Avere vent’anni: febbraio 2004
DAMAGEPLAN – New Found Power
Barg: Non ascoltavo New Found Power dal periodo della sua uscita e me lo ricordavo come un disco inutile, superfluo, innocuo, una cacatina di mosca che scorre in sottofondo come un bicchiere d’acqua naturale a temperatura ambiente e di cui non ti rimane nulla. Invece i miei ricordi erano fin troppo benevoli, perché in realtà questo disco è una discarica a cielo aperto di liquami organici. Per descrivere quanto schifo faccia, provate a immaginare di giocare a palla avvelenata legati mani e piedi, con davanti un plotone di culturisti che vi scagliano addosso violentemente pallonate di merda. La cosa è particolarmente orribile perché questo non è solo il gruppo in cui i fratelli Abbott volevano rimettersi in gioco, ma anche l’ultimo disco in cui Dimebag ha effettivamente suonato. Ci sono tutti i difetti dei Pantera e nessun pregio: una roba asfittica, monolitica, che non va da nessuna parte e che non riesce neanche a valorizzare i musicisti coinvolti, dato che gli assoli sono pochi, brevi e tendenzialmente banali, le parti di chitarra sono sterili e alla batteria è anche difficile riconoscere lo stile di Vinnie Paul. E dura pure un’ora, il che credo sia vietato espressamente dalla Convenzione di Ginevra. Il pezzo migliore è Pride, una mezza lagna nu grunge come andava di moda in quell’epoca; per dire il livello. Pensare che questa vergognosa ignominia sia stato il canto del cigno di un titano come Dimebag Darrell fa male al cuore. Come poi andò a finire la storia è un’altra faccenda, ancora più penosa.
MY DYING BRIDE – Songs of Darkness, Words of Light
Michele Romani: Songs of Darkness, Words of Light per quanto mi riguarda resta uno degli ultimi grandi dischi della Sposa Morente, che dopo il successivo e altrettanto bello A Line of Deathless Kings (praticamente una copia carbone di questo) andranno avanti un po’ col pilota automatico, sfornando lavori stilisticamente ineccepibili ma senza quel quid in più che avevano i primi capolavori o l’album trattato oggi, probabilmente il più opprimente scritto dalla band inglese, un monolite di doom gotico che si crogiola nella più pura e nera disperazione. Se nel precedente The Dreadful Hours qualche raggio di luce ancora s’intravedeva, questo procede imperterrito seguendo i canoni del gothic doom vecchia scuola con pochissime variazioni sul tema. I pezzi sono tutti piacevoli ma si stagliano due assoluti capolavori come Catherine Blake (l’unica del disco ad essere ancora presenza fissa ai loro concerti) e My Wine in Silence, un delizioso tormento di quasi 9 minuti con un riff portante di una bellezza imbarazzante. Aggiungere altre parole sarebbe inutile, spiace solo che da questo momento in poi i My Dying Bride non avrebbero più raggiunto livelli simili.
CANNIBAL CORPSE – The Wretched Spawn
Marco Belardi: Le mie aspettative per un nuovo album dei Cannibal Corpse in seguito all’uscita di Bloodthirst si fecero altissime. E niente andò più nel verso giusto, anche se in linea di massima i loro album non mi delusero mai totalmente. Gore Obsessed era formalmente perfetto, ma non mi si stampava in testa neanche un po’. The Wretched Spawn aveva invece le carte in regola per farlo, ma non mi piacque, e lo rivalutai con moltissima calma. Penso di essermi affezionato a The Wretched Spawn un po’ di tempo oltre l’uscita di Kill. Si parla quindi del 2006 o 2007, indicativamente. In molti dissero che era lineare come un album degli Slayer in versione Cannibal Corpse, la solita solfa ritirata fuori poi alla pubblicazione di Red Before Black. Aveva dei buoni pezzi, come Severed Head Stoning in apertura. Aveva delle chitarre pazzesche su Frantic Disembowelment, forse la mia preferita con quel break di basso essenziale a metà corsa. Aveva la nuova Sentenced to Burn, Decency Defied. Non c’era nella volontà dei Cannibal Corpse alcuna traccia di cambiamento, così era dai tempi di The Bleeding e Vile, i loro due atti di maggior mutazione impressi su disco. Semplicemente incisero un album meno cupo e un filino più lineare e funzionò, ponendo l’accento quanto bastava sui tempi medi e lenti come nell’omonimo – suo il riffone più memorabile fra tutti – e in Festering in the Crypt. Rispetto a Bloodthirst anche questo era di parecchio inferiore, ad ogni modo, dopodiché persero pure Jack Owen.
