Avere vent’anni: luglio 2003

EXHUMED – Anatomy is Destiny

Barg: Trovate la copertina di questo disco sull’enciclopedia Treccani, affianco alla definizione di partire col botto: e ciò è riferito sia all’apertura Waxwork sia ai primi diciamo trenta secondi della canzone stessa. Amici, impossibile non scapocciare e saltare per la stanza sbattendo fortissimo contro gli spigoli vivi. Se vi piacciono i Carcass, e immagino di sì, qui si gode tantissimo. Gli Exhumed erano già noti alle forze dell’ordine per una serie imprecisata di uscite minori che, partendo dal demo omonimo del 1991, era sfociata nel debutto Gore Metal del 1998 e in Slaughtercult del 2000. Questo Anatomy is Destiny è il terzo album ed è davvero divertente nel senso migliore del termine: ha un tiro pazzesco, non ti lascia respiro dall’inizio alla fine e sfrutta ogni possibilità offerta dal genere per creare tre quarti d’ora il più possibile variegati nonostante la brutalità ostentata. Prodotto magistralmente dal veterano Neil Kernon (Cannibal Corpse, Deicide, Nile, Judas Priest, Queensryche e un numero infinito di altri), Anatomy is Destiny ha una formazione che, per tre quarti (Matt Harvey, Col Jones e Mike Beams), in seguito avrebbe partecipato alla reunion dei Repulsion. Alzate il volume e date inizio al tupatupa.

KILLING JOKE – st

Lorenzo Centini: E niente, i Killing Joke s’erano sciolti qualche anno prima, per cui la notizia della reunion e del disco (omonimo, come quello del 1980) non era da poco. Nella formazione c’erano sia Youth che Raven, che si saranno spartite le canzoni. Alla batteria invece Dave Grohl. Erano gli anni in cui te lo ritrovavi dappertutto e ogni volta era meglio che sentirlo nei Foo Fighters (però che lagna Them Crooked Vultures, è lì che si è fermato il giocattolino di Homme). Grohl comunque è un gran batterista e nel singolo Seeing Red lo sentivi che non era uno qualsiasi. La migliore del disco, comunque. Apocalittica, psichedelica ed energica come i pezzi migliori che avrebbero poi tirato fuori nel resto della carriera, e ancora qualcuno ne piazzano. Sempre piaciuta un casino, Seeing Red. Il resto insomma. Parte quasi con un reggae. Ci sta, era nelle loro corde (reggae da disastro nucleare). No, manco reggae, è tipo un groove r’n’b, un raggamuffin, tipo Rihanna postindustriale, presa malissimo. È The Death & Resurrection Song e di sicuro si fa ricordare. Il resto un po’ meno, anche se la pezza c’è, come la voglia di riaffacciarsi con un suono moderno, peso, per nulla commerciale. A tratti techno (Asteroid). In fondo, come i Wire solo due mesi prima. Stesso evento epocale e stessa attitudine. Se Killing Joke suona complessivamente meno fresco di Send non è un gran problema, perché poi abbiamo appreso che preparava la strada per il capolavoro di Hosannas from the Basement of Hell. E lì non ce ne sarebbe stato per nessuno. Comunque sempre un gran piacere ascoltare le urla di Coleman e le corde di Walker. Idoli veri.

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DEATH DIES – Product of Hate

Griffar: Non sono mai impazzito per i Death Dies, moniker penso derivato da un brano dei Goblin presente nella colonna sonora di Profondo Rosso, che tutti i lettori di questo blog suppongo abbiano visto almeno cinquanta volte. Non so spiegarne il motivo, forse nemmeno ce n’è uno in particolare. La loro musica semplicemente non arriva a toccarmi le corde dell’anima, come si suol dire, sia quella uscita a nome Evol, band della quale i Death Dies furono un’emanazione, sia con quest’altro nome. Product of Hate è il secondo capitolo in una discografia che assomma cinque album e segue a distanza di un anno l’esordio The Night of Demons, che a mio modesto parere è un album privo di reali punti di interesse. Questo nuovo episodio è più violento, entra spesso a gamba tesa nel thrash metal e, riascoltandolo dopo tanti anni, non palesa evidenti difetti, imprecisioni, suono scadente o registrazione approssimativa: nulla di tutto questo. Il contrario, forse. È fin troppo pulito, rifinito. Ma continua a non piacermi, i dodici pezzi sono tutti concepiti sulla stessa falsariga e oltretutto secondo me vanno calando in corso d’opera. I primi tre sono discrete bordate di black metal classico, ma, andando avanti nell’ascolto, l’impressione del sentito uno sentiti tutti si fa sempre più concreta. Si tende a distrarsi, a distogliere l’attenzione dalla musica. Non è il massimo. Arrivo alla fine di questi 45 minuti scarsi con una certa sensazione di sollievo e fatico a trovare dentro di me la temerarietà per premere di nuovo il tasto play. Ho letto e sentito mirabilie del loro nuovissimo disco Stregoneria, uscito quest’anno, l’ho ascoltato con curiosità e niente, non siamo proprio in sintonia, non fanno per me.

