TRIVIUM – The Sin And The Sentence

Con Ascendancy e The Crusade, i Trivium si guadagnarono temporaneamente l’immeritata etichetta di nuovi Metallica per la chiara fonte di ispirazione individuabile nelle ritmiche di chitarra. Erano album tutto sommato molto godibili, anche se all’epoca non si poteva trascurare come una line-up di ventenni risultasse tanto preparata tecnicamente quanto in debito di rabbia, di attitudine, e di tutte le altre cose che hanno consacrato altri. I Trivium erano un po’ il compagno di classe figlio di papà ben vestito da capo a piedi, capitano della squadra di calcio della scuola e apparentemente secchione; ma che ha sempre fatto il simpatico con gli insegnanti e ricopiato dagli altri, i quali non possono permettersi di picchiarlo perché lo spiffererà alla preside, ai genitori e di conseguenza all’avvocato, che a sua volta solleverà non pochi problemi. Larve di mosca carnaria (o bigattini) di nascosto nel casco dello scooter? Quando è arrivato il momento di assumere una forma più propria, la band di Orlando ha iniziato col piglio giusto: Shogun ed In Waves mica erano brutti, ma già avevano lasciato per strada il feeling thrash metal degli esordi in favore di un metalcore banale, privo del mordente e della cattiveria che sprizzavano da autori di ben altra levatura come i Lamb Of God. Quelli sì che erano un gruppo meritevole di consacrazione, nonostante non appartenessero ad un filone che io riesca a stimare in tutto e per tutto.

Poi sono diventati grandi, e hanno iniziato davvero a imbarazzarmi a causa di due dischi che, onestamente, avrebbero dovuto far vacillare la Roadrunner. The Sin And The Sentence è il loro ultimo capitolo discografico, e francamente non aggiunge molto a un modus operandi che andrebbe quanto meno rivisto in funzione della qualità. Il sound dei Trivium è cristallino come li avessero tolti dall’Amuchina un attimo prima di incidere, con un Matt Heafy più maturo ed a proprio agio che in passato, ma dannatamente all’acqua di rose e, come due lustri fa, mai effettivamente graffiante. Le chitarre sono a posto, l’ombra dei Metallica è quasi del tutto scomparsa e si va verso un miscuglio di metal più o meno estremo che dovrebbe accontentare chi si sfascia le vene con gli Avenged Sevenfold ed altri archetipi umani simili. La tecnica è dirompente ma non in funzione della canzone, ed è a questo punto che inizierei a semplificare le cose, indurendo la proposta e rallentando l’andatura, senza che il tutto assuma i connotati di una di quelle innocue sigle di cartoni animati orientali, o un sottofondo metal da programma televisivo sul motocross. Ogni volta che fanno comparsa i blastbeat viene quasi da sorridere perché non riescono a cambiare minimamente le carte in tavola: i Trivium rimangono mosci, imbavagliati dalla loro aura pulita e rileccata da primo della classe. 

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Ma quando la speranza sembra spegnersi del tutto, The Wretchedness Inside porta un accenno di groove assolutamente necessario all’economia del gruppo. Fino ad allora, Beyond Oblivion era stata l’unica traccia a presentare una qualche parvenza di guizzo, nonostante una titletrack formalmente perfetta come il ragazzone seduto in prima fila a fingere di prendere appunti, mentre medita come portarsi a letto la supplente. Sentite The Heart From Your Hate: è il prototipo della canzone dei Trivium che mi fa incazzare tantissimo, perché è costruita a tavolino per assumere sembianze cattive e poi sottoporvi a irritanti colate di miele. A conti fatti, The Sin And The Sentence è come Twilight, dove c’erano sì i vampiri, ma badavano più a scopare e curare il proprio look che a razziare e incendiare villaggi al nord dell’Alaska come quelli di 30 giorni di buio. E io tifo per questi ultimi. (Marco Belardi)

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