NACHTMYSTIUM – Demise
Griffar: Odiatissimo in patria e per estensione in tutto il resto del pianeta, Blake Judd è un noto truffatore che si faceva pagare fior di soldi per dischi e merchandise che poi non avrebbe mai spedito. Questo modo di agire si è ritorto contro i Nachtmystium, che vengono considerati merdaccia fumante dai più, anche se l’unica cosa che io imputo veramente loro è il fatto di aver pubblicato talmente tanti dischi che ci sarebbe stato bisogno di un segretario per recuperarli tutti al momento dell’uscita evitando i prezzi gonfiati di ogni titolo. Prezzi che triplicavano (o anche di più) nel giro di un giorno, fanculo a loro. Erano i tempi di Xasthur e dell’enorme hype che circolava attorno quel nome, di Judas Iscariot che aveva mollato tutto, di un grande interesse intorno al black metal statunitense. Molta gente ci intravide i soldi facili, non solo Azentrius, che comunque una discreta quantità di torto marcio ce l’ha. Demise è ufficialmente il secondo full dei Nachtmystium, circondato da una pletora di split, EP, live album, demo compilation usciti a ripetizione, con il risultato di incasinare il tutto e inflazionare il nome. Peccato, perché musicalmente l’album non è affatto male, introspettivo, cupo, realmente nero come la pece e catramoso, raramente o per meglio dire quasi mai servito a velocità elevate ed ispiratore di concreta angoscia e sofferenza. C’è molto depressive black ante-litteram in questi solchi, indubbiamente di derivazione Burzum ma non solo. Prodotto in modo molto minimalista e caratterizzato da un suono scarno e primitivo, Demise raccolse i favori di chi si sollazzava con il black metal meno rifinito, cose tipo Ildjarn giusto per dare un’idea. Gruppo di spicco almeno fino a Instinct: Decay del 2006, il progetto è stato mandato in vacca tra scioglimenti temporanei, scazzi tra membri (anche se in pratica il progetto si poteva ascrivere al solo Azentrius) e problemi legali, oggi risulta definitivamente sciolto,ma la discografia è enorme se volete spaccarvi la testa a recuperare il tutto. Buon divertimento.
INCUBUS – A Crow Left of the Murder
Lorenzo Centini:Pare che me ne occupi solo io dei ventennali degli Incubus, come me ne fregasse qualcosa. La verità è che li detesto. A posteriori, all’epoca no, al massimo li ignoravo. Ma erano ovunque e la compagnia che frequentavo sembrava non ascoltare altro che Incubus e Red Hot Chili Peppers, il peggio del peggio. Tutti gasati per i bassisti. Oh, mammamia, hai sentito lo slap? Vomito. Di A Crow Left of the Murder non c’è granché da dire. È la versione sciatta di Morning View, che era la versione smorta di Make Yourself, che era la versione spenta di S.C.I.E.N.C.E., che era carino. Fungus Amongus boh. Quindi, di questo qui, quello del 2004, aggiungo solo che se ne era andato il bassista storico, lo slappatore più figo del bigoncio. Era arrivato quello dei The Roots, mica uno stronzo, ma manco usava le dita ed era più orientato al dub. Costernazione e disperazione tra quelli della mia compagnia. Megalomaniac non era manco male male male (magari giusto male), ma non lo ammettevano. Senza slap e il tizio che scratchava a cazzo erano persi. Quanto tempo perso. Il loro appresso agli Incubus e il mio appresso a loro.
