Il disco dopo il quale il rock morì: QUEENS OF THE STONE AGE – Songs for the Deaf

Lorenzo Centini: Dopo Songs for the Deaf il rock’n’roll è definitivamente morto. Noi qui ancora a interrogarci su presente e futuro del metal e invece là fuori il rock, quello duro (ma un po’ meno), è un cadavere putrefatto da vent’anni esatti. E l’ultimo disco con attributi giganteschi e capacità di essere caldo, pericoloso, scalpitante e significativo l’ha tirato fuori Homme col terzo dei Queens of the Stone Age. Che viene fuori dopo due album ugualmente splendidi e diversissimi tra loro e da questo qui, che forse persino li supera. Poi i QOTSA per un paio di dischi avrebbero ancora viaggiato tra il molto ma molto buono e il decoroso. Dimentichiamoci di tutto il resto. La chiave è Homme, le sue abilità individuali e la sua capacità (oggi svanita) di attingere dalle personalità giuste per riuscire ad arrivare dove da solo non può. Nel gioco di rapina e riciclaggio delle Desert Sessions come nel tirare fuori una formazione da supergruppo leggendario ma improbabile. Con un Lanegan a metter il sigillo macabro quando serve, senza strafare. Con un Oliveri da sguinzagliare quando serve alzare il battito cardiaco, per poi richiamarlo a sé. Con un Grohl in vena di scrivere partiture di batteria spettacolari che fanno davvero la differenza tra questo disco e qualsiasi altro, ma niente duetto per acchiappare qualche fan dei Foo Fighters.
Una band così non poteva durare e infatti non durò. Come l’ispirazione e la sicurezza, mai più a questi livelli, del timoniere Homme. Che si diverte a tirare fuori uno o due singoli iconici da discoteca rock e affogarli in una tempesta di sole e sabbia rovente. Perché questo sarà pure il best seller che è ma è anche uno dei dischi stoner più grandiosi di sempre, zeppo di figure ritmiche, profumi psichedelici e sostanze narcotiche. Album durissimo e scuro molto più di quello che la gente ricorda, zompettando ai singoli di cui sopra. Ma l’assalto ritmico di Song for the Dead fa sempre un male cane e The Sky is Fallin’ subito dopo è la morfina ideale per riprendersi, o meglio perdersi.
Un disco incredibile, zeppo di brani killer e qualche filler, ma di quelli giusti. Tipo la cazzatina kinksiana di Another Love Song, che funziona nel concept radiofonico del disco e che, prima dell’abisso per basso e degli avvoltoi di Song for the Deaf, ha la funzione del bicchiere d’acqua gelido prima dell’espresso.
Disco incredibile, mi piace ripeterlo. Nella musica con le chitarre solo Kid A negli ultimi 20/22 anni ha avuto la stessa capacità di reinventare lo standard, alzare l’asticella, riciclare il riciclabile (il piano di Go With The Flow, ad esempio), misurare il divario con gli imitatori in affanno, farsi tabula rasa attorno e provocare proprio per questo il declino artistico dei suoi autori. Che a volare troppo vicino al sole si sa, fa caldo e ci si squaglia. Vabbè, se non siete d’accordo indicatemi un solo disco rock successivo che sia vagamente al livello di Songs…, non contando chiaramente il disco degli Unida affossato dal Nemico Rubin. Songs for the Deaf è uno dei dischi rock migliori di sempre, perché scritto suonato da chi il rock in quegli anni lo sapeva fare meglio di tutti.
El Greco: Riascoltare Songs For the Deaf è come rivedere quelle foto in cui il Real Madrid schiera in barriera Ronaldo, Zidane, Figo e Beckham. Ha un qualcosa di irreale e ti viene da chiedersi se sia mai realmente successo. Qui i campioni messi in campo rispondono al nome di Homme, Oliveri, Lanegan e Grohl; a ognuno di loro è assegnato un ruolo preciso e il risultato finale è frutto del contributo di ognuna delle singole pedine al gioco complessivo. Perché puoi anche essere un nostalgico del calcio antico, dei numeri da 1 a 11 e di 90° Minuto alle sei di pomeriggio ma di alcune cose è davvero difficile contestare la grandezza.
