Bastava continuare a fare le cose per bene: QUEENS OF THE STONE AGE – Villains

Per chi scrive, Joshua Homme non è un musicista qualunque.

Ha spaccato due paia di casse nella mia vecchia Opel Corsa e un incidente simile non mi era mai capitato in nessun’altra automobile, tranne che ascoltando l’omonimo album dei Kyuss in quelle due distinte occasioni. Avrei dovuto essere un minimo incazzato per essere finito dall’elettrauto due volte con una trasandata automobile del 1993, ma ricordo che la presi con filosofia. Mi ero pur sempre goduto uno dei gruppi rock più pesanti di tutti i tempi ai volumi a cui meritavano di essere riprodotti. I Queens Of The Stone Age sono invece un mio cruccio personale praticamente da quando si sono formati. Da una parte ho adorato in maniera incondizionata i primi tre lavori, pur osservandoli con occhio piuttosto critico; dall’altra l’ego gigantesco di Joshua (evidente dai remoti tempi di And The Circus Leaves Town) ha fatto sì che da Lullabies To Paralize in poi non riuscissi più a prendere una chiara posizione nei confronti di niente di quello che hanno tirato fuori. Hanno sempre cercato -per come la vedevo- di muovere qualche pedina di troppo al fine di sorprendere e affermarsi fra i mostri sacri del rock’n’roll attuale; non importava, perché lo erano già e bastava continuare a fare le cose per bene.

Principalmente le cose hanno iniziato a scricchiolare per colpa di una band che all’atto pratico non esisteva: troppe guest e collaborazioni, spesso in parallelo con le Desert Sessions e altrettanto spesso messe in vetrina, a oscurare la loro reale line-up. Perché diciamocelo, tolto il reduce Nick Oliveri non c’è mai stato nessuno capace di reggere il confronto con i frequenti part-time di lusso Grohl e Lanegan. Quella di Songs For The Deaf era grazie a loro la formazione definitiva, e solo con quella il gruppo costruì il proprio capolavoro. Ma era ovvio che trattenere dietro alla batteria il leader degli attivissimi Foo Fighters o l’Antonio Cassano dei bassisti non fosse cosa da poco, soprattutto al cospetto di un totem carismatico come Homme. Così i modesti interpreti degli album a partire da Lullabies To Paralize hanno messo in luce i Queens Of The Stone Age come la band in cui spiccava una sola figura, maniera in cui …Like Clockwork è risultato in tempi più recenti il full length più apprezzato all’unanime, forte soprattutto del (non) ritorno di Grohl e dei soliti, roboanti nomi di contorno. Come Elton John e Trent Reznor.

È bene invece che Homme inizi a porre la questione come un lavoro collettivo a tutti gli effetti, e sembra ci stia almeno provando. Gli manca di sicuro qualcuno coi controcoglioni affianco, e stavolta il ruolo di comprimario di lusso, anziché a Lanegan o altri, è stato affidato probabilmente ad un produttore di spicco. Villains è toccato appunto a Mark Ronson, nome decisamente attivo in ambito pop e celebre per avere lavorato con un sacco di gente ancora più celebre. Come Lady Gaga, i Duran Duran, Amy Winehouse e pure quei ruffiani dei Kaiser Chiefs. E perché ho nominato proprio questi ultimi? Per il fatto che Homme fino al 2003 era risaputo attingesse dalle Desert Sessions per trarre ispirazione, se non proprio brani in forma embrionale, per il suo gruppo principale. Poi hanno parlato i nuovi side-project, togliendogli pure un sacco tempo – vedi i sei anni di silenzio in seguito ad Era Vulgaris. Sono entrati in gioco gli interessanti Them Crooked Vultures e gli Eagles Of Death Metal, e l’occhio del rossocrinito chitarrista californiano si è oggi spostato -in casa madre- dalle parti di quel rock da radio FM tanto in voga nello scorso decennio. Appunto quello di Kaiser Chiefs, Franz Ferdinand, The Strokes ed Arctic Monkeys. È innegabile che queste band siano servite a Homme a plasmare cose come Smooth Sailing, uno dei punti di forza assoluti del penultimo disco.