SIRENIA – An Elixir of Existence
Michele Romani: i Sirenia sono sempre stati la creatura di Morten Veiland, fondatore e principale compositore dei primi due grandiosi dischi dei Tristania che, all’indomani dell’uscita di Beyond The Veil, scazzò pesantemente con gli altri membri per fondare un gruppo tutto suo. Una perdita fondamentale per i Tristania, che da lì in avanti praticamente non ne azzeccarono più una e persero ogni tipo di credibilità con l’abbandono di Vibeke Stene, mentre i Sirenia ebbero subito un buon successo di critica e pubblico sin dall’esordio At Sixes And Sevens, a cui seguì due anni dopo questo Elixir of Existence. Se nel primo l’influenza della band madre era ancora ben presente, con il secondo la band norvegese gettò le basi per quel tipico gothic metal sinfonico che diventò il suo marchio di fabbrica, anche se col passare del tempo avrebbe snellito la proposta in un favore di un gotico pipparolo dall’appeal più melodico e commerciale. Elixir of Existence alla fine non è da buttare (Voices Within rimane ancora oggi un gran bel pezzo) ma francamente non mi ha mai preso fino in fondo, anche se su questo può influire il mio inevitabile paragone con i primi Tristania che ai tempi adoravo e con i quali purtroppo i Sirenia hanno in comune poco o nulla.
PRIMAL FEAR – Devil’s Ground
Barg: Come detto, è complicato trovare sempre nuove parole e nuovi modi per descrivere i dischi dei Primal Fear, perché sono tutti più o meno uguali stilisticamente e tutti più o meno equivalenti qualitativamente. Certo, il gruppo di Matt Sinner ha composto lavori migliori e altri meno, ma grossomodo siamo lì. Devil’s Ground non fa eccezione: è uno di quei dischi in cui nessun pezzo si staglia nettamente sugli altri ma che è gradevole dall’inizio alla fine, senza mai farti venire la voglia di andare avanti o di passare ad ascoltare altro. Insomma, strapparsi i capelli e urlare al capolavoro magari no, ma battere il piedino e ondeggiare avanti e indietro la testa, quello sì.
EIKENSKADEN – 665.999
Griffar: Il terzo album di Stefan Kozak con il marchio Eikenskaden (lo ricordiamo anche nei Mystic Forest) è black metal furente non particolarmente satanico, o immagino sia questo che intendesse l’artista. Se i primi due dischi erano fortemente intersecati con la musica classica eseguita al pianoforte, in questo episodio sono più le chitarre che si prendono la scena: le composizioni al piano sono in assai minore quantità, sostituite da gustose parti di chitarra solista molto ben eseguite, vicine a quanto già stava proponendo con i succitati Mystic Forest. Rimane la velocità di esecuzione prevalentemente sostenutissima, sempre sorretta da una batteria elettronica lanciata a mille all’ora; fortunatamente ogni tanto rallenta, perché i riff sono melodici e gradevoli ma un martellamento costante così estremo di batteria alla fine potrebbe stancare. Non succede, non temete. I nove brani sono omogenei e tutti ugualmente interessanti, del resto ho ribadito più volte che come compositore Stefan Kozak sapeva decisamente il fatto suo. Ascoltate quante volte cambia impostazione nel corso di Lament Waltz per esempio, sebbene duri solo sei minuti sembra la suite di una sinfonia da tanto è varia. Ma tutti i 42 minuti di durata dell’album hanno un loro piacevole fascino. L’album è il suo penultimo, l’anno successivo sarebbe uscito There Is No Light at the End of the Tunnel, l’opera meno ispirata delle quattro pubblicate a nome Eikenskaden. Dopo il cambio di nome in The Skaden e un altro disco di stampo Alcest/Peste Noire uscito nel 2009 il ragazzo scomparse, fino alla tragica fine del 2015.
