Music to light your joints to #24: speciale Heavy Psych Sounds
In attesa dell’edizione capitolina del festival itinerante della Heavy Psych Sounds, andiamo un po’ a ravanare tra le ultime uscite della label italiana che, senza campanilismi, è diventata una delle più importanti al mondo nel settore della musica per amanti dei viaggi spaziali e della botanica alternativa. Solo negli ultimi mesi l’etichetta di Gabriele Fiori, frontman dei Black Rainbows, ha pubblicato lavori solisti vecchi e nuovi di Brant Bjork (tra cui il disco “perduto” Jacoozzi, registrato nel 2010 e poi accantonato in coincidenza con l’operazione Kyuss Lives!), il ritorno in studio dopo 10 anni dei Nebula, Macedonian Lines dei sempre più iperurani Yawning Man e l’album, dal sapore sorprendentemente garage, registrato dai Little Villains del defunto ex Motorhead Phil Taylor, tutta roba che si aggiunge a un catalogo dove già figurano o hanno figurato istituzioni come Farflung, Fatso Jetson, Nick Oliveri, White Hills e Planet Of Zeus, manco lo spirito della Man’s Ruin si fosse reincarnato nell’Urbe. E, oltre ai nomi consolidati, c’è poi un vasto carniere di giovani formazioni che i seguaci di questa sobria rubrica non potranno farsi sfuggire. Andiamo a conoscerne qualcuna.
DUEL – Valley of Shadows
Cominciamo da quello che è un ottimo candidato alla palma di disco stoner del 2019. Avevamo lasciato i texani alle prese con il sound grezzo e irruente di Witchbanger e già l’iniziale Black Magic Summer cambia di colpo le carte in tavola. Tempi moderati, chitarre più ariose, un ritornello che si stampa subito in testa: un brano splendido che sarebbe primo in classifica in un mondo dove lo Stato garantisce a tutti i cittadini una congrua fornitura annua di acido lisergico. Se vengono quindi recuperate le sonorità più classiche del debutto, in termini di maturità, scrittura e coscienza dei propri mezzi non c’è assolutamente paragone. E che dire della successiva, più sostenuta, Red Moon Forming? O dell’avvolgente Drifting Alone, con quelle linee vocali pastose che sembrano davvero provenire da un classico degli anni ’70? Quasi diventa difficile proseguire con l’ascolto per la voglia di spararsi questi primi tre pezzi in loop senza soluzione di continuità. Album straordinario. Peccato essermeli persi dal vivo in occasione della loro recente data romana, mannaggia al trasloco.
DEAD WITCHES – The Final Exorcism
E un posticino nella classifica di fine anno, quantomeno tra le menzioni onorevoli, potrebbe meritarselo anche questa seconda fatica dei Dead Witches, il gruppo dell’ex batterista degli Electric Wizard, Mark Greening, che si è inserito con profitto nel sempre fecondo filone dei gruppi doom con voce femminile. Ancora non si sanno bene le ragioni dello split. Jus Osborn si era lamentato delle recenti prestazioni live di Greening ma c’è chi sostiene c’entrasse pure la sua fascinazione, quantomeno estetica, per l’ex cancelliere tedesco, quello coi baffetti. Fatto sta che il primo lavoro dell’allora neonata formazione, Ouija, uscito nel 2017, non mi aveva convinto granché. The Final Exorcism è invece un deciso passo avanti, e il paradosso è che lo è perché suona meno classico è maggiormente vicino all’operato della band madre, sebbene i momenti migliori siano quelli meno opprimenti, come l’avvolgente litania When do the dead see the sun. Il miglioramento è probabilmente legato a una line-up rinnovata per metà: il nuovo chitarrista Oliver Hill (il suo predecessore, Greg Elk, era morto prima della pubblicazione del debutto) ha un tocco più ruvido e caprino e la nuova cantante, Soozie Chameleone (sull’esordio c’era l’italiana Virginia Monti dei Psychedelic Witchcraft), ha il carisma stregonesco che ci vuole. Da recuperare.
1782 – st
E alle spose del diavolo si ispirano anche i 1782, il cui moniker è nient’altro che l’anno in cui fu ghigliottinata Anna Göldi, l’ultima donna a essere condannata a morte in Europa per stregoneria. Intento del duo di Ossi, paese dell’hinterland sassarese sede di due suggestive necropoli, è rendere tributo a tutte le donne finite nei secoli sul patibolo con questa accusa. E lo fanno con uno stoner/doom scarno e tradizionale ma piuttosto convincente, sebbene ancora acerbo e con qualche asperità da smussare in sede di arrangiamento (gli stacchi tra le parti più lente e i mid tempo a volte potrebbero essere più fluidi). I momenti migliori sono quelli più funebri, come She was a witch e The Spell (suggestivi i cori nel finale). Dopo i Black Capricorn, la mia Sardegna ci regala un’altra interessante accolita di adepti del culto del riff. A si biri mellus.
OREYEON – Ode To Oblivion
Restiamo in Italia con gli spezini Oreyeon, già avvistati all’ultima edizione del Tube Cult Fest, il piccolo Roadburn sull’Adriatico, da Roberto, il quale ne aveva parlato come di un mix tra Kyuss e Alice in Chains. Ad ascoltare questo loro secondo full, il primo termine di paragone non mi convince troppo (quantomeno non vedo una filiazione così diretta), il secondo invece ci sta tutto, anche se non so se mi sarebbe venuto in mente di primo acchito. il riffing blueseggiante e dilatato e l’impostazione delle linee vocali sono in effetti di ascendenza novantiana ma la saturazione del sound, la costruzione dei pezzi, lunghi e dilatati, la reiterazione di alcuni passaggi e, più in generale, l’impressionante muro sonoro eretto dai liguri guardano anche all’orgia postqualcosa del decennio successivo, con un risultato finale che riesce comunque a non suonare mai datato o derivativo. Davvero un’eccellente sorpresa. Spero di riuscire a beccarli dal vivo quanto prima.
HIGH REEPER – Higher Reeper
Se invece cercate solo del buon doom vecchia scuola senza troppe pretese, dovete rivolgervi agli High Reeper, anch’essi alle prese con il secondo album, che segue un esordio omonimo uscito appena lo scorso anno. I riferimenti del combo di Philadelphia sono i classici che più classici non si può, Pentagram in primis. Non mancano però gli obbligatori riferimenti al Sabba Nero, dal basso ‘butleriano’ di Shane Trimble ad Apocalypse Hymn, quel tributo a Solitude che ogni gruppo doom che si rispetti prima o poi scrive. Nulla che vi cambierà la vita ma, se siete devoti al genere, sarà difficile resistere all’impetuoso crescendo di Bring the dead o alla danza macabra di Buried Alive. Alla batteria troviamo nientemeno che Justin DiPinto, vecchia conoscenza degli appassionati di brutal death (Malevolent Creation, Pyrexia, Waco Jesus): chissà quanto lo fanno fumare prima delle prove per evitare che, così d’istinto, gli scappi un blast beat sul più bello. E proprio gli High Reeper suoneranno al Traffic di Roma il 12 ottobre in occasione dell’Heavy Psych Sounds Fest insieme a Black Rainbows, Giöbia, Crypt Trip e Fvzz Popvli. Siateci. (Ciccio Russo)
È bello svegliarsi con questi suggerimenti ! Nel mio mondo ideale la domenica mattina gli usignoli ruttano !
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Belle cosette.
Ma l’album dell’anno in ambito doom/stoner/NWOBHM/fuzz/psych è questo:
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