CARCASS – Surgical Steel
Fabrizio “Doom” Socci – Anche se la questione Carcass ricorda quella del ritorno dei Black Sabbath (con le dovute differenze e proporzioni), non riesco ad essere soddisfatto come vorrei di Surgical Steel. Sembra ieri ma son passati 17 anni da quando lessi del loro scioglimento da Luca Signorelli, tra i pochissimi critici dell’epoca ad aver trattato SwanSong per l’ottimo disco che era. Col senno del poi, uno dei lavori più coraggiosi della storia del metal persino per il 1996, anno di sperimentazioni di ogni tipo. Ora, credo che nessuno credesse realmente che Walker e compagnia potessero tirar fuori qualcosa che avrebbe fatto cadere nel dimenticatoio brani come Heartwork o Corporal Jigsore Quandary ma dai Carcass, a ben vedere, mi sarei aspettato di più che un disco tre quarti Heartwork e un quarto Necroticism, anche se discreto. Essere tornati e aver dimostrato di essere ancora in grado di mettere in riga i propri epigoni è encomiabile, ma mentre questo va benissimo dai Black Sabbath (diciamolo, anche per l’età), forse per i Carcass mi basta, sì, ma niente di più. In fondo, qui dentro non c’è nulla, a mio modesto parere, che valga una Keep on rotting in the free world; avrei, al limite, accettato persino un disco che mescolasse gli ultimi tre lavori, almeno sarebbe stato – tirato per i capelli, ma lo sarebbe stato – qualcosa di non già sentito. Una retromarcia così sfacciata la posso accettare, capire, perfino apprezzare (Captive Bolt Pistol, ad esempio, è un pezzo tra i recenti migliori del genere), ma – forse qui sta il punto – mentre i Black Sabbath comunque hanno confermato loro stessi, i Carcass hanno invece cambiato la loro anima da gruppo in eterna evoluzione a band di genere. Ripeto un concetto: il disco non è formalmente male, ma vedere questi inglesi ripetere loro stessi, quando persino con i Blackstar (riscoprite quel disco, l’ultimo vero capolavoro di Jeff) guardavano avanti, significa che siamo al paradosso finale: copiando loro stessi, si sono persi.
Gianni Pini – L’odore di rancido e l’alone di morte, l’incubo alienante di liriche prese di peso dall’Anatomia del Gray. L’orrore, avrebbe scritto di loro Joseph Conrad, se solo avesse avuto la possibilità di ascoltare Reek of Putrefaction e Symphonies of Sickness. All’inizio Necroticism mi piacque più di tutto il resto, se non altro l’inenarrabile violenza dei primordi si stemperava in favore di una materia sonora quasi umana, assumendo una forma comprensibile anche per chi non ha passato l’adolescenza a trovare le differenze tra i centottanta split degli Extreme Noise Terror. Heartwork decretò il successo planetario, fissando un nuovo canone per i lustri a venire, il verbo di Steer & soci si tinge di giallo e blu: la musica dei Carcass è finalmente in grado di parlare alle masse. I testi sono Oltre-Vltra, un misto di cinico sarcasmo e gelida ironia, non risparmiano niente e nessuno. L’opera è monumentale e inarrivabile, Swansong – per forza di cose – ne paga le conseguenze. In compenso Walker rincara la dose di spietatezza: per molti rappresenta la caduta, in realtà è un formidabile colpo di reni, uno scatto di orgoglio da chi la storia del metal estremo l’ha già scritta con ben quattro capolavori, una prerogativa tanto unica quanto rara.