PAIN OF SALVATION – 12:5 (Live)
Bartolo da Sassoferrato: Primo disco live del combo svedese. Quando venne pubblicato la band “qualcosa” aveva già dimostrato. Entropia – album criminalmente sottovalutato – e One Hour by the Concrete Lake. Poi, “uno-due” da manuale, con The Perfect Element I e Remedy Lane. Una combinazione da knock out. Veri e propri monumenti di un progressive metal concettualmente lontano anni luce da quello proposto dai Dream Theater, che allora dominavano il genere (almeno a livello mainstream). I PoS proponevano un prog che riusciva a fondere tecnica e passione, ma soprattutto era dotato di una audacia inusitata. 12:5 non fa eccezione. In questo caso, l’audacia emerge soprattutto dalla volontà di far rivivere i brani dei dischi precedenti unicamente attraverso l’impiego di strumentazione acustica. I risultati sono altalenanti. Fatalmente, pezzi come Winning a War o Chain Sling, che nella versione studio riescono a trasmettere un’energia inesausta proprio grazie al dinamismo elettrico, nel live perdono di incisività. La timbrica acustica amplifica però, immediatamente, il valore delle voci. Daniel Gildenlöw emerge prepotentemente grazie al suo estro e alle sue capacità canore abnormi. Sebbene 12:5 sia, dal punto di vista formale, un bel live, uno dei suoi punti di maggior debolezza risiede nella scarsa passione che traspare. La band mi sembra sempre più preoccupata di eseguire tutto al massimo grado di perfezione possibile, sacrificando il lato emotivo. Strano, dato che i dischi in studio trasudano emozioni. All’epoca, vedendoli più volte dal vivo, questa caratteristica non l’avevo notata. In seguito ho visto dal vivo gli Wovenhand. E ho capito la differenza.
DECAPITATED – The Negation
Marco Belardi: The Negation lo accolsi come una manna dal cielo. Per molto tempo sentii i fan dei Decapitated considerarlo il loro miglior lavoro, e non avevano tutti i torti. Una parte di me, tuttavia, non ci stava. I giovanissimi polacchi si erano comportati sino ad allora come veri e propri geni quanto a talento, capacità, sregolatezza: un primo album, Winds of Creation, che era l’equivalente di essere destati con una secchiata d’acqua gelata in piena faccia; e poi un secondo, Nihility, che lo rinnegava completamente puntando tutto su pulizia sonora e modernismi d’ogni sorta. Naturalmente fra i due preferivo il primo, ma suscitarono entrambi gran clamore. The Negation non rinnegava a sua volta Nihility. I riffoni stoppati di Three Dimensional Defect erano la solita solfa di Spheres of Madness. The Negation fu però concepito per piacere alla prima, senza perdersi in chiacchiere, e aveva certe accelerazioni che sul momento percepii quasi come slayeriane: Lying and Weak l’esempio lampante, bellissima. Gli mancava quell’aria da cane sciolto che aveva nota per nota Winds of Creation, la medesima capacità di risultare geniale senza compiacersi nel farlo. Nel 2004 i Decapitated erano già maturi, arrivati a destinazione. Sebbene il seguente album Organic Hallucinosis, il primo senza Sauron alla voce nonché l’ultimo prima del fattaccio, avrebbe ulteriormente rimescolato le carte in tavola, è con The Negation che i Decapitated passarono dall’essere una band magica all’essere semplicemente una gran bella band. Era tutto perfettamente al suo posto e nulla mi stupiva più. Dategli tuttavia un riascolto, funziona ancora benissimo.
