più maturo rispetto all’esordio Des Düsterwaldes Reigen e poi replicato con ancora più classe nel terzo album Wolfsmond III (2010) che ad oggi rappresenta l’ultimo loro episodio discografico.
CANDLEMASS – st
Barg: Penso siamo tutti d’accordo che questo sia un gran disco. Segna l’attesissima reunion dei Candlemass, e non credo potesse andare meglio di così. Anzi, all’epoca andò oltre le più rosee aspettative, perché suona fresco, potente, convinto, come se fosse uscito dall’epoca d’oro del gruppo e non dal periodo complicato degli anni Novanta, con quelle uscite in tono minore che, seppur gradevoli, davano tutta l’impressione di avere l’unico scopo di tenere vivo il nome dei Candlemass. E c’era stata anche la parentesi Abstrakt Algebra, che aveva fatto temere uno scioglimento. Qui invece Leif Eidling richiama la stessa identica formazione del terzetto Nightfall – Ancient Dreams – Tales of Creation, compreso Messiah Marcolin, per il quale il tempo non sembra passato neanche un po’. L’apertura con Black Dwarf è un pugno in bocca micidiale e non te l’aspetteresti da un gruppo con così tanti anni sulle spalle, ma l’album è ottimo dall’inizio alla fine, con l’intera gamma di emozioni che ti avevano fatto innamorare dei Candlemass riproposta e attualizzata in modo tale che questo rimane comunque un disco figlio del suo tempo, e non una mera riproposizione di vecchi stilemi retrò, a partire dalla produzione. Anche il modo di cantare di Marcolin è più incisivo, con meno uso del vibrato in favore di un maggiore impatto, e riflette un generale approccio maturo, diretto, che va dritto al punto senza arzigogoli. Da lì in poi, i Candlemass avrebbero ripreso il posto che spettava loro di diritto, proprio ripartendo da queste premesse.
ONEIDA – The Wedding
L’Azzeccagarbugli: Come avrete capito dalle recensioni degli ultimi due album, gli Oneida ci piacciono parecchio. Il gruppo di Brooklyn infatti incarna alla perfezione il concetto di libertà fatta musica, di fare ciò che gli pare, senza pensare alle reazioni, a come sarà accolta dal pubblico una determinata svolta. In tal senso, The Wedding è estremamente emblematico: presentato ironicamente come un “capolavoro di pop barocco” prima della sua uscita da Kid Millions, l’album è un caleidoscopio di influenze e generi completamente diversi, mai prima esplorati – almeno con queste modalità – dai Nostri. Certo, ci sono le bordate di rumore kraut, i loop provenienti da Each One Teach One come in Lavender, ma c’è davvero tanto altro. La psichedelia più acida di fine ’60 che si incontra con i Velvet Underground di Spirits, il pop barocco (non era uno scherzo!) e orchestrale della splendida The Eiger, i Flaming Lips più pop di Charlemagne, i Black Sabbath di Did I Die. Un lavoro non incasellabile, estremamente sottovalutato all’epoca della sua uscita e che si conferma oggi non solo come il disco più accessibile degli Oneida, ma anche come uno dei più riusciti.
DIMHYMN – Fördärvets maskineri
Griffar: Ci fosse stato da scommettere su chi avrebbe potuto diventare la next big thing del metallo nero svedese, si poteva andare sul sicuro puntando sui Dimhymn. Ci fu un grosso hype attorno a questo progetto vent’anni fa, principalmente per il fatto che fu messo in piedi da Nattdal, all’epoca chitarrista di Ondskapt e Lifelover, quindi esponente di spicco della scena. Coadiuvato dal batterista Alex (del quale non vi sono altre tracce oltre alla partecipazione a questa band), si occupa di tutti gli strumenti e delle composizioni, e ci si immaginava che Fördärvets maskineri avrebbe venduto una paccata di copie – benché la prima tiratura fosse stata di mille copie appena, autoprodotte, ma questo era il tipico disco del quale una grossa etichetta tipo Century Media avrebbe potuto interessarsi e comprarne i diritti. Le caratteristiche per sfondare ci sono tutte: black metal tiratissimo in stile Malign, Marduk o Funeral Mist era-Devilry, poderose incursioni retro-thrash e sezioni melodiche swedish black death. 7 tracce, 40 minuti furenti, aggressivi e molto piacioni. Invece le cose andarono diversamente: appena tre mesi dopo uscì il secondo disco Djävulens tid är kommen, anch’esso passato abbastanza in sordina, e, dopo uno split con i depressive blackster Hypothermia uscito nel 2006, i Dimhymn furono consegnati al passato. Dalle loro ceneri nacquero quindi gli IXXI, loro sì conquistatori di grande considerazione (forse fin troppa), attivi fino alla morte di Nattdal avvenuta nel 2011 per overdose.
