L’Oriental Metal non esiste

È capitato anche a voi nelle ultime settimane di avere la home di Facebook intasata da post tutti uguali che chiedevano di taggare la tua band preferita, la band che ti ha cambiato la vita, ecc. ecc. e vedere se rispondevano? A me sì e l’ho trovato estremamente fastidioso. Il motivo per cui vi sono comparsi è che i gruppi rispondevano poi effettivamente ai commenti in cui venivano citati, attivando così un complicato sistema di specchi e leve che permetteva a loro di farsi vedere da tutti coloro che commentavano e di far vedere il post, di solito creato da altri gruppi, a tutti coloro che li seguono, in un tacito accordo di scambio di visibilità per altra visibilità – il fatto che questa tipologia di post mi comparisse nel 70% dei casi a causa delle risposte dei Soen non ha sicuramente migliorato la mia predisposizione nei loro confronti.

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Ecco, di recente mi è capitato di vedere un post di un gruppo tunisino che non conoscevo, gli Znous, dove venivano taggati i Melechesh, i quali, rispondendo, hanno innescato più o meno lo stesso meccanismo di cui sopra. Il post è piuttosto lungo e per me è stato molto difficile superare i cinque secondi dopo i quali è quasi impossibile mantenere la concentrazione su internet – se volete leggerlo e vi viene più comodo hanno anche trasformato il post in una sottospecie di articolo sul loro sito, aggiungendo alcune citazione di Edward Said, sul quale torneremo. Provo a riassumere il più possibile senza banalizzare: i nostri sono rimasti estremamente infastiditi dall’utilizzo dell’etichetta Oriental Metal (suppongo in un articolo, che però non citano) poiché li accomuna a tutto uno spettro di gruppi con cui non hanno niente a che fare e con cui si somigliano come i Nightwish coi Meshuggah.

Questa è un’etichetta che inizialmente era stata utilizzata per descrivere i primi gruppi provenienti dalla regione, Orphaned Land e Melechesh, e che poi ha riscontrato un certo successo anche grazie alla raccolta del 2012 della Century Media intitolata proprio Oriental Metal. Dentro vi si potevano trovare brani degli immancabili Orphaned Land e Melechesh, per l’appunto, così come degli israeliani Amaseffer e Almana Shchora – questi ultimi guidati da un istrionico Eli Zulta che per un periodo mi sono divertito a seguire su Twitter e che si è dimostrato essere una sorta di Pino Scotto israeliano. Oltre a questi la compilation comprendeva anche un po’ di brani di gruppi arabi, quali Sand Aura (egiziani, di cui purtroppo si sono perse le tracce), Myrath (tunisini), Nervecell (emiratini) e Khalas (palestinesi, che potete sentire qui sotto), nonché i Pentagram turchi. Se finora era stato mantenuto quantomeno un criterio geografico, per quanto lasco, a questi vengono aggiunti gli Arkan (francesi, sebbene con membri di origine magrebina) e nientemeno che i Nile con Kafir.

Solo un anno dopo, nel 2013, con un intento forse simile, è stata pubblicata una raccolta dal titolo al-Mawtin al-aswad (Arabian Inheritance) da un’etichetta ucraina, la Depressive Illusions Records. Com’è facile aspettarsi dalle premesse, oltre a presentare solo tracce di gruppi arabi (pubblicate perlopiù nei due anni precedenti, quelli immediatamente successivi alle cosiddette “Primavere arabe”), i gruppi coinvolti erano molto più underground di quelli di Oriental Metal. Gli unici che forse sono un po’ più conosciuti sono gli egiziani Odious, che ci è già capitato di citare da qualche parte ma di cui non abbiamo mai scritto approfonditamente. Un altro gruppo interessante sono i Qafas, dal Bahrein, che vi sono comparsi con una composizione dallo stile sulla falsa riga dei The Ruins of Beverast, e che sono frutto della stessa mente dietro a Dhul-Qarnayn, Kusoof e vari altri progetti tutti provenienti dall’isoletta del Golfo (se persico o arabo è una questione geopolitica che lasceremo dirimere alle potenze regionali). Anche se di molti di questi non si riesce neanche più a recuperare in alcun modo l’album da cui erano state estratte le canzoni, si può comunque ascoltare qualche altra perla interessante, come gli Ajris, per esempio, gruppo algerino delle montagne dell’Aurès che canta in cabilo (uno dei dialetti berberi o tamazight). Il genere di riferimento per pressoché tutte le formazioni rimane comunque quasi sempre tra il black metal atmosferico e il doom metal.

