Smettere in parte di gingillarsi: REVOCATION – The Outer Ones
L’idea che ho sempre avuto dei Revocation è che col tempo fossero diventati una sorta di Trivium del death metal. Ovvero una cosa insopportabile, musica estrema da manuale della quale non avresti ricordato assolutamente niente, una volta giunto all’ultima traccia di un qualsiasi loro album. La realtà è un po’ diversa, perché i quattro del Massachusetts – in origine un trio – già al fatidico terzo album avevano capito cosa fosse necessario per sfondare: un tiro pazzesco, capacità compositive sovraumane ed un leader perfetto, chiaramente incarnato nella indispensabile figura di David Davidson.
Existence Is Futile mi parve davvero bello; poi, tra un cambio di line-up e un altro, la lunga fase di assestamento non ci concesse altri degni sussulti, e abbiamo così assistito all’arrivo in pianta stabile dei ritornelli melodici tipici del solito metallino americano for dummies, del suono ultraplasticone e di un sacco di altre cose di cui avremmo fatto volentieri a meno. La sensazione che qualcosa stesse nuovamente cambiando in meglio me l’ha data Great Is Our Sin, che non era bellissimo ma perlomeno vedeva i Revocation sforzarsi di assumere un’identità propria. Inoltre c’era Ash Pearson, impressionante batterista dei 3 Inches Of Blood, e c’era un’intesa con la seconda chitarra di Dan Gargiulo che finalmente mi sembrava fosse stata messa a punto. Credo di avere deciso di ascoltare il loro nuovo album per pochi ma significativi motivi: un incoraggiante brano anticipato in streaming, Of Unworldy Origin, ma anche la curiosità di sentirli nuovamente in fase crescente, ed il fatto che The Outer Ones fosse stato dedicato al mio scrittore preferito di tutti i tempi: Lovecraft.
La sensazione è ancora una volta positiva: le prime due tracce sono brutali nel vero senso della parola, e rinunciano a quei ritornelli di merda che le avrebbero sacrificate al pari di un pezzo qualunque dei Black Dahlia Murder. Con Fathomless Catacombs si finisce perfino dalle parti dei Vektor e le altre tracce significative consistono nell’ottima title-track, e nella conclusiva A Starless Darkness. Ecco, poi ve lo devo dire per correttezza: nella rimanente porzione di album, che non è poi così striminzita, ci sono anche delle minchiate cosmiche la cui sopportazione non è affatto indicata a tutti.
Partendo dai momenti meno dolorosi, Blood Atonement regala una bella visibilità al basso ma proprio non funziona, così come accade con Vanitas o Luciferous; nello specifico quest’ultima sembra nata per essere la mazzata definitiva dell’intero disco grazie al suo vago retrogusto black metal, ma finirà per risultare un po’ stralunata e forzata. Il peggio però si chiama Ex Nihilo ed è una strumentale dal minutaggio fortunatamente contenuto, e che non ha né capo né coda. Non ha un pattern che la giustifichi, non ha senso e si regge tutta sull’ossessiva ripetitività di un paio di linee ritmiche. Una menzione positiva va però nuovamente a Davidson: ottimo cantante, chitarrista favoloso e grandioso riff maker. Ha cultura musicale e tecnica a pacchi, e certe volte dovrebbe semplicemente guardarsi un po’ di meno allo specchio. Positivo comunque il fatto che la fase più confusionaria della loro carriera, ovvero quella basata su brani moderni e privi di personalità come No Funeral, Harlot o Dissolution Ritual – giusto per citare Chaos Of Forms, il loro album che ho apprezzato meno di ogni altro – sia stata almeno in parte lasciata alle spalle. E ora che si fa? (Marco Belardi)
Bello pezzo, ma solo a me diverse loro vecchie cose ricordano di brutto gli Obscura?
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