VALIENT THORR – Stranded on Earth

Marco Belardi: Attendevo con ansia che cascasse una stella da un cielo che, oramai, brillava solo per la ridondante merda svedese. Roba da far rimpiangere il power metal di qualche anno prima; roba da tenersi buona considerando il metalcore di qualche anno dopo. Attendevo, più che altro, il nuovo nome da consacrare per sempre. Ai Ghost mancava ancora tantissimo, e i Mastodon erano un gruppo della Relapse che aveva appena sfornato un bell’album. Mi ritrovai per le mani questi tizi della Carolina del Nord e per qualche anno tutto cambiò. Credetti davvero che un giorno i Valient Thorr sarebbero stati il nome in cima ai manifesti dei grandi eventi estivi. Avevano tutto, sin dal primo album, e la loro futura evoluzione non li avrebbe sputtanati. Era una roba difficile da decifrare eppur semplicissima. Pezzi veloci fra richiami agli anni ’70 e a certo metallo classico di poco successivo. Bigger, Badder attaccava col piano di Halloween di John Carpenter per poi lasciar spazio ai sospiri della colonna sonora di Venerdì 13 e alla voce punkettona e sregolata di Valient, un buzzicone barbuto con peli che spuntavano dappertutto, logorroico come in certo hardcore. Da amante del thrash metal, caddi di testa in tutta quell’energia e me li portai dentro fino a constatare, un giorno, che neanche loro avrebbero ottenuto la consacrazione. E non perché avevamo il prosciutto sugli occhi, ma perché le canzoni da ricordare vent’anni o cinquant’anni dopo già nel 2003 non sapeva scriverle più nessuno.

BILSKIRNIR – Atavismus des Glaubens

Griffar: Non si può voler male ai Bilskirnir. Come si fa? Tecnicamente approssimativi e compositivamente tutto tranne che geniali, compensano ogni loro carenza con una convinzione estrema in ciò che fanno, cosa riscontrabile in ogni loro disco. E sono parecchi: Atavismus des Glaubens è il secondo full di quattro totali ma, tra split, EP, comparsate, compilation e via discorrendo, arriviamo a una buona quarantina di titoli. Vicinissimo a Burzum sia per ispirazione sia per ideologia politica, Bilskirnir non ha cambiato il corso della storia del black metal ma del resto non ha mai avuto alcuna intenzione di farlo: ve lo dice uno che segue le sue gesta sin dalla prima demo For Victory we Ride, che ai tempi non si filava nessuno e che oggi vale un pacco di banconote nella sua versione originale. Che poi originale significa niente, la maggior parte se non la totalità era prodotta artigianalmente, copertina fotocopiata, cassetta di recupero… Poi sono venute le ristampe in formato CD, vinile etc, e lì i flippers della pura aryan race si sono scatenati a monetizzare sulla pelle di imberbi ragazzotti che avevano bisogno di appartenere a qualcosa per aumentare la loro inesistente autostima. Ciò premesso, brani come By Fire Midgard shall be Cleansed, Restitution The Cosmic Source sono perle di black metal burzumiano e nel suo complesso il disco soddisferà chi apprezza il black lento, malinconico e melodico tipico della Scandinavia dei primi ’90. È uscito nel 2003 ma non sembra, suonava già datato allora e oggi lo è venti volte di più, come venti sono gli anni passati dalla sua pubblicazione. Gliene si danno almeno dieci in più come minimo e se li porta che è una meraviglia. Uscì per la greca Nykta productions in CD, in cassetta per un’etichettina della quale non mi ricordo il nome e in vinile per la Perverted Taste. Lo ha poi ristampato Nykta in CD qualche anno dopo e Darker Than Black in vinile nel 2017, ma non troverete alcuna copia nel mercato ufficiale: i loro dischi sono censurati da una vita per ragioni politiche e, se li cercate originali, bisogna perlustrare il dark web. Vi lascio immaginare i prezzi.