ENCOMIUM / GRAUPEL – Split EP
Griffar: Continuano a raggiungere i vent’anni di vita dischi che sono le vestigia di tutta una progenie di gruppi black nati in Germania sul finire dei ’90. Alcuni di essi sono arrivati fino ai giorni nostri, tra alti e bassi e lunghe stagnazioni nell’underground più profondo. Altri sono stati un fuoco di paglia, durati poco o pochissimo, a stento in grado di uscire dallo status di gruppo da demo. Tra di essi gli Encomium, nella cui discografia, oltre a quattro demo, c’è solo lo split con i Funeral Procession e questo con i Graupel, uscito quando erano già sciolti da due anni. In origine infatti lo split in questione avrebbe dovuto essere pubblicato nel 2002 dalla Sombre records, cult label tedesca di proprietà di un tipo che con il black metal aveva intuito la possibilità di fare fior di soldoni, truffando gruppi e clienti a destra e a manca (mal gliene incolse, Marcel Spaller morì di tumore al cervello a soli 27 anni nel 2006). Non se ne fece nulla e dovettero passare due anni prima che la Westwall (altra etichetta ora defunta) riuscisse a pubblicare questo dischetto. Entrambi i gruppi suonano classico black tedesco di fine millennio veloce e aggressivo, con una discreta propensione a comporre riff semplici in monocorda discretamente melodici, stacchi più rallentati dove la melodia la fa ancora più da padrona e le influenze derivate dal black scandinavo sono ancora più marcate. I tedeschi inoltre hanno sempre avuto la melodia nel DNA, anche nei sottogeneri più estremi del metal, e vi basta ascoltare Ashes of a Thousand Years (uno dei due pezzi targati Encomium qui proposti) per accorgervene. Avrebbero meritato maggior fortuna, ma la storia evolvé in altro modo. Per i Graupel il discorso genetico è simile: la loro proposta significativamente più feroce li ha portati un po’ più lontano visto lo split con gli Endstille e la pubblicazione di due album. Il gruppo è diventato presto un culto, e i loro dischi in passato venivano cercati con assiduità dai blackster, ma oramai dopo tanto tempo lo status si è decisamente affievolito visto che non pubblicano nulla di nuovo da 14 anni. Sembra comunque che il progetto sia ancora in vita.
INTO ETERNITY – Buried in Oblivion
Barg: Gli Into Eternity dal Canadà sono un gruppo molto strano e peculiare, che difficilmente riuscirei ad accostare ad altri. Ne avevamo già parlato in occasione del ventennale del debutto, ma con questo Buried in Oblivion le cose iniziano a farsi complicate, perché riuscire a far capire di cosa si tratta a qualcuno che non lo ha mai sentito non è un’impresa semplice. Se prima si poteva parlare, tutto considerato, di gruppo power-prog (o al limite di prog metal powerizzato in senso americano) con qualche frangente più pestone, qua pigiano sul pedale dell’estremo al punto che spesso sarebbe più opportuno parlare di prog-death (o di prog metal deathizzato, mettiamola così). Ma questa è una definizione che non rispecchia bene lo stile del disco, che prende il death metal (o un thrash particolarmente pestone, o qualcosa di comunque simile) e lo reinterpreta secondo un’ottica esterna. Il risultato è molto particolare e non trova molte affinità con lo stile di altri gruppi. Gli Into Eternity meriterebbero ascolti approfonditi e tanto tempo da dedicare, ma purtroppo io questo tempo per loro non l’ho mai trovato. Di sicuro mi sto perdendo qualcosa, e spero un giorno di riuscire a mettermici con più calma.
ISEN TORR – Mighty & Superior
Lorenzo Centini: Pare che dovesse essere un progetto meno effimero di quello che poi è stato, infine. Un programma di tre Ep e un solo live. Invece se n’è fatto uno solo, di Ep, o singolo, Mighty & Superior, e nessun live. Due brani soli, ma diciassette minuti. C’è dietro Richard Walker dei Solstice inglesi, per l’occasione ha streto alleanza con musicisti tedeschi e americani (spicca l’ormai defunto Tony Taylor dietro al microfono, dalla Virginia). Mighty & Superior e The Teomachist sono quintessenza del metallo epico. Walker pare le avesse scritte per un ipotetico terzo album dei Solstice, che poi non s’è fatto (White Horse Hill è di tanti anni dopo). Gli Isen Torr, a giudicare dai due brani, non sarebbero stati doom quasi per niente: i ritmi sono concitati. Le chitarre invece sono quelle e, se vi piacciono stile e scrittura di Walker, sono tra le migliori del suo repertorio. Gran peccato non ci sia stato seguito, forse per il fatto che pare abbia sempre avuto problemi a tenersi i musicisti (o loro a rimanere sotto la sua guida, non so), a giudicare da Metal Archives che riporta addirittura ventotto ex membri dei Solstice, senza contare i quattro attuali. Addirittura figurano nuovamente attivi pure gli Isen Torr, con altre quattro coppie di iniziali, non meglio specificate, ai differenti strumenti. Probabilmente, preso da revanscismo, sta rimettendo insieme una formazione pure per loro, con qualche figuro che condivide le sue vedute. Intanto, Mighty & Superior è stato pure ristampato di recente ed è una vera chicca. Metallo duro e guerriero.
