Clisson Rock City: le pagelle dell’Hellfest 2016
NASHVILLE PUSSY – voto 7. La collaudata formula tette – whiskey – rock ‘n’ roll conserva inalterata la sua carica rigenerante, nonostante le dimensioni del Main Stage e l’orario più consono a una siesta che a una sbornia. Ogni volta che vedo all’opera Ruyter Suys, mi chiedo come abbia fatto a sposare quel caprone di Blaine Cartwright invece di qualcuno che avrebbe potuto renderla davvero felice. Tipo me. MAI ‘NA GIOIA
RAMESSES – voto 6. I suoni inizialmente li penalizzano, ma col passare del tempo lo show guadagna tiro e spessore. A metà concerto inizia tra noi un interessante dibattito sul motivo per cui Mark Greening riesca a farsi sistematicamente cacciare dai gruppi di cui fa parte: io sostengo che sia colpa delle sue poco velate simpatie nazionalsocialiste, mentre per El Greco semplicemente “nun sa suonà”. Concludono in crescendo, non tanto però da dissipare tutti i dubbi. MEH
TURBONEGRO – voto 9. Memore dello straordinario show all’Hellfest 2014, sono quasi tentato di non rovinare quel ricordo e optare per gli Earth, che suonano contemporaneamente nel punto opposto del festival. Alla fine però, come in un libro di Moccia, seguo il cuore e faccio la scelta giusta. Dopo ogni loro concerto mi sento una persona migliore, il che vi autorizza a schiaffeggiarmi la prossima volta che dovesse venirmi il dubbio se vederli o meno. SCUSA MA TI CHIAMO PAMPARIUS
MELVINS – voto 8. Si presentano in tre, con Steve McDonald (già membro dei Redd Kross e degli Off!) al basso oltre ai sempiterni King Buzzo e Dale Crover, e asfaltano senza pietà la superficie lussureggiante del Valley, il palco dedicato alle sonorità più psichedeliche. Prestazione sontuosa, maestosa, furiosa. All’uscita abbiamo tutti i capelli come Osborne. PERMANENTE
DROPKICK MURPHYS – voto 7,5. Con loro ho un conto in sospeso, ma bastano i primi accenni di The Foggy Dew per scacciare i fantasmi del passato e scatenare l’indipendentista irlandese ch’entro mi rugge. Si balla, si beve, si canta, si insulta l’odiata regina inglese. Chiudono con la hit I’m Shipping Up to Boston e io corro a compilare il modulo di iscrizione all’IRA. TIOCFAIDH ÁR LÁ
RAMMSTEIN – voto 8,5. Dal punto di vista scenico, il circo post-apocalittico dei crucchi non ha eguali e rimane tra le esperienze sensorialmente più appaganti che si possano provare in ambito concertistico. Fiamme, esplosioni, effetti mirabolanti: è tutto eccessivo, è tutto bellissimo. DEUTSCHLAND ÜBER ALLES
THE OFFSPRING – voto 7. Mentre imbracciano gli strumenti, io sono ancora appoggiato al bancone del bar di fronte al palco e bastano tre note per far sculettare l’amabile signorina che mi sta servendo una birra. Appaiono imbolsiti, stonati, a tratti fuori luogo, ma tirano fuori una scaletta che è un best of dell’adolescenza di ognuno di noi. In fin dei conti, va benissimo così. LA FESTA DELLE MEDIE
SICK OF IT ALL – voto 8. Sono in giro dal 1986 ma la carica del loro hardcore muscolare non accenna a diminuire e viene anzi amplificata dall’imponenza del Main Stage, scatenando il più grande wall of death in cui sia mai stato tirato dentro. E dire che mi ero pure sistemato all’altezza del mixer per godermi in santa pace l’altrui mattanza. Povero illuso. TRENTA SUL CAMPO
GREG ANDERSON – voto 8,5. Prima dilania stuoli di padiglioni auricolari con i Sunn O))), poi non contento dismette la tonaca e finisce il lavoro con i Goatsnake. Classe infinita, ghigno malefico e tocco luciferino: il titolo di MVP di questa edizione è tutto suo. MAN OF THE MATCH
BAD RELIGION – voto 9. Hanno i pezzi, hanno la cazzimma, hanno un pubblico che alla prima nota va completamente fuori di capoccia. Sulla mia testa vola di tutto: fanciulle mezze ignude, canotti, mitologiche creature metà umane e metà equine. Probabilmente lo show più divertente dell’intero festival. PIOVONO PULZELLE
HERMANO – voto 8,5. Non suonano insieme da così tanto tempo che John Garcia ricorda a malapena le parole delle canzoni ed è costretto a sbirciarle da alcuni fogli sapientemente nascosti tra gli amplificatori. Eppure erigono un muro di suono colossale, riversando sul suolo francese tonnellate di riff e sabbia desertica. A conti fatti, la vera sorpresa dell’Hellfest 2016. WELCOME TO LOIRE VALLEY
TWISTED SISTER – voto 9. Ultimo tango a Clisson per Dee Snider e soci. La commozione è palpabile fin dall’intro di bonscottiana memoria ed esplode nell’immortale refrain di We’re Not Gonna Take It, scandito a oltranza dalla folla, per poi raggiungere il suo apice con il sincero e straziante omaggio ai Motörhead e al loro leader: Phil Campbell si unisce alla band per una versione di Born To Raise Hell tutta lacrime e orgoglio metallaro. Lassù Lemmy avrà sorriso compiaciuto. LEGGENDE