MÅNEGARM – Dödsfërd

Michele Romani: Ammetto candidamente che di questo terzo lavoro dei Månegarm avevo ricordi vaghissimi, per cui me lo sono dovuto riascoltare un paio di volte per rinfrescarmi la memoria. Una delle motivazioni è dovuta principalmente al fatto che non ho mai fino in fondo digerito l’evoluzione sonora della band svedese, che ha progressivamente messo da parte il viking black metal vecchia scuola degli esordi in favore di un folk da birreria che riguarda soprattutto la parte centrale della loro carriera, visto che con le ultime cose, seguite all’allontanamento del violinista Janne Liljeqvist, hanno fatto un parziale dietro front. Praticamente lo stesso percorso dei loro connazionali Thyrfing, band a cui sono sempre stati associati per la proposta sonora similissima. Le prime avvisaglie di questa svolta si hanno proprio con questo Dödsfärd, che mette quasi totalmente da parte il black metal in favore di un sound molto vicino al death melodico naturalmente infarcito da elementi tipici del folk metal, che prenderanno totalmente il sopravvento nel successivo Vredens Tid che è anche stato il loro successo più noto. Intendiamoci, il disco in questione presenta ancora tracce dei vecchi Månegarm (la micidiale doppietta Daudr / Vrede è lì a dimostrarlo), ma già si evince la voglia di approcciare a sonorità più bucoliche e meno estreme, nel tentativo di raggiungere un successo di pubblico che però non è mai arrivato fino in fondo.

OHTAR – When I Cut the Throat

Griffar: Un po’ come i Bilskirnir, i polacchi Ohtar non hanno mai composto un album con le potenzialità di cambiare la storia della musica black metal. When I Cut the Throat è un disco gradevole, ricorda abbastanza i primi Behemoth e i primi Graveland imbastarditi con un pizzico in più di black scandinavo. Trattando tematiche pagan-nazionalsocialiste i loro dischi sono categoricamente blocked for sale, ma non credo che avrei voglia di consumare troppe energie per recuperarne una copia, qualora me la fossi persa. I sei brani sono tutti accattivanti, specie se presi singolarmente. Mediamente un po’ troppo lunghi, magari: l’album dura 42 minuti, che non sono un’eternità ma alla lunga pesano. La prima traccia Order è quella che rende meglio la loro idea di musica, sebbene anche gli altri pezzi offrano spunti interessanti che ti fanno fare pure un po’ di air drumming o air guitar: aggressivi, energici, propongono una bella carogna. Oppure ti piazzano anche un bell’interludio folkeggiante, come nella title track. Però se gli Ohtar sono sempre rimasti in zona d’ombra, nonostante una carriera quasi trentennale, un motivo c’è, perché nessun loro pezzo è indimenticabile e si fa una fatica diavola a memorizzare i loro riff. Che sono semplici, lineari, ben strutturati ma anche abbastanza scontati e privi di picchi in grado di farti mugolare la linea melodica a distanza di mesi. Sul momento spaccano, dal vivo pure perché li ho visti e mi piacquero parecchio, però non rimangono in testa e, semplicemente, si finisce per dimenticarsi di loro. Questo è il loro esordio, successivamente hanno pubblicato altri quattro album ma a loro nome figurano anche svariati split ed EP, quindi se v’interessano di dischi da cercare ce n’è.