Avrete notato anche voi la differenza tra le due operazioni. La prima mette assieme un coacervo di gruppi che poco hanno a che fare l’uno con l’altro, se non addirittura nulla, senza alcun criterio apparente. Sicuramente non funziona quello geografico, dato che già solamente Nile e Arkan non sono “orientali”. E, a fare i pignoli, pure se si prendessero in considerazione solo i gruppi israeliani, i Melechesh rappresenterebbero un’eccezione, poiché appartenenti a una minoranza assira autoctona in un Paese in cui buona parte degli ebrei è di origine europea. Tantomeno funzionerebbe il criterio stilistico, perché pur considerando due gruppi arabi come i Myrath e i Nervecell le differenze sarebbero enormi – dei primi ho già parlato a più riprese, i secondi suonano un death metal abbastanza canonico. Perché non metterci anche i kirghisi Darkestrah a questo punto? Invece, la seconda raccolta dal canto suo individua un ambito geografico (il Mondo arabo) e stilistico (tra black metal atmosferico e doom, come già scritto) – lo stesso titolo al-Mawtin al-aswad può essere tradotto all’incirca come “la patria nera” – e raccoglie una serie di gruppi e tracce tutto sommato coerenti.

Tornando agli Znous, i tunisini suonano una sorta di punk hardcore che con il passare degli album (due EP e un LP) si è trasformato sempre più in metalcore – che però alla fine è il risultato dell’unione tra metal e punk hardcore, quindi potremmo semplicemente dire che si sono avvicinati sempre più al metal. Il cantato è sempre in dialetto tunisino e ogni tanto compare qualche strumento tradizionale, come nella canzone Aykifech da Znousland 1, il loro primo EP, creando un connubio molto interessante. Tuttavia lo stile, le tematiche e l’estetica rimangono molto più legate al punk. I testi trattano perlopiù temi legati alla storia e alla politica tunisina e la stessa Aykifech è un’accusa alla classe politica per l’impasse post-rivoluzionaria in cui ha trascinato il Paese. Il logo è una mano di Fatima modificata in modo tale da fare il dito medio. Le copertine ritraggono tutte donne appartenenti alla minoranza berbera, spesso discriminata in passato dalla maggioranza araba della società, con i loro tipici tatuaggi in mostra. La stessa parola znous in dialetto tunisino sta a indicare un reietto, un anticonformista, uno che non si adegua alle norme sociali (un punk? un metallaro? una donna berbera che continua a tatuarsi nonostante in questo modo verrà considerata per una troglodita?). Ha senso, in questo contesto, aspettarsi per forza qualcosa di esotico, che siano degli strumenti tradizionali o tematiche legate al folklore locale, solo perché provenienti dalla Tunisia?

Gli stessi Znous nel loro articolo parlano di colonialismo ed egemonia culturale. Questo perché fanno riferimento a Orientalismo, libro di Edward Said che consiglio a chiunque di leggere. Cercando anche qui di riassumere senza banalizzare: lo scrittore palestinese cristiano analizza come l’Occidente abbia creato una certa immagine dell’Oriente (inteso in maniera molto ampia, dal Marocco all’India e alla Cina, e omologante allo stesso tempo) e come da esso si aspetti sempre certe cose (le danzatrici del ventre, il misticismo, il folklore, l’irrazionalità, giusto per citarne alcune). Nel volume questo viene ricollegato anche ai vari centri di ricerca finanziati dalle potenze colonizzatrici, i quali in passato hanno funzionato da giustificazione culturale e ideologica per colonizzazione e imperialismo e da amplificatori di certi stereotipi. L’impostazione e l’analisi sono di stampo gramsciano e partono dal presupposto che qualsiasi opera, sia essa culturale, scientifica, accademica o d’altro tipo, possiede implicitamente una ratio e uno scopo politici.

