Avere vent’anni: QUEENS OF THE STONE AGE – s/t

In un mondo in cui scrivere è più veloce che pensare, affermare qualcosa (qualsiasi cosa) con una certa risolutezza è divenuto il valore assoluto. La Cloaca Maxima trabocca dei giudizi lapidari tipici della nostra era ed – oltre che di ingegneri, economisti e costituzionalisti – il mondo abbonda pure di veri esperti musicali dal parere tagliente. Discografie eterogenee liquidate in 140 caratteri, intere carriere derubricate come superflue e legittime perplessità che diventano verità inconfutabili ad opera di gente per la quale la conta dei like è l’unico metro di giudizio del mondo. Così accade che, non troppo tempo fa, nel bel mezzo di una discussione online sui Kyuss si palesò il solito ‘capiscione’ che facendo sfoggio di una erudizione non indifferente spiegava ai noi poveracci incolti che il chitarrista dei suddetti avrebbe poi formato i Queens Of The Stone Age al solo scopo indegno di guadagnare denari. Il classico giudizio tranchant con il quale un presente artistico incerto finisce per cancellare un passato sicuro. Con la sintesi propria dei veri grandi e senza un briciolo di elaborazione il censore abbinava allo sprezzante giudizio morale anche quello qualitativo in un equazione che suonava più o meno come: Kyuss sta ad Arte come QOTSA sta a commercio.

Ora, al di là delle evidente iper-semplificazione, il mio problema con un’affermazione del genere non è certo che a qualcuno piaccia un gruppo più di un altro (i gusti son gusti, nel caso specifico poi ci può stare eccome), quanto invece che fosse stato tirato in ballo con tale leggerezza lo spauracchio dell’operazione fatta a puro scopo mercantile. A prescindere che non capisco cosa ci sia di così riprovevole da voler guadagnare dal proprio lavoro (voi rifiutate i soldi il 27 del mese?), il problema è che messa così pare che Josh Homme abbia smesso di suonare la chitarra per andare a fare i balletti nei Backstreet Boys in quanto ansioso di avere l’elicottero privato. In realtà le vicende che portarono il roscio di Palm Desert a smembrare un gruppo per formarne un alto furono un po’ più complesse. Come chiunque che al tempo avesse seguito un minimo le vicenda forse ricorderà, alla base dello split c’era la personalità ingombrante di Homme che già all’epoca pare fosse diventato fortemente accentratore (l’evoluzione del gruppo poi lo confermerà) dando il via a innumerevoli scazzi fra i vari personaggi coinvolti. Dal punto di vista contrattuale inoltre il passaggio da un colosso come la Elektra alla Loosegrove di Stone Gossard sa più di retrocessione in Serie B che di scaltra manovra finanziaria. Ma tutti questi elementi alla fine sono superflui, per comprendere come questa accusa del ‘commerciale’ sia una totale baggianata basterebbe infatti avere le orecchie.

In confronto ai QOTSA epoca 1998 sono i Kyuss ad essere il gruppo più vendibile: più classici nell’approccio, filiazione diretta dell’hard rock marca ‘70 (quello degli urlatori alla Plant), molteplici affinità non irrilevanti con la stagione dell’indie rock appena passata (Soundgarden su tutti). I loro album fin da Wretch possiedono dei grandi singoli fatti e finiti (Thong Song, Green Machine, Demon Cleaner), al confronto i QOTSA sono il cubo di Rubik: poco codificabili in termini di genere e zero o quasi canzoni radiofoniche. Homme e Hernandez (Oliveri compare nelle foto ma in realtà non suona su quest’album) seppelliscono l’approccio grande rock dei Kyuss e lo sciolgono in una prolungata e ripetitiva narcolessia, la mischiano al retrofuturismo e ad un’indolenza ispanica che rende il suono meno definito e incasellabile rispetto ad un filone preciso. Il cantato è sbilenco, cantilenante, a tratti poco intellegibile (del tutto opposto all’impeto di John Garcia). La semplificazione delle strutture, la ripetitività dei giri e la meccanicità delle sezione ritmica danno al complesso un registro differente anche qui per certi antitetico al dinamismo della band che aveva inciso Sky Valley. Il paragone e le similitudini che tutti cercano in realtà non ci sono. È un altro gruppo. QOTSA non è il seguito di nulla, è un nuovo inizio. Ed è un capolavoro.

