Frattaglie in saldo #41: indigestione di thrash metal
SEAX- Fallout Rituals
L’evoluzione degli americani Seax ci rivela sostanzialmente che l’attitudine scanzonata e sleazy degli esordi è finita da qualche parte in cantina, ed ora questi suonano semplicemente uno speed metal tirato, con i titoli ganzi tipo Interceptor, e completamente privo di tregua. Inoltre mi ricordavo una voce rauca, ma adesso è come se al suo posto ci fosse un tizio che – anziché in studio – registra le proprie parti su uno di quei tavoli da lavoro ove è sempre presente una morsa. I suoi testicoli vengono posizionati al centro dell’attrezzo, e la manovella girata a piacimento per enfatizzare al meglio le parti vocali. Anziché porre degli accenti sparsi con criterio, i suoi compagni di formazione si divertono un casino con quella manovella, e infieriscono sulle sue sacche riproduttive finché il ragazzone non chiederà umilmente pietà. Naturalmente il giochino non funziona, e, se in passato John Cyriis con gli Agent Steel fu capace di dettare legge grazie ai suoi acuti ed alla straordinaria interpretazione, il tizio qui presente che di nome fa Carmine Blades vi farà arrivare al termine di Fallout Rituals con un mal di testa da cani, principalmente causato dai suoi smisurati e incontenibili toni alti. Con la speranza che, una volta superati i trentacinque, il nostro amico Carmine abbia le corde vocali ridotte a composta di albicocche e debba perciò rivedere un attimino il suo modo di cantare. Poi arrivi a Feed The Reaper, ritrovi lo spirito rock cazzone e spensierato dei primi White Wizzard che spezza un minimo il muro di metallo ottantiano, e respiri aria pulita. Carmine, lì al microfono, cerca di stare un po’ più tranquillo la prossima volta: non ti sta rincorrendo Michael Myers né sei a un semaforo con accanto qualcuno che sta ascoltando la musica sbagliata su un potente impianto Bose. Ed ora niente più cose di stampo puramente classico: arrivano ecco le portate a base di thrash metal, e come da consuetudine lascerò la migliore per ultima.
FORKILL – The Sound of the Devil’s Bell
Quando ti avvicini per la prima volta a una band c’è sempre quel timore di scoprire una nuova montagnola di sterco da cui dovrai fuggire con ogni mezzo a tua disposizione, tipo una pala o meglio ancora una ruspa. Le premesse c’erano tutte: il nome del gruppo, il titolo di questo disco e la sua copertina, che sembra concepita da quattro uomini stressati dopo una nottata passata a farsi massacrare a Warhammer: Age Of Reckoning da orde di nerd che oltre a vivere lì sopra hanno acquistato coi soldi di mamma, papà e amante idraulico ogni pacchetto di DLC in commercio. Poi ho letto che i Forkill sono brasiliani, e attenzione, ho scommesso tutto su di loro. In pratica si tratta del thrash metal più nordamericano possibile e immaginabile, con qualche concessione slayeriana come in Warlord, ma sostanzialmente un modo di suonare più impostato verso le composizioni pesanti delle carriere di Testament ed Exodus. Il basso vibra che è una bellezza, Let There Be Thrash e In Your Face sono i due brani capaci di spiccare sugli altri, ma c’è sempre un senso di accademico che pervade le canzoni di cui The Sound Of The Devil’s Bell si compone: bravi nell’interpretarle, impeccabili sul fronte tecnico, ma con quell’atteggiamento ai limiti del fanboy, al posto del quale andrebbe velocemente inserita una maggiore personalità di fondo. In quanto brasiliani, inoltre, ed avendo vissuto un’infanzia malata a base di Sarcofago, Sextrash, Holocausto e Vulcano, è naturale che inconsciamente mi aspettassi un qualcosa di più primordiale ed aggressivo, e in parte il parziale apprezzamento che ho riservato a loro finisce per essere sostanzialmente un po’ colpa del sottoscritto: a qualunque filone voi apparteniate, manca un pizzico di cattiveria di fondo. Non più trattabili alla stregua di debuttanti, comunque, dato che dal precedente e primo Breathing Hate – banalmente prodotto ma già buono da un punto di vista compositivo – i nostri hanno pure recuperato, e nuovamente inciso, un brano come Vendetta come a voler sottolineare certi passi compiuti in avanti. Ora serve il salto.
WARCHEST – Sentenced Since Conception
Di recente mi sono occupato dei cileni Dorso ed è stato un po’ come tornare a scuola, con quelle cose che ascoltavo vent’anni fa in particolar modo perché rare, costringendomi così all’acquisto di discografie che neanche gli autori stessi, probabilmente, possedevano più. Nel tentativo di non ricadere in qualcosa da cui mi sono brillantemente disintossicato dieci anni or sono, ho fatto la cazzata di perseverare col metallo estremo cileno e la risultante è stata l’ascolto ripetuto di Sentenced Since Conception dei Warchest. Chi? Scherzi a parte, in un’annata che vede i nomi grossi fare il dischetto buono (Dream Theater, Overkill, Children Of Bodom) ma a cui manca il botto eclatante della precedente (Voivod), al momento posso dirmi altamente soddisfatto di ciò che il sottobosco ha offerto; o, almeno, posso farlo in puro riferimento al periodo gennaio/maggio: Mortal Scepter e Inculter, o se preferite Inculer, ad esempio, hanno già piazzato due begli assi, dopodiché ci metto a ruota i Contrarian che mi sono pure dimenticato di recensire. L’album dei Warchest forse non arriva a quel livello, ma non ci va assolutamente lontano. In una foto li vidi con indosso magliette fra le quali troneggiava quella dei Sadus, una sorta di segno distintivo annotato sul documento d’identità: infatti li citano eccome, e lo fanno in particolar modo con le prime e più ignoranti composizioni del gruppo di Darren Travis. Il batterista viaggia come un dannato ed il mixaggio abusa nel metterlo in mostra; tra l’altro il tizio è anche insieme ai connazionali e tostissimi Morbid Reich. E poi c’è la solita voce velenosa, perfettamente funzionale, accompagnata da sospettosi titoli di tre lettere – Sentenced Since Conception, Post War Paranoia, Self Executed Holocaust – capaci in questo caso di non scatenare l’ictus nell’ascoltatore, come accade con gli ostinati Dimmu Borgir: serve davvero altro? Sicuramente il piatto forte delle frattaglie del menù di oggi, senza dubbio un forte candidato alla poll di fine anno. E mentre scrivo ciò, in sottofondo, la conclusiva e irresistibile Repulsive Existence mi sta ancora sfondando i timpani. Che genere musicale meraviglioso, roba da finire con un’indigestione. (Marco Belardi)
Il thrash gode davvero di ottima salute. Di questi conosco solo i Seax, visti l’altro anno al The One a Cassano D’Adda, e hai totalmente ragione sugli acuti. Fecero comunque un bel casino.
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I Seax sembrano un incrocio tra i Whiplash e gli Agent Steel; niente male. Bravo Belhardi.
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