HYPOCRISY – The Arrival
L’Azzeccagarbugli: Ricordate quella scena s-t-r-a-o-r-d-i-n-a-r-i-a di Shaun of the Dead (da noi L’Alba dei Morti Dementi) di Simon Pegg, quando per combattere gli zombie iniziano a tirargli addosso vinili? Ecco, in quel momento Nick Frost, di fronte alle proteste del suo amico, prende in mano il vituperato Second Coming degli Stone Roses, quasi per andare a colpo sicuro, essendo da sempre visto come il fratello scemo dell’immenso predecessore. Pegg risponde in modo secco “MA A ME PIACE!”. Ecco, questo discorso si potrebbe fare con The Arrival degli Hypocrisy, che rappresenta la quintessenza del disco scritto con la mano sinistra, pubblicato in fretta e in furia riprendendo i soliti clichè sia a livello tematico che musicale. Ma si tratta di un album che ha i suoi estimatori (a parte l’autore di una mitologica recensione dell’epoca che non menzionerò per evitare il rifiorire di vecchie polemiche), soprattutto per i suoi pezzi più da pilota automatico (Eraser, Slave to the Parasite). Brani che sono l’equivalente dell’imitazione della pizza napoletana portata a domicilio nei primi Duemila – prima che il delivery abbracciasse locali di qualità – da laboratori di dubbio gusto che lavoravano h24. Sai che fa schifo, che è l’imitazione dell’imitazione di un prodotto che ami, ma in alcuni momenti ti fa piacere mangiare. Riascoltare The Arrival è esattamente così: è un disco mediocre, stanco, ma se stai preso bene ha quei 2-3 pezzi che ti entrano in testa e ti fanno dire “però, dai, mica male”. E alla fine potrei capire una reazione à-la Simon Pegg nei confronti di questo album di seconda fascia.
WOLF – Evil Star
Cesare Carrozzi: Secondo me gli Wolf daranno il loro meglio con successivo The Black Flame, postumo a questo di circa due anni, ma anche Evil Star non è malaccio; certo, grazie a qualche limatura in più sarebbe stato anche meglio, nella fattispecie con canzoni più coincise e ritornelli un po’ più ficcanti, posto che la voce di Niklas Stalvind (cantante, chitarrista e unico membro rimanente ad oggi della formazione originaria), per quanto gradevole tende già di suo alla nenia, figurarsi in ritornelli insipidi e ripetuti ad oltranza. Però su, qualche pezzo qui e lì si distingue e c’è anche la cover di (Don’t Fear) The Reaper. Tutto sommato Evil Star si salva, dai.
FUNERAL WINDS – Koude haat
Griffar: Quando, nella recente recensione dell’ottavo album dei Funeral Winds, 333,ho scritto che la band di Hellchrist Xul non ha mai difettato di convinzione e coerenza nel corso di tutta la sua lunga e onorata carriera, mi riferivo anche a dischi come Koude Haat, uscito vent’anni fa anche se non li dimostra per nulla. L’attitudine è sempre la stessa, il black metal feroce ed ossessivo, gelido e frenetico anche. Ispirato in parte dai grandi nomi scandinavi come DarkThrone, Immortal e i Marduk più bestiali, e accostabili anche a progetti più undergound come la cult band olandese Bestial Summoning (entità di black primordiale di rara crudeltà), i Funeral Winds sopperiscono alla nostra necessità di puro black metal da più di trent’anni. Koude Haat avrebbe potuto essere uscito ieri e nessuno avrebbe notato differenze o stravaganze nella proposta sonora, nuovamente infarcita di stacchi thrash di pura derivazione Hellhammer. In vent’anni non è cambiato niente, per fortuna. Onore a loro. Superfluo dilungarsi, per ulteriori notizie vi rimando all’articolo che parla di 333.