STRIBORG – Black Desolate Winter / Depressive Hybernation
Michele Romani: Il progetto Striborg ebbe una discreta eco nella scena black underground, fondamentalmente per due motivi: la provenienza piuttosto particolare (la Tasmania) e le registrazioni tipo Ildjarn totalmente incomprensibili, nel senso proprio letterale del termine. Questo doppio disco è caratterizzato da un primo pezzo tratto da una vecchia demo (Black Desolate Winter per l’appunto), trenta minuti interminabili compresi intro e outro di cui ovviamente non si capisce nulla e nei quali, cosa più grave, non si riesce a trovare un riff degno di nota. Le cose non è che vadano molto meglio con Depressive Hybernation, un’altra mezz’ora (stavolta composta da più brani) che è un po’ vademecum di tutto quello che ha reso “famoso” Striborg: urla modello Silencer, registrazione (se così si può chiamare) da scantinato, la chitarra che ha lo stesso suono di una zanzara che non ti fa dormire la notte, elementi noise-ambient messi lì un po’ a cazzo di cane e via dicendo. Il tutto si traduce in una sensazione di noia e fastidio totale, ma soprattutto in una fatica tremenda ad arrivare alla fine.
SHAAMAN – Reason
Barg: Dovettero passare tre anni perché gli ex membri degli Angra (Matos, Mariutti e Confessori) potessero dare un seguito al sorprendente Ritual. Il risultato fu questo Reason, che all’epoca ricordo venne accolto molto più tiepidamente rispetto al debutto, forse perché ne spostava abbastanza sensibilmente le coordinate stilistiche. Reason è infatti un disco più quadrato, più heavy, con chitarre più dure e uno stile meno tendente al power. Qui un pezzo come For Tomorrow, apice del debutto, non avrebbe potuto trovare spazio: troppo folkeggiante, troppo ariosa, diciamo così; e specularmente gran parte delle soluzioni che dominano in Reason sarebbe stata fuori posto nel disco precedente. Probabilmente in questo secondo album dei brasiliani manca il pezzo forte, la canzone che diventa il cavallo di battaglia che i fan ti richiedono dal vivo, ma allo stesso tempo è anche difficile trovare un vero e proprio punto debole nei suoi quasi 50 minuti di durata. Si possono quindi comprendere i motivi per cui Reason non sia stato accolto con il medesimo entusiasmo del debutto, però, a freddo, non si può fare altro che considerarlo un lavoro più che buono. Un ultimo appunto, se ce ne fosse bisogno, per la superlativa prova di Andre Matos, qui in versione molto più roca rispetto al periodo degli Angra.
ETERNAL MAJESTY – Night Shadows
Griffar: Oramai i francesi Eternal Majesty sono in attività da trent’anni, eppure, nonostante ciò, sono una delle entità più oscure dell’intera scena black metal, francese in primis e mondiale per estensione. Gran parte della loro discografia è uscita solo in cassetta, spesso in edizioni limitatissime, e non mi riferisco solo alla produzione più antica; hanno sempre portato avanti un’attitudine underground tipica delle Black Legions, movimento cui sono stati spesso accostati pur non essendone coinvolti particolarmente. Comunque tre full li hanno pubblicati e si dovrebbero trovare senza dissanguarsi. Il disco che oggi compie vent’anni è Night Shadows, EP non lunghissimo di tre brani (più intro e outro) che però mi dà l’occasione di rinfrescarvi la memoria ed esortarvi a cercare il loro eccellente e convintissimo black metal tradizionale, tutto chitarre perfide, velocità impazzite, screaming satanico come pochi e tanta, tantissima malvagità. In parte accostabili agli Antaeus, con i quali hanno condiviso alcuni elementi della line-up, seppure meno devoti alla violenza nichilista hardcore tipica di questi ultimi, gli Eternal Majesty spesso richiamano la mente la frenesia dei primi Emperor rielaborata secondo gli stilemi francesi di metà anni ’90. Oramai sono un gruppo storico, troverete una discreta quantità della loro musica sul loro Bandcamp qui.