Detto ciò, collegare l’etichetta oriental metal al colonialismo è probabilmente eccessivo. Tuttavia, è sicuramente espressione di come, nel considerare in questo specifico caso un genere musicale, si utilizzino due pesi e due misure. D’altronde ci sogneremmo mai di utilizzare un’etichetta simile a scandinavian metal per parlare di Meshuggah e Nightwish, giusto per tornare ad uno dei paragoni fatti inizialmente? Certo, è naturale che si formino delle scene specifiche e locali, che però si creano per un’effettiva prossimità geografica (la scena di Göteborg) o per artisti e/o produttori condivisi da più gruppi (mi viene in mente la scena avant-black norvegese). Talvolta anche specificità culturali possono avere un peso nell’evoluzione di un genere o di uno stile in un senso piuttosto che in un altro; basti anche qua pensare alla scena greca o a quella mediterranea orbitante attorno ad Agghiastru. Però accosteremmo per questo motivo Inchiuvatu e Novembre (per quanto anche questi abbiano delle peculiarità sonore non trascurabili)? E ci aspetteremmo perciò che i Novembre mettano strumenti tradizionali in ogni loro album?

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Nonostante il tempo dei forum online sia finito, ogni tanto mi succede ancora di passare del tempo su siti che fanno anche da database come RateYourMusic. In queste occasioni mi capita ancora di notare discussioni molto accese riguardanti i generi degli artisti e degli album – cosa che succede tuttora perché siamo una categoria di persone a cui piace perdersi in disquisizioni fondamentalmente inutili su questo tipo di questioni superflue. Interessandomi di questo tipo di gruppi, sono stato impressionato da come ad ogni gruppo considerabile anche solo leggermente esotico venga affibbiata l’etichetta folk metal e, se vengono dal mondo arabo, tendenzialmente anche quella di arabic folk music tra i generi secondari. Su RateYourMusic non si trovano etichette simili a oriental metal solo perché lì si può scegliere tra un numero di generi limitato, per quanto vasto, e i moderatori che creano le etichette dei generi dimostrano sempre di possedere un certo raziocinio, fortunatamente – almeno così si evitano quelle cose tipo i Katatonia che suonano depressive metal che invece era possibile trovare su Metal Archives tempo fa, prima che finalmente venisse cambiato. Tornando agli esempi con gruppi italiani, definiremmo Ade e Scuorn folk metal perché loro qualche strumento tradizionale ogni tanto lo usano?

In conclusione, stiamo parlando di colonialismo? Mi pare un po’ fuori strada – anche se forse avrei reagito allo stesso modo nei panni di un’attivista tunisino. È egemonia culturale? Soluzione probabilmente un po’ eccessiva, ma in fondo involontariamente vera. O, perlomeno, lo è nella misura in cui tutte le principali “testate” ed etichette sono occidentali e il mercato di riferimento è quello europeo e nordamericano. E questo lo si vede per esempio con gruppi come i Myrath, i quali confezionano di fatto un prodotto culturale pensato solamente ed esclusivamente per il nostro mercato, e che quindi deve rispettare certe aspettative del pubblico. Cosa che invece non succede con gli Znous, per i quali il mercato di riferimento è evidentemente quello tunisino. Quindi cos’è, pressapochismo e tendenza ad omologare? Molto probabile: io stesso ogni tanto ho raggruppato gruppi di vario genere e provenienza, ma ho sempre cercato di rendere chiaro quali fossero le loro specificità (di genere, di provenienza, culturali). Che poi è quello che cercavo di trasmettere implicitamente quando, tra il serio e il faceto, diedi qualche consiglio musicale a Silvia Romano.

PS: a scanso di equivoci, questa qua sotto è musica folk araba.

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