Avere vent’anni: novembre 1996

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NOVEMBRE – Arte Novecento

Giuliano D’Amico: Non ricordo se arrivai prima a Arte Novecento o a Wish I Would Dream it Again. Quello che ricordo è sbalordimento puro – che cose così potessero essere pensate, scritte e registrate (OK, con l’aiutino di un certo tipo svedese) in Italia mi pareva una cosa da marziani. Con gli anni mi sono poi reso conto che in parte l’errore era mio – l’Italia non era proprio il deserto dei tartari che immaginavo – ma a vent’anni di distanza penso sia ancora legittimo stupirsi e considerare Arte Novecento qualcosa di eccezionale. Meno adolescenziale e umorale del debutto, più velleitario e intellettuale – dall’iconografia veneziana alla cover dei Depeche Mode – l’album suona ricco di idee e di concetti, in parte sviluppati e in parte da sviluppare nei dischi seguenti. Come ho avuto modo di scrivere altrove, i Novembre hanno dalla loro quella italianità, qualsiasi cosa significhi, che gli ha permesso di diventare ciò che sono. Con il tempo, probabilmente, si è perso molto della sorpresa e dello sbalordimento, ma per chi volesse sperare di riprovarlo, forse è il caso di riprendere Arte Novecento.

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ANATHEMA – Eternity

Ciccio Russo: Non mi viene in mente una band che abbia cambiato stile in maniera così radicale da un disco all’altro come gli Anathema di Eternity. The Silent Enigma era ancora un disco heavy metal. Quando uscì Eternity i recensori non seppero che pesci pigliare e citarono vagamente i Pink Floyd. Io pure non lo capii, lo accantonai un po’ deluso e confesso che ancor oggi è tra i miei dischi meno preferiti degli Anathema. La componente progressive la svilupperanno meglio più tardi, quando ci si butteranno a corpo morto. Col senno di poi, il successivo Alternative 4 suona quasi come una prudente frenata prima di deragliare totalmente in un altro territorio. Le radici della svolta degli ultimi lavori, le premesse di Weather Systems sono in questi solchi. Per una volta, lo stereotipo dell’album “che verrà compreso solo tra vent’anni” non solo è vero ma sembra l’unica chiosa possibile.

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KATATONIA – Brave Murder Day

Charles: Non ha l’ottimo artista alcun concetto, ch’un marmo solo in sé non circoscriva col suo soverchio; e solo a quello arriva la mano che ubbidisce all’intelletto. Sarà il caso, direte voi, di interpellare addirittura il sommo Buonarroti? Io direi di sì. Brave Murder Day è tutto ciò che sosteneva Michelangelo a proposito della scultura. La bellezza marmorea e la perfezione monolitica di Brave Murder Day esisteva già, era sospesa da qualche parte, nell’aria, in un’altra dimensione. Il compito di Renkse, Norrman e Nyström non è stato altri che quello di cogliere questa perfezione, questa magnificenza, e metterla su carta, scrivendo le note giuste, né una di più, né una di meno. E scomoderei per l’occasione anche Mozart, il quale sosteneva che nell’atto della composizione lui si limitava a lasciar andare la penna sul foglio, da sola, perché le note erano già tutte lì, in quello spazio indefinito a metà fra la mente e il foglio. Brave Murder Day è una Missa Solemnis, è L’Inno alla Gioia suonato al contrario, Brave Murder Day è il David del metal.

Luca Bonetta: La svolta stilistica dei Katatonia è nota a tutti. Si tratta di un cambiamento avvenuto quasi vent’anni fa, da Discouraged Ones, per intenderci. Certo nel corso degli anni gli svedesi hanno affinato la propria cifra stilistica, producendo piccoli gioielli come The Great Cold Distance o Viva Emptiness, tanto per citarne un paio. Eviterò di parlare in questa sede dei loro ultimissimi lavori (andatevi a ripescare la recensione di quel mattone indigeribile che è The Fall Of Hearts se vi va) perché quest’anno ricorre il ventennale di Brave Murder Day, ovvero l’ultimo disco propriamente “metal” del combo svedese. Parliamo di un album grezzo, a tratti ingenuo, si percepisce una certa immaturità stilistica lungo tutte le sei tracce e questo potrà sembrare un male ad alcuni ma, francamente, preferisco l’istintività di un lavoro come Brave Murder Day alla spocchia e alla nevrotica necessità di dimostrare qualcosa che caratterizza gli ultimi lavori. Questo non significa che auspichi un ritorno a certe sonorità, stiamo pur sempre parlando di gente di quarant’anni suonati che quella strada l’ha già percorsa, seppur brevemente. Però non nascondo una certa nostalgia per un periodo di storia in cui il fare musica era una necessità e non un mezzo per darsi un tono navigato.

