Recuperone grim 2018: COR SCORPII, SOJOURNER, FUNERAL MIST, VALKYRJA

Come accade ormai ogni anno, ci riduciamo all’ultimo momento per parlare di alcuni dischi usciti nei mesi scorsi e di cui, per i più vari motivi, non siamo riusciti ad occuparci. Sarebbe stato un crimine, ad esempio, non spendere qualche riga sul ritorno in grandissimo stile dei COR SCORPII, un nome che si pensava ormai perso nel triste dimenticatoio dei gruppi on hold e che invece, a dieci anni esatti dal primo e finora unico disco, è tornato con il bellissimo Ruin, che riparte esattamente da dove finiva Monument. I Cor Scorpii non sono altro che un gruppo formato dagli ex membri dei Windir, o quantomeno quelli che non sono finiti nei Vreid, e che riprende lo spirito e le atmosfere della vecchia band di Valfar in chiave un po’ meno vichinga. Ruin riesce nell’impresa, pur non inventando assolutamente nulla, di risultare molto fresco: prendiamo ad esempio Ri di Mare, in cui accelerazioni in stile vecchi Borknagar si alternano a splendide melodie di chitarra con un tappeto di tastiere che dà corpo ed epicità al tutto. Altrove, come in Skuggevandrar, si alternano suggestioni fortemente viking black metal a partiture quasi avantgarde, con duetti a distanza tra cori baritonali e pianoforte. Una bellissima sorpresa da parte di un gruppo della cui esistenza, suppongo, ci si era totalmente dimenticati.

Dei SOJOURNER abbiamo parlato in occasione della loro esibizione all’ultimo Black Winter Fest, in cui non si sono mostrati all’altezza di quanto sentito su disco. Per l’appunto, al contrario, The Shadowed Road è un pregevolissimo album che mantiene alti gli standard già sentiti nel precedente Empires of Ash di un paio d’anni fa. Non è semplice descrivere lo stile dei Sojourner, perché, se da un lato è evidente l’ispirazione delle ambientazioni oniriche e rarefatte degli ultimi Summoning, dall’altro la band mantiene un’identità più marcatamente black metal, con una struttura compositiva che, in questo disco, si fa più solida. La doppia voce maschile/femminile, che dal vivo non riesce a convincere, qui invece riesce a dipingere scenari talvolta epici e maestosi, talvolta sognanti e dimessi. In questo senso ha un ruolo centrale la voce della scozzese Chloe Bray, che con le sue vibrazioni celtiche rappresenta il trait d’union con le fascinazioni blackgaze. Sebbene all’inizio l’avessi considerato inferiore al debutto, in realtà The Shadowed Road è il classico album che cresce enormemente con gli ascolti, e mi sento di consigliarlo a chiunque subisca il fascino di certe atmosfere. 

Voi pensavate che noi ci si fosse dimenticati del ritorno dei FUNERAL MIST, e invece. In principio avevo intenzione di scrivere una doppia insieme all’ultimo dei Marduk, essendo i due album usciti insieme, poi però mi ha preso bene il parallelismo con gli Afrikakorps e quindi Hekatomb è rimasto nel cassetto. Funeral Mist, come molti sapranno, è un progetto tenuto insieme dal solo Mortuus (che qui si fa chiamare Arioch), ben prima che andasse a cantare insieme ai Marduk. Finora, oltre all’EP di debutto Devilry, a nome Funeral Mist erano usciti soltanto Salvation del 2003 e Maranatha del 2008, tanto che si pensava che la band fosse stata accantonata definitivamente per gli impegni di Mortuus coi Marduk. Invece Hekatomb riporta i Funeral Mist nei territori da sempre battuti: black metal acido e molto aggressivo, con suoni tendenzialmente industrial, voci filtrate, ipersaturazioni, cazzeggi elettronici eccetera. Il loro vero capolavoro rimane Salvation, che fu effettivamente una ventata d’aria fresca in quel lontano 2003; Hekatomb, al contrario, tende a rivoltarsi un po’ su sé stesso riproponendo quelle antiche soluzioni senza quasi mai dare l’impressione di arrivare al punto. Considerato che Mortuus ha avuto nove anni di tempo per comporlo, la cosa stupisce, perché molti passaggi sembrano un po’ tirati via in cinque minuti. Capisco che questo non sia proprio il mio sottogenere preferito di black metal, ma ai tempi adorai Salvation, e mi sarei aspettato qualcosa in più.

Due parole anche per Throne Ablaze dei VALKYRJA, a cinque anni da quel The Antagonist’s Fire che fece tanto parlare di sé, nel bene e nel male. Le due caratteristiche principali che rendono i Valkyrja del 2018 un gruppo diverso rispetto al passato sono il passaggio del chitarrista Simon Wizen alla voce, al posto del cantante storico, e un relativo cambio di stile: dall’essere un gruppo fortemente devoto ai Watain all’avvicinamento alla più generica tradizione estrema svedese. Ciò vuol dire più melodia, parti più ritmate e meno oscure, più pompa, scapocciamenti e tupatupa. Insomma, più Necrophobic e Dissection che Watain, a ‘sto giro. Il risultato è sinceramente molto gradevole: smessi i panni degli pseudo-blackster stupramadonne, Throne Ablaze è il disco dei Valkyrja che più si addice all’ascolto estemporaneo, tanto che anche sparato in macchina fa la sua figura. Un cambio di rotta che dal vivo ha dato i suoi frutti; e ora speriamo che continuino su questa meno velleitaria e più fruttuosa strada. (barg)

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