La sua grandezza è racchiusa in pieghe melodiche inusuali ed esili che si contrappongono al suono di una chitarra rumorosissima. Fare un track-by-track sarebbe un esercizio inadeguato, qui sarebbe necessario un riff-by-riff per spiegare quello che succede. Perché QOTSA è un album di un chitarrismo sublime ma sobrio, del tutto scevro degli onanismi ai quali in genere associamo il termine. Josh Homme ha più che semplice stile, ha qualcosa a cui, per mancanza di termini, mi riferirò come ‘gusto’. Gusto sono i riff in continua evoluzione, le microvariazioni sul tema, il trovare la nota giusta ed il coraggio di ripeterla tutte le volte che sia necessario e forse un po’ oltre. È proprio questo suo indugiare e andare lungo che definisce il sound complessivo. I pezzi non si adeguano al canone ma impongono e plasmano il tempo obbligando l’ascoltatore ad un ascolto differente. You Would Know o You Can’t Quit Me Baby sono puro stordimento in stereofonia. Ad un certo punto inaspettato si intravede pure qualche barlume della gloria a venire, al minuto 2.10 di How To Handle A Rope (ma che pezzo è quello?) si intuisce il potenziale da classifica delle future superstar e si intravedono le folle saltellanti che li attenderanno in futuro. Ma dura solo un attimo, è la misura, è il gusto.

Il primo dei QOTSA possiede la caratteristica pressoché unica di andare a coprire quello spazio indefinibile tra la musica più propriamente pesante e l’indie rock. C’è una quantità di fuzz ed elettricità da cortocircuito ma il metallo in senso stretto è davvero distante. Non mi vengono in mente molti altri esempi assimilabili, ed in genere sono sempre più sbilanciati da una parte o dall’altra. Qui invece l’equilibrio è perfetto. La tripletta iniziale è una cosa che sembra finta (ve la ricordo: Regular John, Avon, If Only… maddai su), in mezzo si delira in preda alla febbre e poi arriva quella conclusione incredibile, I Was A Teenage Hand Model contiene un qualcosa di quella sensazione a metà tra spossatezza e abbandono tipica del sonno dopo il sesso. Poi, come in tutti i dischi che più adoriamo, c’è qualcosa di evocativo e indefinibile che resta inafferrabile perché probabilmente è tutto solo nella testa di chi ascolta, per me QOTSA è uno stato mentale, è l’ideale esotico di una vita solitaria. Ha il sapore e il colore di un’estate senza fine in posti caldi e selvaggi, è un paese in cui i rubinetti gocciolano incessantemente, un luogo dove non esiste l’aria condizionata e le pale del ventilatore girano lente sul soffitto. Non chiedetemi perché, non lo so. So solamente che fra tutti gli album dei quali ho abusato questo è forse quello che continuo ad ascoltare con più frequenza, conserva ancora la capacità di lasciarmi appeso ed interdetto, come se ci fosse un enigma da decifrare o un segreto che resta in attesa di essere svelato. (Stefano Greco)

 

2 commenti

  • “Ha il sapore e il colore di un’estate senza fine in posti caldi e selvaggi, è un paese in cui i rubinetti gocciolano incessantemente, un luogo dove non esiste l’aria condizionata e le pale del ventilatore girano lente sul soffitto”, direbbe Joe Lansdale. A causa di queste parole mi sento obbligato a riascoltarlo, perché è un disco che non ho mai approfondito del tutto (come molti altri, ho scoperto i QOTSA grazie ai singoloni del terzo disco e il viaggio in retrospettiva è stato più ostico del previsto).

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  • Wow…già 20 anni sono passati? Album fantastico!!

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