NOCTE OBDUCTA – Stille. Das nagende Schweigen

Bartolo da Sassoferrato: Un Ep con cinque brani inediti per 32 minuti che fanno da raccordo tra la prima e la seconda fase della carriera dei Nocte Obducta, che potete approfondire nel dettagliatissimo speciale in tre parti di Griffar). Proprio con questo lavoro i tedeschi iniziano a virare dal black metal per esplorare territori musicali diversi, in seguito integrati nel suono delle origini. Apre le danze Die Schwäne im Moor, che di black non ha niente ed è uno dei pezzi più riusciti. I tempi rallentano per privilegiare atmosfere melanconiche. Il growl è presente ma non dominante e in molte occasioni viene preferita una voce sussurrata, parlata. Il brano più violento arriva alla fine: Vorbei, sorta di cerniera che ricollega Stille ai quattro Lp precedenti senza rinunciare a sezioni più scarne, dominate da idillici arpeggi di chitarra, tra i futuri marchi imprescindibili del gruppo. A riprova dell’insuperato gusto melodico dei renani, la chiusura affidata a un’incantevole parte suonata al piano e sfumata con un “effetto radio” sopra una base di batteria conciliata in modo perfetto. La produzione non è strabiliante ma è comunque sufficiente a far apprezzare le canzoni che avrebbero meritato un missaggio più analitico e preciso.

ASTRIAAL – Renascent Misanthropy

Griffar: L’ennesimo gruppo che non ha mai raccolto neanche la metà di quanto avrebbe meritato. Renascent Misanthropy è l’esordio ufficiale sulla lunga distanza per gli australiani Astriaal (nomen omen), e segue di qualche tempo i due EP che me li fecero conoscere in un passato oramai lontano (portano i titoli Summoning the Essence of Ancient Wisdom e Deception Revelation, entrambi validissimi e degni di una eventuale ricerca anche assidua per recuperarli), ne rappresenta la logica evoluzione e non è sbagliato definire il disco un incrocio tra gli Emperor post-Nightside Eclipse e gli Abigor degli esordi, quelli di Verwustung/Invoke the Dark Age. Una figata, quindi. Con persino tracce più prominenti di melodia, anche sotto forma di ispiratissimi stacchi di chitarra acustica. I ragazzi sanno scrivere riff con i fiocchi e i controfiocchi, hanno una padronanza tecnica più che soddisfacente e sanno come si struttura un brano musicale. Il fatto che non inventino niente non conta assolutamente nulla, perché se i pezzi funzionano come questi non si può esprimere altro che ammirazione totale e perpetua. E chiedersi perché cazzo questi ragazzi in definitiva nessuno sa chi siano. Sempre del 2003 è il loro sette pollici The Throne to Perish, che contiene l’inedito omonimo e un arrangiamento di un pezzo di questo album (Ode to Antiquity), un vinile da collezione che si muove sulla falsariga di Renascent Misanthropy. Un secondo full uscì nel 2010, intitolato Anatomy of the Infinite ed attualmente ultima loro fatica discografica, anche se vengono considerati ufficialmente ancora attivi.

NIGHTRAGE – Sweet Vengeance

Barg: Nel mare magnum delle uscite death/thrash dei primi 2000 fece capolino anche il debutto dei Nightrage, che a differenza di molti altri album caduti subito nel dimenticatoio riuscì a godere di un minimo di considerazione. La motivazione risiede nei nomi coinvolti: soprattutto Tompa Lindberg alla voce (nel periodo in cui, in assenza degli At the Gates, le sue collaborazioni si moltiplicavano) ma anche prezzemolino Gus G alle chitarre, il suo amico inseparabile Fredrik Nordstrom (Dark Tranquillity, In Flames, Arch Enemy etc) alla tastiera, Per Jensen (The Haunted, Konkhra, Invocator) alla batteria e Tom Englund degli Evergrey alla voce pulita. Musicalmente Sweet Vengeance si discosta quel tanto che basta dalla massa di uscite analoghe del periodo per una più spiccata derivazione primi In Flames (periodo Subterranean / The Jester Race) rispetto alla tendenza comune a rifarsi a Slaughter of the Soul. Il che è molto ironico, visto chi canta qua sopra. È un dischetto discreto, che ha i suoi punti di forza soprattutto nei nomi coinvolti, senza i quali probabilmente non riuscirei a consigliarvi l’ascolto. E invece, data cotanta formazione, direi che se non l’avete mai sentito potreste dargli un’occasione, ché non si sa mai.