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GODGORY – Shadow’s Dance

Ciccio Russo: Oh, all’epoca questo disco mi piaceva tantissimo. Erano svedesi ma, non conformandosi al canone, non se li filava nessuno. Oggi, se si parla di progressive death metal, vengono in mente per associazione insostenibili pippe sullo strumento e un songwriting inesistente. Qua ci sono attacchi alla Dream Theater, mid-tempo death metal cupissimi e scapoccioni, stacchi acustici con voce pulita e pure un pezzo mezzo thrash che fa il verso a Symphony of Destruction. Riascoltato oggi, Shadow’s Dance rimane bello e commovente per quell’ingenuità abbinata all’anarchia creativa che consentiva di osare fregandosene degli schemi, ovvero uno dei motivi principali per i quali la scena estrema di metà anni ’90 era così incredibile. Si sarebbero sciolti nel 2004, tre anni dopo il canto del cigno Way Beyond.

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BAL-SAGOTH: Starfire Burning Upon the Ice-Veiled Throne of Ultima Thule

Charles: (Prologue) aaaaaaaaaah-PA-PA-PAA-PAPAPA-PA-PARAPAPPA’-POM-PAPPA-PAPPA-PA-PARAPAAA’-PA-PA-POM-PA-PA-PAPAPPA-PARARAAARARAAA-POM-PA-PA-PAPPAPA-PARARAAAAARA’PE-PAPAPEPPEPPEPPEEPEE-PEEPEPPEPEPPEPIPPIPEPPE-OOOOOOOH-OOOOOOOOH-PARARA-POM-PAPPA-PAPPA-PA-PARAPAAA’-PA-PA-POM-PA-PA-PAPAPPA-PARARAAARARAAA-PEPPEPPIPIPPIPPIPPIPPE-PEEPEEPOPIIPPIPIII-PEREREPEPPE’-PEREPEPPEPEPEPEPPERE-PEREPEPPEPEPEPEPPERE-PEREPEPPEPEPEPEPPERE-PEREPEPPEPEPEPEPPERE-PEREPEPPEPEPEPEPPERE-PEREPEPPEPEPEPEPPERE (x2)-POM-PAPPA-PAPPA-PA-PARAPAAA’-PA-PA-POM-PA-PA-PAPAPPA-PARARAAARARAAA-POM-PA-PA-PAPPAPA-PARARAAAAARA’-PEPEREPEPPE’-PIPPIPEPPE’-PIPPIPEPPE’-PIPPIPEPPE’-OOOOOOOH-PEREPEPPE-PEREPEPPE-PEREPEPPE-PEREPEPPE-PEPPEREPEPPE’!PEPPEREPEPPE’!

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GEHENNAH – King of the Sidewalk

Ciccio Russo: Della mia adorazione incondizionata per i Gehennah e del perché siano una cult band fondamentale che tutti dovrebbero amare con fervore vi ho già parlato in diverse occasioni. King of the Sidewalk è il disco con il quale li ho scoperti ed è quindi quello a cui sono più legato, sebbene non sia obiettivamente il migliore (il successivo Decibel Rebel ha più pezzi). Gli svedesi sono l’iperbole esplicativa della filosofia Osmose della seconda metà del decennio. Ignoranza, casino, alcolismo, suoni giustamente di merda, satanismo gratuito, Venom, zoccole, rutti, risse, maleducazione, Motorhead. Nelle interviste raccontavano che non facevano un tubo tutto il giorno a parte ubriacarsi perché il fin troppo generoso welfare scandinavo consentiva loro di sopravvivere con l’assegno sociale. Il bello è che in quei paesi ce n’è veramente di gente così, che rinuncia a una vita dignitosa e sceglie il degrado perpetuo sovvenzionato dallo Stato; mi è pure capitato di conoscerne un paio. Però non avevano la giustificazione di suonare in un gruppo che spaccava come i Gehennah.