Come nel calcio, anche nel rock and roll la poesia si trova spesso nelle pieghe della sua ruvidezza e visceralità, caratteristiche che nei QOTSA del 2002 sono in parte affievolite, sebbene la genialità e la sostanziale perfezione siano pressoché incontestabili. I QOTSA completano la propria transizione da band in qualche maniera amatoriale (e quindi forse più reale) a entità compiuta e professionale. Volendo fare riferimento all’esordio di solo pochi anni prima, è più facile fare il conto delle differenze che delle somiglianze ma, alla fine, SFTD è un album perfetto, uno di quelli che nemmeno le bonus track o una durata al di sopra della generica soglia dell’attenzione riescono a rovinare.
Prima di acquistarlo avevo letto qualche recensione che ne parlava in maniera entusiasta e quindi mi aspettavo fosse bello sì, ma non così bello. Uno dei pochi dischi per cui le aspettative altissime vennero addirittura superate. Inevitabilmente non si sarebbero più riusciti a ripetere a questi livelli, ma questo è il prezzo implicito che chiunque crei qualcosa di così grande deve in qualche maniera mettere in conto. Questo però non cambia proprio niente, disco della vita era e tale resta.
L’Azzeccagarbugli: Ogni volta che ascolto Songs For The Deaf, soprattutto con il passare degli anni, sono “preda” di sensazioni contrastanti: da un lato c’è l’esaltazione per un disco praticamente perfetto che, pur non essendo -forse- il migliore del gruppo, riesce a gasarmi e a coinvolgermi come pochi altri, dall’altro un grande magone. Sia per la parabola inesorabilmente discendente che hanno avuto i Queens of the Stone Age (gli ultimi due album sono buoni, ma vogliamo davvero fare paragoni con i primi tre?), sia perché se penso che i singoli di Songs for the Deaf passavano regolarmente in heavy rotation anche alla Conad sotto casa e che all’epoca esistevano ancora delle vere reti televisive musicali, mi prende una tristezza tremenda.
Tanto premesso, Songs for the Deaf è il culmine dell’evoluzione dei Queens of the Stone Age verso composizioni più “convenzionali”. Virgolette d’obbligo, dato che parliamo di un lavoro che si apre con la tiratissima You Think I Aint’ Worth a Dollar, But I Feel Like a Millionaire, che contiene quella scheggia impazzita chiamata Six Shooter e che, in generale, presenta brani molto lunghi e molto pesanti. Ma rispetto al passato c’è una maggiore attenzione verso la forma canzone, i suoni sono più smussati e molto più curati, così come lo sono i video, su cui la band puntò molto, così come la scelta del primo singolo di No One Knows consentì di allargare enormemente e ulteriormente il proprio pubblico, proseguendo il percorso già intrapreso con Rated R. All’epoca ricordo che questo aspetto fece storcere il naso ai puristi e agli orfani dei Kyuss, ma al di là dei gusti personali, e se si eccettuano un paio di brani “poco meno che eccezionali”, il terzo disco dei QOTSA era e resta qualcosa di straordinario. Meno spontaneo dei predecessori, sicuramente, più studiato anche in considerazione del filo conduttore che lega i brani, ma i risultati sono davvero fuori dal normale.
Parliamo di un album che contiene First it Giveth, The Sky is Falling, Another Love Song, la titletrack o Song For The Dead, tra le migliori canzoni della band, impreziosita dalla più grande voce di tutti i tempi, entrato in formazione unitamente a Dave Grohl. A prescindere da quale si ritenga il migliore, i primi tre dischi dei QOTSA sono tre monumenti che rappresentano la migliore prosecuzione/mutazione possibile alla splendida avventura dei Kyuss. E Songs for the Deaf, per quanto mi riguarda, resta il miglior testamento possibile di Homme e soci e uno dei migliori album degli anni zero.
Non so, il fatto che i Kyuss siano così improponibilmemente grandiosi non mi fa apprezzare a pieno i Qotsa,come se mancasse sempre qualcosa alla band di Homme. Grand disco comunque.
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c’è del post in questa ragione
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Non è stata menzionata la hidden track Mosquito Song che probabilmente è il brano più grandioso della loro carriera.
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