I Queens Of The Stone Age post-Deaf sono innegabilmente più morbidi, e cavalcano lungo due linee rette, una delle quali è quella introspettiva e cupa tracciata inizialmente da Lullabies To Paralize, l’altra quella di un musicista che, superati i quaranta, vuole il singolo da classifica che vi sorbite al semaforo o in coda sul Ponte all’Indiano, e che le figliole con addosso le Converse in edizione limitata da 150 euro cantano a memoria, ignorando completamente chi siano i Def Leppard o i The Who. Metà Villains è indirizzato a quel tipo di pubblico, non a voi di Better Living Through Chemistry. Il nuovo disco non ha -per fortuna- i suoni impastati e confusi di …Like Clockwork, anzi il lavoro di Ronson è apprezzabile, fatta eccezione per una post-produzione eccessiva sulla batteria, compressa e scarsamente incisiva. Ma sono evidenti le intenzioni di fondo: un rock che concettualmente spazia fra i ’60s e i ’70s, corretto e modernizzato, per poi lasciare spazio alla linea di Lullabies To Paralize. Homme canta vagamente rockabilly, poi passa ad un rock retrò (Cream e Led Zeppelin) che farà la fortuna del brano migliore del lotto, The Evil Has Landed, senza trascurare i singoli di sicura riuscita – ruolo affidato alle primissime due canzoni. Hideaway è la nuova I Appear Missing spogliata di tutta la sua oscurità, Domesticated Animals l’altro episodio in cui il gruppo che ha realizzato …Like Clockwork appare maggiormente riconoscibile. Head Like A Haunted House il momento in cui, primi singoli a parte, l’influenza delle sopraccitate band da ora di punta su Virgin Radio prende maggiormente il sopravvento, rendendo i ritmi più che ballabili. Chi aveva sbottato su I Sat By The Ocean ritenendola leggerina e ruffiana qua troverà materiale per andare oltre.

Le cose appaiono tuttavia più ordinate e coese che nel 2013, dove lo stile in generale risultava troppo eterogeneo e confusionario, nonostante i piacevoli richiami agli anni ottanta e un uso particolareggiato dell’elettronica. Non ci sono evidenti filler ma neanche picchi compositivi di chissà quale livello: Fortress e l’ultimo brano, insieme a Un-Reborn Again addormentano un po’ i ritmi ma complessivamente Villains risulta un po’ più vivace di …Like Clockwork. È la mancanza di un Grohl o un Lanegan, nonché di canzoni totali, a ferire. La speranza è che Homme riesca col tempo a trovare dei compagni con maggiore personalità -solo Dean Fertita si rende qui autore di una discreta prova individuale- e che alcuni elementi dei vecchi Queens Of The Stone Age tornino alla memoria del loro leader; perché ammettiamolo, questo Villains è un altro album non brutto in cui Josh ha avuto l’intelligenza di non cedere alla tentazione di includere tredici o quattordici tracce, esperimento già riuscito in Clockwork che ne contava dieci. Ma sono nove brani mediamente accettabili dove la grinta, la pesantezza, la distorsione e tutte quelle caratteristiche che avevano reso i Queens Of The Stone Age una band accattivante e al passo con i tempi, latitano in maniera netta. Probabilmente non inferiore ad Era Vulgaris, ma un passo indietro rispetto al rock maturo, meno arzillo ma più efficiente sentito quattro anni fa.

Solitamente un compositore si afferma con qualcosa che diviene il suo marchio di fabbrica, evolvendolo poi verso altre direzioni; spesso, per ragioni di vario tipo, avviene in un secondo momento un ritorno perlomeno parziale alle origini. Personalmente non ho niente contro l’evoluzione sonora delle band, anzi ben venga. Altrimenti non sarei mai diventato fan dei Queens Of The Stone Age e starei invocando ad oltranza la reunion. Ma a Josh Homme -musicista non comune- riescono meglio altre cose, fra cui mandare la gente dall’elettrauto e infarcire gli album di hit pazzesche che qua, a mio avviso, mancano del tutto. (Marco Belardi)

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