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OLD MAN’S CHILD – Born of the Flickering

Charles: Per puro completismo ci mettiamo pure gli Old Man’s Child. Anche se all’epoca si presentava come una band a tutti gli effetti, è sempre stato il progetto di Galder (Thomas Rune Andersen Orre) e secondariamente di Jardar (Jon Øyvind Andersen). Sui destini della band non ci sono più notizie da un bel po’. L’ultimo album uscito con questo moniker è Slaves of the World del 2009, poi più nulla. Comunque, in passato Galder, che è il chitarrista dei Dimmu Borgir da una quindicina d’anni, cioè più o meno da quando hanno iniziato a fare cacare (e voglio essere generoso), ha dichiarato di volersi concentrare più sui Dimmu che altro. E vabbè. Nel ’96, dunque, esce il primo full di Galder. Ora, a me gli Old Man’s Child sono sempre piaciuti pur trovandoli derivativi e non particolarmente innovativi, ma capisco se state facendo spallucce in questo momento. Born of the Flickering è un bel dischetto tutto sommato, ma restiamo pienamente nell’alveo dei gusti personali, e pure quello dopo dai, solo che ho iniziato veramente ad apprezzarli con Ill-Natured Spiritual Invasion; quanto cazzo spaccava quel disco. E poi ci suonava pure Gene Hoglan.

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BUSH – Razorblade Suitcase

Stefano Greco: Per chi non se lo ricordasse i Bush (nome veramente demmerda) erano un gruppo inglese che a tratti suonava identico ai Nirvana e aveva un cantante con la stessa capigliatura di Eddie Vedder. Dopo aver venduto una vagonata di copie con l’album Sixteen Stone chiamarono Steve Albini per farsi produrre un secondo disco che si rivolgeva sfacciatamente a tutti gli orfani di Kurt Cobain. Razorblade Suitcase è grunge fuori tempo massimo, l’idea è ridicola e l’intento poco nobile. I pezzi però sono tutti bellissimi e quindi tutte ‘ste chiacchiere vanno un po’ a farsi benedire. Il disco ha giustamente venduto qualche milionata di copie e il cantante si è poi sposato con quella strafiga di Gwen Stefani: la rivincita degli eterni secondi direttamente in culo a noi giornalettisti musicali intransigenti.

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ARCHANGEL – In Tears the Angel Falls…

Charles: Visto che mi è stato di così grande aiuto, citerò nuovamente Mozart: Al più presto bisogna che la scriva, perché io la riceva, codesta missiva; ché se poi avrò già lasciato questa baracca, altro che lettera, sarà una cacca. Cacca, cacca! O cacca! O dolce parola! Cacca! Pappa! Bello! Cacca, pappa! Cacca! Lecca! O che delizia! Che gusto! Cacca, pappa e lecca! Pappa cacca e lecca cacca! […] Chi non ci crede, mi lecchi all’infinito, ora e sempre in eterno. Avrà di che leccare per un bel po’ di tempo […] tremare mi sento; ché se la mia merda dovesse terminare, non avrà abbastanza di che banchettare. E insomma, però l’ultimo pezzo, Awakening, ricordo che mi piacque veramente tanto, ci entrai proprio in fissa all’epoca.

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THRONE OF AHAZ – On Twilight Enthroned

Ciccio Russo: Mio gruppo black svedese feticcio. Ne ho già parlato in questa rubrica a proposito dell’esordio NifelheimOn Twilight Enthroned è più maturo, meno grim & frostbitten. Qua avevano cercato di fare in qualche modo il verso ai Naglfar e non gli era manco venuto male. C’è pure una notevolissima cover di Black Sabbath. Fu uno dei primi dischi che recensii per Korova Milkbar, fanzine ciclostilata come si usava all’epoca, portata avanti da due tizi di Sassari. Fu più o meno il mio esordio da scribacchino musicale. Prima avevo scritto solo un paio di pezzi per la darkettona, e altrettanto ciclostilata, Into The Darkness, ma non recuperai mai il numero dove furono pubblicati. Devo anche a quella militanza fanzinara la mia collezione di flyer scrausi sui quali, se un giorno avrò la pazienza di ravanare a casa dei miei genitori, farò un doveroso speciale a beneficio dei più giovani che forse non hanno manco capito bene di cosa stia parlando. Le fanzine, il tape trading, lo scambio di flyer: la MILITANZA.

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