MELISSA AUF DER MAUR – st
Lorenzo Centini: C’è una ragione per essersi occupati del disco solista della rossa bassista del Canadá. E no, non sono le sue aggraziate movenze, che tanti miei conoscenti avevano accalappiato nel periodo di transito alla corte di Billy Corgan più che ai tempi delle Hole. Per me il motivo era un altro, dato che da adolescente l’autoerotismo me lo provocavano le chitarre sinuose ed arabeggianti di Joshua Homme e le folate al rullante di Brant Bjork. Insomma, al secondo brano del disco, e primo singolo, intitolato Followed the Waves, per la prima (e ultima) volta insieme da Welcome to Sky Valley. Di più: c’è Chris Goss a un’altra chitarra e dietro il bancone. Mancherebbe poco per fare una reunion dei tempi di Blues fot the Red Sun, perché c’è pure Nick Oliveri, in giro, ma su altri brani, che mi sa aveva già scazzato col ciuffetto biondino. Insomma, al netto della terribile indigestione che coglie la cantante a inizio brano, Followed the Waves è un bel brano e un soffio al cuore per certi nostalgici come me. Suona proprio come avrebbe potuto suonare un disco di reunion dei Kyuss e speri subentri Garcia e riprendersi il microfono come farebbe Michele Santoro. Il resto del disco è poca cosa, anche se come tutti all’epoca è andato a registrarselo (anche) al Rancho della Luna. E anche se la lista di ospiti è musicisti è impressionante. Oltre ai citati, Twiggy Ramirez, James Iha, Paz Lenchantin (che le stava rubando le attenzioni del pubblico). C’è pure un coretto di Mark Lanegan. Il Lanegan più sprecato di sempre. Nessuno risolleva alcunché, il materiale di base è quello che è. Manco da parlarne male. Sarebbe da non parlarne e basta. Ma Followed the Waves non c’entra nulla col resto e la ascolto spesso e volentieri ancora.

















damageplan pessimo, col senno di poi ancora peggio.
bello il disco dei Sirenia anche se i primi Tristania restano altra categoria.
live dei Pain of Salvation bellissimo per me, ma sul fatto che live siano un po’ meno emozionali che su disco non posso che concordare.
concordo pure su Followed the Waves: disco inutile ma brano che piace ancora moltissimo.
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A parte Azentrius uomo, mi son sempre piaciuti i full dei Nachtmystium, niente di innovativo ma un buon ascolto di sano Black Metal. I Sirenia dei primi 3 lavori sono più che discreti, anche se sento di più il terzo per i suoi pezzi leggerini ma cmq d’impatto. Invece, dei MDB questo è stato il primo disco loro che non convinse e che poi me li fece accantonare quasi per sempre. Dovrei darci una nuova ascoltata.
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E bravo il Centini che ricorda un EP clamoroso.
Che Sir Walker sia una persona diciamo CARATARISTICA lo dicono un po’ tutti e si può verificare anche piuttosto facilmente, ma (noi) gli si vuole un bene dell’anima. Molto curioso di vedere cosa verrà fuori da questi misteriosi nuovi membri Isen Torr, anche se avrei di più l’urgenza di vedere i Solstice finalmente live con questa formazione prima che cambi di nuovo AD ESEMPIO il cantante (chi sa, sa). Sto aspettando una mezza/promessa data italica primaverile, speriamo in bene.
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Ameelus, tu sai cose.
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Bella carrellata. Damageplan inaccettabili, e allora mi riascolto i Primal Fear, va.
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