FALCONER – Grime vs. Grandeur
Barg: Secondo e ultimo disco dei Falconer nella breve parentesi senza Mathias Blad alla voce, per Grime vs Grandeur vale grossomodo tutto quanto detto per il precedente The Sceptre of Deception. Quindi un buon disco, tutto sommato, anche se fortemente penalizzato dalla prestazione al microfono di Kristoffer Göbel, il che è surreale, considerando che nella restante discografia dei Falconer è proprio il cantante storico ad essere il principale punto di forza. Ad ogni modo questo aspetto negativo dà la possibilità di concentrarsi di più sulla prova strumentale e compositiva del gruppo, che nonostante tutto riesce a reggere la baracca con pezzi convincenti come The Assailant o Purgatory Time. Visto che con l’intelligenza artificiale ormai si riesce a fare di tutto, sarebbe curioso sentire questi due dischi cantati con la voce di Mathias Blad.
DEEDS OF FLESH – Crown of Souls
Luca Venturini: Crown of Souls è un album di passaggio, senza infamia e senza lode. Rispetto al lavoro precedente Reduced to Ashes, questo album presenta una produzione più compatta e una struttura dei brani leggermente più diretta, pur mantenendo l’inconfondibile ferocia e complessità tecnica che contraddistingue i Deeds of Flesh. Pur non discostandosi radicalmente dal loro sound dell’epoca, il disco mostra una band in piena forma, che suona un brutal massacrante e che si è evoluta molto rispetto agli esordi. È abbastanza per fare di Crown of Souls un buon album? Non proprio. Qui si timbra solo il cartellino e niente di più. Tuttavia, non capisco perché, io i Deeds of Flesh ogni tanto li devo ascoltare. Mi “chiamano”. Eppure non riesco a ricordami mezzo riff.
OPERATION WINTER MIST – Imperial Grand Strategy
Griffar: Anche i canadesi Operation Winter Mist non sono più attivi da tempo, eppure ai loro albori godevano di grande considerazione per via dell’estrema ferocia che scaraventavano in faccia all’ascoltatore con le loro composizioni. Nati con il preciso intento di surclassare in termini di violenza Panzer Division Marduk, i canadesi si sono dedicati anima e corpo a distruggere e sbriciolare qualsiasi ostacolo gli si parasse innanzi. Il loro war black metal è puro parossismo nella compilation Winter Warfare II uscita per Regimental records nel 2004, che racchiude tutti i pezzi della loro prima produzione ed è un disco spaventosamente violento. Prende tranquillamente a calci in faccia gente come Revenge e Bestial Mockery e, se pur non arriva ad eguagliare il punto di riferimento svedese, per attitudine e macello sonoro non si ferma molto distante. Imperial Grand Strategy è il full ufficiale di debutto ed è più meditato; a quanto pare si accorsero che il picchiare così tanto duro alla fine diventa come un cane che si morde la coda. Le composizioni hanno persino parvenze di melodia, con armonizzazioni che in parte mitigano la violenza comunque estrema qui presente. Si tratta di war black metal da manuale che appagherà di sicuro la vostra bramosia di sangue e carne umana dilaniata. Di loro si persero le tracce dopo il 3-way split con Ruina e i nostrani Tundra uscito nel 2007.
TORMENT – Tormentation
Barg: L’intro già spiega tutto: un vocione che fa ARE YOU READY FOR TORMENTATION e poi un rumore di sega elettrica. Sei secondi in tutto, dopodiché parte il disco, sedici pezzi effettivi per manco un’ora di musica, una specie di Motorhead marci sporcati con un po’ di thrash da pogo, birre sgasate e rutti in faccia. Sinceramente adorabile, ne parlai benissimo già sul Metal Shock cartaceo e non posso che ripetermi anche qui, vent’anni dopo. Roba impossibile da ascoltare a volume basso, ma pure medio o medio-alto, e che di sicuro negli anni è stata responsabile di svariate lussazioni al collo e traumi vari di chi si è ritrovato a pogare contro il muro gridando HAIL! TORMENT! TO-TO-TORMENTATION! Ma soprattutto quel capolavoro di Heavy Metal Hooligans, che sarebbe dovuta diventare un inno generazionale se solo i Torment avessero avuto metà del successo che si meritavano. Non so se Lemmy abbia mai ascoltato questo disco, ma, se ciò è avvenuto, sono sicuro che gli sarà piaciuto.


















I Rebellion meritavano tanto di più.
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Anche l’Inter stasera.
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Dici che 5 sono pochi e meritavano qualche altro buffetto?
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X cercare di vincere una partita di solito bisognerebbe giocarla prima
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Lo “Spiazel One” l’aveva preparata bene.
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Malakian a cantare fa pena e Mesmerize è un dischetto da sufficienza stiracchiata ad esagerare.
Ho parlato.
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mesmerize è una figata e per me è il loro migliore
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