HORNA – Viha ja Viikate

Griffar: Nel 2003 i solitamente assai prolifici Horna fecero uscire solo tre titoli: due split 7 pollici (con Desolation Triumphalis e Ouroboros) e questo EP di quattro pezzi, uno dei quali una cover dei Carpathian Forest (Kun 1000 kuuta on kiertänyt, brano dal forte sapore Celtic Frost anche nella sua versione originale). I tre pezzioriginali presenti in Viha ja Viikate suonano classicamente Horna, con l’alternanza monocorda blastbeat/parte cadenzata spiccata, irrinunciabile ed inconfondibile. Se lo sono costruiti addosso questo tipo di suono, i blackster li adorano per questo (me compreso e tra i primi) e i tre pezzi si collocano ai vertici della loro produzione di ogni tempo, vicini ai fasti del pressoché inarrivabile Haudankylmyyden Mailla. I riff sono splendidi, le melodie intriganti e fredde come la scuola finlandese insegna, i brani costruiti magistralmente, lo screaming puro e gracchiante di Corvus materia da insegnare nelle scuole di musica quale che sia l’indirizzo. Sono gli Horna al loro livello più alto, non servirebbe aggiungere altro.

TV ON THE RADIO – Young Liars

Lorenzo Centini: Nelle dosi e nelle fasi giuste, la musica nera mi è sempre piaciuta. No, non quella lì, intendo blues, soul, funk, r’n’b. Alla fine da ragazzino sono stato fulminato da Jimi Hendrix, cazzo vi aspettavate poi. Nella famosa crisi postadolescenziale che ha colpito i più, in redazione, anziché distanziarmi dal metallo in favore di gruppi che mi avrebbero potuto procurare ardori sotto le lenzuola, finisco per infognarmi con due afroamericani più un polacco occhialuti, obesi, nerd, sudati, ubriachi da fare schifo (quando li ho visti al Circolo). Con la dimensione onirica della 4AD nella mente e il pulsare di Otis Redding nelle vene, punk quando serve, elettronica scomposta post-Radiohead, musica da camer(ett)a, giù a NYC. No, di metallo non c’è nulla, ma all’epoca era tra la musica più fertile che ascoltavo. Stax o Motown? Aphex Twin o Autechre? Joy Division o Cocteau Twins? Questo è l’Ep d’esordio, prima c’era stato un bootleg casalingo e poi ci sarà il disco d’esordio stupendo (sia su Touch & Go che su 4AD, appunto). Ci avrebbero ripreso il singolo Staring at the Sun, singolo stranissimo. Le altre, qui, sono comunque tutte bellissime. Sarebbero rimaste classici minori per gli estimatori die hard della prima fase della carriera.

FOREST OF IMPALED – Forward the Spears

Griffar: Visto che tanto qui in giro a conoscere i Forest of Impaled saremo in quindici (ad essere ottimisti), non è inadeguato buttare giù due righe di biografia: nati nella prima metà dei ’90, gli statunitensi si dedicarono ad un fast black metal violentissimo di scuola americana, che come abbiamo potuto affermare più volte è diretta derivata dalla prima ondata di black scandinavo senza esserne una copia pedissequa. Esordirono con l’eccellente EP Mortis Dei nel 1996, una carneficina non distante da quanto possiamo trovare nei dischi di Mr. Soderlund (Octinomos, Parnassus etc). Tre anni dopo uscì il primo full, Demonvoid, appena lievemente meno violento, che oltre alla capacità di scrivere pezzi convincenti brevi e brutali come pochi dimostrava che tecnicamente i ragazzi erano di parecchio oltre la norma. Anche Demonvoid è un disco della madonna per essere precisi, non ce ne sarebbe l’urgenza di ribadirlo ma repetita juvant. Questo Forward the Spears è un’ulteriore evoluzione del suono verso un death/black schiacciasassi che ti aggredisce con la grazia di una fresatrice d’asfalto alle sei del mattino quando quei figli di troia del Comune decidono che improvvisamente, dopo secoli di richieste e centinaia di buche mortifere, la viuzza nella quale vivi va ribitumata seduta stante. C’è molto fast black metal in questi solchi, molto war black metal pure ma anche un’eccellente tecnica esecutiva, specialmente di batteria e chitarre, e un songwriting che si abbevera spesso in sorgenti death/brutal americano mooolto satanico, scuola Angel Corpse/Vital Remains. Cos’avrebbe potuto uscire dalla sintesi di questi elementi? Risposta esatta: un disco da urlo. Il penultimo di una carriera sfortunata, terminata dopo poco tempo dall’uscita dell’altrettanto sfonda-culi Rise and Conquer del 2007.

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