Un salto nel passato, 1985 potrebbe tranquillamente aprire un disco dei Samson e invece schiude la cripta di Thrasher’s Abbatoir, seguita a ruota da nove gemme che farebbero tornare a scapocciare pure il più imborghesito dei metallari. Le velocità folli ed il rantolo inconfondibile di Walker contrastano con le chitarre nitidissime di Steer, esaltate da una produzione brillante e cristallina, che nel bene o nel male rende il lavoro ancora più accessibile e – attenzione – cantabile. Non è randomica la scelta del sottoscritto di eleggere The Granulating Dark Satanic Mills tormentone dell’estate, non è un caso se, dopo aver ascoltato la conclusiva Mount of Execution, ho eseguito dei canti e delle danze per ringraziare l’Altissimo di questo dono. In ogni caso, il primo impatto è devastante e lascia un po’ attoniti, per questo devo avvertirvi che sicuramente il disco richiede tempo per essere assimilato in maniera decorosa, onde evitare quell’effetto di fillerismo con cui abbiamo imparato a convivere negli ultimi anni. Potrei trascorrere ore a parlarvi del disumano lavoro di batteria di Wilding che, rispettoso del passato, ha pur saputo ritagliarsi uno spazio proprio, senza la pretesa di scimmiottare l’immortale Ken Owen. Potrei dilungarmi fino a domattina nel tentativo di spiegarvi che Surgical Steel è l’unico album che i Carcass potevano (e dovevano) permettersi di scrivere nel 2013, che tutto sommato quella della band di Liverpool è una delle reunion meno infami degli ultimi cinque anni, che questo è l’anello mancante tra Heartwork e Swansong, ma sprecherei il mio tempo, e voi il vostro. La verità è che Surgical Steel è un disco nostalgico, e nel ridefinire il concetto stesso di nostalgia, ti prende a schiaffi senza ritegno, peraltro facendoti credere il contrario. Sicuramente trasuda onestà incondizionata, anche se è un roba vecchia, scritta da vecchi, per un pubblico giovane. Se lo si ascolta con la coscienza pulita, consci degli ovvi limiti, Surgical Steel può anche stupire. Se ci pensate bene, una gran cosa di questi tempi.
Ciccio Russo – Ad ammettere quanto mi piacesse ‘sto disco ci ho messo parecchio. Un po’ come con quelle ragazze delle quali, anche dopo mesi che ci uscite insieme, continuate a raccontare agli amici con spavalda sufficienza che scopate e basta e anzi vi siete pure un po’ rotti, ma poi, alla prima litigata seria dove minaccia di piantarvi, vi rendete conto di essere cotti come boeuf bourguignon. Un processo di elaborazione simile a quello avvenuto con 13. Razionalmente, mi rendo conto da subito che era impossibile aspettarsi di meglio. La mia testaccia bacata di fan, di contro, si fa mille pippe mentali: ma con questa produzione finiscono per somigliare ai loro epigoni; ma sarebbe stata più coraggiosa una prosecuzione delle sperimentazioni di Swansong; ma questo era un gruppo che aveva creato qualcosa di nuovo con ogni disco. Pippe mentali, appunto. I Carcass, esattamente come i Black Sabbath, hanno innovato la scena e influenzato le generazioni successive in modo così radicale e profondo che un ritorno ammantato di classicità era l’unico sviluppo plausibile di una reunion. Era perciò inevitabile che il discorso ripartisse da Heartwork. Jeff Walker ha spiegato in un’intervista che avevano registrato alcune canzoni sullo stile di Swansong ma le avevano archiviate perché non c’entravano nulla con le altre. Nella speranza che queste ultime finiscano prima o poi in un ep, anche questa era la sola scelta possibile. L’obiettivo che si erano prefissati Walker e Steer è evidente sin dal titolo: scrivere un disco realmente chirurgico nell’impressionante coerenza interna e nella maniacale cura dei dettagli, tanto da apparire, a un primo impatto, meno appassionante e inventivo di quanto non si riveli con l’accumularsi degli ascolti. Da questo punto di vista, i suoni pulitissimi sono perfettamente al servizio di brani che sono lame fredde e affilate dalle quali vi renderete conto di essere stati colpiti solo quando sarete ormai spacciati. Così come è stato azzeccatissimo il reclutamento dell’ottimo Daniel Wilding, un batterista che vanta nel suo pedigree formazioni di chiara ascendenza carcassiana (Aborted e Heaven Shall Burn) e il cui stile, preciso e mai invadente, è l’ideale per un album che per essere davvero capito e apprezzato va approcciato con la stessa razionalità con cui è stato concepito. Surgical Steel è come una Guinness spillata a regola d’arte. Scende così bene che sembra quasi innocua. E allora te ne bevi due, tre, dieci. Finché non soccombi, ubriacato dall’ineffabile coscienza dei propri mezzi sfoderata dai Carcass con la disarmante naturalezza dei veri fuoriclasse.