KORN – voto 6,5. Tornano all’Hellfest per la terza volta in quattro anni e fanno la solita discreta figura. Mi ritrovo persino a saltellare su qualche pezzo, come se avessi ancora i capelli lunghi e la tuta di acetato dell’Adidas. Quando però noto che nelle pause Jonathan Davis si attacca a un respiratore per recuperare ossigeno, ogni mio ardore giovanilista scema inesorabilmente. AVERE TRENT’ANNI
UNSANE – voto 7,5. Nel generale mood di euforia festivaliera, Chris Spencer & Co. ci ricordano che va bene sorridere e gioire ma non bisogna mai dimenticare che prima o poi tutti dobbiamo morire. SEVERI MA GIUSTI
GOJIRA – voto 8. Giocano in casa, il che non è di per sé un vantaggio (ogni riferimento calcistico è puramente voluto) ma nel loro caso significa trovarsi di fronte un pubblico degno di un headliner. Rispondono al calore della folla con uno show impressionante per compattezza e impatto. Il futuro del metal passa da qui. THE NEXT BIG THING
BLIND GUARDIAN – voto 7,5. Il mio amico Michele mi osserva divertito mentre canto a squarciagola ogni singola parola di ogni singola canzone, insieme a pochi altri seguaci dei Bardi. La brevità del set esalta l’ugola di Hansi, che sulla media distanza riesce a condensare gli sforzi e dare il meglio di sé. L’accoppiata finale The Bard’s Song – Mirror Mirror si conferma un colpo basso per noi profughi della Terra di Mezzo. PIEZZ’ ‘E CORE
SLAYER – voto 7. Suonano a volumi da arresto, ma questo non basta a rendere accettabili in sede live i brani tratti da Repentless. Per fortuna il resto della scaletta rialza l’asticella della malvagità e genera il consueto carnevale di nasi rotti, schizzi di sangue e pogo furioso. MACELLAI
AMON AMARTH – voto 6,5. Li guardo da lontano, trangugiando carne di dubbia provenienza e bevendo birra fresca. Fanno quasi tenerezza, così corpulenti e barbuti intorno al drakkar sputafuoco che occupa gran parte del palco. Mi danno l’impressione di crederci un sacco, quindi non esito a brindare alla loro salute ogniqualvolta lo smilzo Johan Hegg solleva al cielo il suo corno potorio. DESTINAZIONE VALHALLA
JANE’S ADDICTION – voto 8. Dave Navarro pare uscito da una cover band dei Mötley Crüe, mentre Perry Farrell sembra sul punto di concludere la sua trasformazione in Mika. Però lo show funziona alla grande, vuoi per le graziose signorine che a turno si strusciano addosso ai vari componenti della band, vuoi per una setlist che pesca a piene mani dal capolavoro Ritual De Lo Habitual. Su Ted, Just Admit It… due donzelle iniziano a volteggiare sul palco sorrette da cavi: quando realizzo che quei cavi sono fissati direttamente nella loro pelle, il concerto è già bello che finito. DISTURBANTI
BLACK SABBATH – voto 10. Qualunque superlativo assoluto ne sminuirebbe la portata. Ozzy è in una forma strepitosa, regge botta per tutta la durata del concerto alla faccia delle maledizioni di Sharon. Geezer (mal)tratta il suo basso come se fosse un avventore molesto del Corkscrew Saloon di Furnace Creek. E poi c’è lui, Tony Iommi, più simile a un dio che a un uomo: quando attacca il riff di After Forever, il mio pezzo preferito di sempre, mi rendo conto di non avere abbastanza lacrime. I Black Sabbath sono la cosa migliore capitata all’umanità dai tempi dell’invenzione della birra. TITANI
REFUSED – voto 9. Al netto di una reunion chiacchierata, di un nuovo album mediocre e di critiche più o meno fondate alla loro (in)transigenza, rimangono tra le migliori live band del pianeta. Chiudono l’Hellfest 2016 con uno show selvaggio, furioso e in certi momenti del tutto fuori controllo. Sotto al palco si scatena il panico, e il naufragar m’è dolce in questo carnaio. RATHER BE ALIVE
IL FESTIVAL – voto 9. Poche storie: l’Hellfest è il miglior open air festival del mondo. Nonostante il numero di edizioni superi ormai la decina e la mole di spettatori sia in costante aumento, gli organizzatori continuano nell’impresa di preservare il fascino di un evento creato dai fan per i fan. Estrema varietà della line-up, equilibratamente suddivisa tra mainstream e underground, struttura organizzativa lontana anni luce dagli standard nostrani, clima festaiolo ma non troppo: i cugini d’Oltralpe potranno pure perdere all’ultimo minuto il campionato europeo di calcio, ma il campionato europeo del metallo se lo aggiudicano senza problemi con larghissimo anticipo. À BIENTÔT
Non sono stato all’Hellfest ma le pagelle del Claudio Zuliani del metallo sono un ottimo palliativo.MENO MALE CHE ENRICO C’È
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