Shottini di formaldeide coi nuovi UNDEATH e STATIC ABYSS

Vi ricordate quando tirammo le somme sui migliori dischi death metal dell’anno duemilaventi? Ebbene, i più accorti tra voi trentadue lettori si ricorderanno le mie parole generose verso gli Undeath e il loro Lesions of a Different Kind. Generose un cazzo. Meritate, piuttosto.
Lesions of a Different Kind mostrava un gruppo giovane, con idee chiare e soluzioni personali. Certo, non stiamo parlando di territori sperimentali. Diciamo che tutto quello che c’era da dire nel death metal è stato abbondantemente detto a tempo debito e, se qualcuno viene da voi pretendendo di spiegarvi che c’è questo o quel gruppo post-qualcosa-core che ha rivoluzionato il modo di pensare dell’umanità, mandatelo immediatamente affanculo.
Attualmente la scena mondiale del death metal si riduce a tre-quattro filoni principali, secondo una teoria qua già esposta: quelli che si ispirano agli Incantation; quelli che trattano di sbudellamenti con le voci da lavandino, diretti discendenti di Suffocation ecc; quelli con i suoni pompati, i triggeroni e i chitarristi megalomani (i peggiori) e aggiungerei un’altra categoria, la mia preferita personalmente, ovvero quella che, pur non disdegnando il groove proprio come i cloni degli Incantation di cui sopra, ha anche quella putredine e pesantezza nel suono che è riconducibile, ad esempio, a Into the Grave dei Grave (chi non lo conosce si vergogni) et similia. Solitamente hanno le copertine di due colori e qualche cadavere putrefatto disegnato a inchiostro di china o roba così.
Gli Undeath fanno, o facevano, parte di questa cerchia, con qualcosa qua e là proveniente dall’era The Bleeding dei Cannibal Corpse. Cosa è cambiato da allora? Un po’ di cose: una produzione più competente ma che leva un po’ di marciume e di sensazione lo-fi che tanto si confaceva ai nostri amici americani, e meno ricercatezza (nel senso di originalità) nelle soluzioni e negli arrangiamenti, nonostante la perizia tecnica e l’affiatamento del quartetto siano anche migliorati nel frattempo.
Ascoltando questo It’s Time… to Rise from the Grave ho avuto la sensazione di assistere a un vero e proprio remake del succitato disco dei Cannibal Corpse, con alcuni clichè e canovacci tipici di quel lavoro e di quel modo di intendere questo genere musicale. Riff e strutture che riecheggiano pesantemente il quarto Lp dei cannibali, l’ultimo con Barnes. Chiaramente stiamo parlando di roba che mozza teste e strappa sacche scrotali a morsi, giusto mi attendevo una cosa più “selvatica” e meno addomesticata. Se questo sarà il sentiero che la banda di Rochester si sentirà di seguire, ben venga, ma sappiamo tutti che qualcosa di magico, o di particolarmente putrido, consentitemi, si sarà perso per strada per sempre.
Continuiamo la nostra rassegna con un disco degli Autopsy che non è griffato Autopsy. Mi fa molto piacere che Chris Reifert abbia il cervello che gli scureggia idee a più non posso. È uno di quei personaggi a cui dovrebbe essere dedicata una statua in ogni città, al posto di Garibaldi e gente così. Un bel Chris Reifert e frotte di turisti giapponesi a fare fotografie accanto al monumento. Per un mondo migliore che rende omaggio ai suoi veri eroi.
Onestamente, però, ero rimasto al fichissimo Macabre Eternal come riferimento degli Autopsy più recenti, ed è di dieci anni fa ormai. Un bel disco in stile – indovinate un po’? – Autopsy. Avevo ascolticchiato un paio di volte il successivo The Headless Ritual, trovandolo molto in stile – indovinate un po’? – Autopsy. Nel frattempo Chris Reifert, per ingannare il tempo durante la pestilenza asiatica, ha deciso di formare, assieme a Greg Wilkinson (nuovo bassista degli… Autopsy), un gruppo che per purissima coincidenza suona come… Indovinate quale gruppo. Forse gli Autopsy?
Qua c’è proprio tutto per fare un disco degli Autopsy in piena regola, con quelle cadenze alla Autopsy, i testi splatter alla Autopsy, i riffoni alla Autopsy, quel grugnito tipico degli Autopsy, che fanno di Labyrinth of Veins un disco un po’ alla Autopsy, nel caso vi foste chiesti a chi lo si potrebbe accostare. Non uno dei dischi migliori degli Autopsy ma manco dei peggiori. Almeno loro si astengono dalle porcate plasticose di chi vorrebbe produrre tutti i gruppi death metal come i disastrosi Fleshgod Apocalypse o i terribili Revocation.
Così parlo (o grugnì) Chris Reifert. Amen. (Piero Tola)