Vi spieghiamo tutto ciò che non sta accadendo in Germania

Iniziamo questa ignobile rassegna col piatto meno forte, che poi, a lettura ultimata realizzerete fosse l’esatto contrario. Trattasi del secondo disco dei Ravager, o meglio di due tizi attivi in una band chiamata Excavator – un nome che non avrei mai e poi mai abbandonato, al costo di spendere tutto in avvocati per una vita intera – che in qualche modo sono finiti dentro a questo progetto. Avete presente quelle cene con amici che delirano in sbronza, dopodiché ti ritrovi dentro ad una band come accadde a Ian Gillan nel periodo di Born Again? Intitolato un album coi puntini di sospensione che piacciono tanto ai Megadeth (mentre i Sarcofago di Crush, Kill, Destroy preferivano le più pratiche virgole), i Ravager escono nuovamente allo scoperto nel 2019 con Thrashletics, finendo per spaventare perfino i Flotsam & Jetsam per l’illegalità delle rispettive copertine. La loro rappresenta una sorta di Toxic Avenger del thrash metal, con alle spalle una città devastata dal chimico, e in cielo l’incombere delle forze aeree del debutto dei Raise Hell. Non me ne vogliano i quattro della Bassa Sassonia, ma sono cose che non andrebbero disegnate, mai. Il disco è carino, immaginate un manipolo di tedeschi con l’infatuazione cronica per le sonorità d’Oltreoceano, chiusi in studio a pensare riff che suonino più Exodus e Testament possibile, ma alla fine si sente benissimo che sono tedeschi. E ciò avviene in misura leggermente più vistosa, rispetto a quanto lo si percepisse ai tempi degli Assassin di Interstellar Experience. La cosa mi ha fatto ripensare ai tizi dell’est europeo che provano a rimorchiare le turiste americane nei locali di Santa Croce a Firenze, presentandosi come Daniele e improvvisando un italiano spaventoso; solo che stavolta il misfatto prende forma in maniera più socialmente e musicalmente accettabile. La voce è acida come nei più imbastarditi Destruction o nei lontani Sacrifice (glorie canadesi di cui scriverò presto qualcosa), la musica invece è chiaramente composta da gente che ha sicuramente più esperienza di quel che intende farci credere: un pizzico di personalità in più e un disegnatore diverso all’opera, e probabilmente ne sentiremo parlare di nuovo.

Salendo di grado, o meglio sprofondando nell’abisso dell’inutilità, ci sono gli Accept che hanno pubblicato il loro live Symphonic Terror – Live at Wacken 2017, giusto una manciata di mesi fa. Volevo recensirlo subito, ma poi mi è passata la verve e non credo serva spiegarvi il perché. Ora, siccome sono qui ad assemblare tre puttanate in croce sulla Germania, ritengo sia il momento di ritirarlo fuori un po’ come si fa con gli addobbi natalizi pieni di ragni che escono dalla cantina intorno al sette di dicembre. In pratica il gruppo di Wolf Hoffmann ha suddiviso l’opera in tre parti: la prima, composta da brani semplicemente eseguiti dal vivo senza l’ausilio dei cosiddetti fronzoli, e fra i quali spiccano la rediviva Restless And Wild e l’estratto dall’ultimo The Rise Of Chaos, Koolaid, che già ebbi modo di sottolineare in sede di recensione quanto risultasse facilmente fra le migliori del disco, uscito un paio di annetti fa. Dopodiché si passa ai fatti, e in quale maniera questo accada, è unicamente responsabilità loro. In pratica gli Accept hanno dato modo a Wolf Hoffmann di portare avanti la sua mania del sinfonico, già palesata tramite due album in studio di cui il recente Headbangers Symphony, senza stavolta ricorrere a progetti solisti o paralleli. Serviva? Serviva il mostro in copertina dei Ravager per impedirlo, semmai. Parte Night On Bald Mountain e gli Accept mettono il muto a Mark Tornillo, eseguendo la loro versione del celebre classico di Musorgskij. Scompare tutta la sua oscurità, la magnificenza che il suddetto trionfo in note riusciva a suscitare nel sottoscritto sin da quando, per la prima volta, ci entrai in contatto guardando Fantasia di Disney.

È una musica che si adatta molto bene al metal, ma loro – alla maniera di imperdonabili gonzi dopo la quinta Hofbrau München da 0.5 – ci infilano in mezzo gli assoli di chitarra e danno tutto quanto in pasto a numerosi maiali tenuti digiuno per giorni. Va meglio con Beethoven, ed il pubblico sembra generalmente più coinvolto che durante una Pandemic da Blood Of The Nations: crucchi ingrati, turisti allo sbaraglio, fonici di palco, uno dopo l’altro siete tutti quanti colpevoli. In conclusione si manifesta la temutissima quanto allettante terza parte, e onestamente avrei concretizzato soltanto quella, limitandomi semmai a registrare meno tracce: ma loro sono stati furbi. Anzichè arrangiare ventuno pezzi storici, mettendo un’orchestra nelle condizioni di dover lavorare il doppio o il triplo, e quindi di costare altrettanto, ne hanno semplicemente scelti di meno. Se ci pensate bene, l’inserimento dei primi cinque brani suonati in maniera tradizionale, ha allungato i contenuti senza aggiungervi niente di sostanzialmente inedito. La musica degli Accept reinterpretata in una chiave mescolata alla classica sta proprio in fondo e non parte nemmeno malissimo. Funzionano bene Princess Of The Dawn e pure Stalingrad, mentre Breaker è stata ridicolizzata come una casalinga abituata a cucinare con la vaporiera, legata e con una mela in bocca mentre un gruppo di amici del marito grigliano di tutto, sporcando violentemente i fornelli col grasso che schizza giù copioso dalla bistecchiera in ghisa. Lo stesso atroce destino ai limiti dello snuff movie è riservato a Balls To The Walls, mentre, se potevamo immaginare un autentico trionfo su Metal Heart per via del celebre break centrale, le cose non andranno benissimo neppure lì. Bene Dying Breed da Blind Rage, come a mettere per iscritto che Mark Tornillo sul proprio materiale si trova verosimilmente a proprio agio, senza che l’ombra del passato gli si materializzi alle spalle ogni trentacinque secondi. Fast As A Shark? Per fortuna o purtroppo c’è pure lei, ma adesso parliamo dei Destruction che è meglio.

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Su Under Attack di qualche anno fa aveva registrato alcuni assoli un certo Damir Eskic (non so perché, ma a causa sua ho subito pensato a Marek Smerda dei Cradle Of Filth, che fra qualche settimana spero di vedermi a Bologna tanto per omaggiarne il cognome). È un chitarrista svizzero, in passato allievo di Tommy Vetterli dei Coroner, che i Destruction alla fine  hanno riportato in formazione come membro ufficiale, tornandosene in assetto a quattro proprio come ai tempi di Release From Agony. Con questo non voglio intendere che la band tedesca, al prossimo giro di boa, pubblicherà un qualcosa di lontanamente paragonabile a quel meraviglioso album; anzi, sappiamo fin da principio come probabilmente andranno a finire le cose. I Destruction usciranno dunque allo scoperto fra qualche mese, con un nuovo studio album che mi accontenterei se superasse ampiamente la sufficienza, e che risulterà essere – statistiche alla mano – l’ennesimo a cottimo su Nuclear Blast da quando si sono rimessi a fare le cose decentemente grazie a All Hell Breaks Loose. Vi aspetto, pur fidandomi fino ad un certo punto. (Marco Belardi)

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