Nunzio Lamonaca – Sapete cosa? Qua non si tratta di stare dalla parte degli eterni maestri o della vecchia scuola, andrebbe fatto proprio un discorso a parte sulla classe innata della band, aldilà della doverosa contrazione di un album come Surgical Steel entro gli schemi del metal odierno. Potrei dirvi che non ha senso tornare indietro di un disco per imboccare una strada, quella tracciata da Heartwork, che di fatto ha costituito una scuola per le future generazioni di band melodiche, ma il gioco non reggerebbe comunque di fronte a quello che è e resta un disco di incredibile snellezza, in cui l’impasto sonoro non può che dipendere da tutto quello che i Carcass sono stati nel loro complesso. Come se fossero tornati un tantino indietro nel tempo per lanciarsi in avanti cercando di recuperare il tempo perduto, e tutto questo senza mai perdere quell’identità eternamente grind pure se con quei duelli chitarristici dovessero coverizzare Bach. Provate a prendere l’intermezzo up tempo di Thrasher’s Abattoir, per esempio. Non bastano equalizzazioni limpide, suoni scintillanti, sferragliamento compatto per coprire lo storico e nodoso impasto musicale della carcassa, e in quel pezzo più che ad Heartwork pare addirittura di tornare ad una delle complesse e intrippanti fughe di Necroticism. Lo stesso dicasi per pezzi come Unfit For Human Consumption o Noncompliance To blablabla, che più che autocitarsi (qualcosina mi riporta a Incarnated Solvent Abuse) paiono recuperare il terreno di quel groove coinvolgente e assassino di Necroticism e portarlo magari alla disinvoltura dei nostri giorni.
Nel merito delle scelte compositive, il passo indietro rispetto a Swansong (disco più che buono etc.) pare essere comunque piuttosto evidente, qualcosa che grida manifestamente la volontà di cristallizzare un genere che poi genere non era, e di spararcelo ad anni di distanza con tutto quello che questa rottura del continuum spazio-temporale può comportare. Detto ciò, mettiamo pure che finisca nella top dei dischi più belli del 2013, sarebbe comunque uno strappo alla regola. Se non altro perché, pur con l’eccezione di qualche evidente riempitivo, la band sa ancora tirare ganci con la ferocia e – appunto – la classe di un tempo, come un boxeur magari fuori tempo massimo ma che ancora mostra un formidabile gioco di gambe.
Fuori da tutte le polemiche del caso, la parola d’ordine del disco pare essere leggerezza. E’ incredibile l’easy listening di Surgical Steel. Non dico di esaltarvici troppo ma potreste regalarlo al nipote adolescente che ha appena cominciato col metal.
Sei politico, che sennò devo andare al militare.
Luca Bonetta – Non credo ci sia bisogno di ribadire quello che sto per dire ma si sa, ripetere non fa mai male, tranne quando sei un condannato a morte per fucilazione ma quello è un altro contesto. Surgical Steel NON È Reek Of Putrefaction come non è Necroticism. È, come in molti, me compreso, avevano pronosticato, il successore spirituale di Heartwork, punto. Detto questo, chi spara a zero sul sopraccitato disco non risparmierà nemmeno questo ed è un peccato; perché Surgical Steel è un discone: compatto, ben pensato e ben ragionato, prodotto da una band che tutto sommato è invecchiata bene, pur avendo dovuto affrontare periodi non esattamente rosei. Definirlo come successore di Heartwork non significa assolutamente che avrà lo stesso peso nella storia del metal; dubito che Surgical Steel diventerà d’esempio per trilioni di band scandinave che penseranno di aver inventato il melodic death metal partendo dai Carcass. Quei tempi sono morti e sepolti, ora stiamo molto peggio, tuttavia sputare su un ritorno in pista di livello così qualitativamente alto sarebbe un crimine imperdonabile e, anzi, vedere che anche la band di Walker e co. è ancora in gioco e ha le palle per restarci mi riaccende nel cuore quella piccola speranza che forse il metal non è condannato a spegnersi malamente sotto l’egida di gruppacci inutili che spacciano per originali anche i rigurgiti della suocera. Mi rendo conto solo ora di non aver detto praticamente un cazzo del disco ma quando uno vi dice che Surgical Steel è la progenie diretta di Heartwork non dovrebbe nemmeno essere necessario parlare. Shut the fuck up and listen:
di tutte le recensioni, quella in cui mi riconosco di più è quella di ciccio russo, certi ragionamenti oziosi li ho fatti pure io, e poi li ho gettati nel wc :-)
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minchia che raffica di recensioni..peccato che non ho sentito mezza nota del cd perchè aspetto di prenderlo originale..sperem!
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la cosa triste è che nel 2013
un disco dei caracss che scimmiotta heartwork è inutile
bello eh
ma inutile
e tra due settimane non ce se lo incula più nessuno
amarezza a palate
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concordo con il lamonaca…mezzo heartwork e mezzo necroticism: il più bel figlio di putt del 2013.
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