SONS OF APOLLO – Psychotic Symphony

Anzitutto mi pare che questo sia più un disco rock propriamente detto che non prog metal, a parte forse Labyrinth e la strumentale Opus Maximus posta in chiusura. La gente ciarla proprio a vanvera, basta che qualche sveglione legga il nome di Derek Sherinian accostato a quello di Mike Portnoy e nel suo piccolo mononeurone è subito A Change of Seasons, così, a prescindere. Ora, capisco che magari A Change of Seasons possa aver segnato più di qualche fan dei Dream Theater, e sicuramente più di quanto non abbia fatto il successivo Falling Into Infinity, ma sia Sherinian che Portnoy dalla metà degli anni ’90 in poi di strada ne hanno fatta parecchia, quindi non si può certo pretendere che suonino entrambi come allora o abbiano la stessa testa di vent’anni e picco fa.

Il che, lasciate che ve lo dica, è positivo: sono entrambi invecchiati piuttosto bene, e tutto sommato questo Psychotic Symphony ne è la dimostrazione, posto che, comunque, per un abbondante  tre quarti di disco dominano loro, con buona pace di Ron Thal e Billy Sheehan, più a supporto che altro. Che poi era proprio il problema di Sherinian nei Dream Theater, questo carattere esuberante che mal si sposava con il duopolio Petrucci/Portnoy; adesso che la coppia è diventata Sherinian/Portnoy, invece, tutt’apposto. Sherinian ha un approccio molto chitarristico all’uso delle tastiere e si sente per tutto il disco, sin dall’iniziale God Of The Sun, passando per Coming Home e via via per le varie Signs Of Time, Lost In Oblivion e blablabla. 

Ogni tanto spunta fuori anche qualche pregevole assolo di Ron Thal, ma le chitarre in generale vengono soverchiate dai sintetizzarori, sia come mixaggio che compositivamente parlando. In questo senso certi momenti di ‘sto disco mi ricordano parecchio i Planet X più rock che prog, specie Opus Maximus in chiusura che, essendo strumentale, rende le similitudini con il precedente progetto di Sherinian ancora più evidenti. In ogni caso, secondo me l’aspetto migliore di Psychotic Symphony sono i ritornelli, sempre piuttosto ispirati e discretamente accattivanti. In questo senso molto fa la voce di Jeff Scott Soto, incredibilmente uno dei cantanti che meno ha perso con il passare degli anni, visto che pare sempre averne una ventina e che a ‘sto punto immagino potrebbe riproporre tranquillamente Marching Out di Malmsteen senza colpo ferire, a cinquant’anni suonati e a differenza di tanti colleghi, magari più blasonati.

Insomma, tra i vari progetti a cui Portnoy è stato dietro, spesso in maniera schizofrenica, durante questi ultimi anni post Dream Theater, i Sons Of Apollo mi paiono quello più riuscito, anche meglio dei pure simpatici Winery Dogs, sempre con Sheehan al basso e Richie Kotzen alla chitarra/voce. Se vi piace il rock poco poco prog, con tante tastiere e ritornelli da stadio, ve li consiglio caldamente, se poi siete fanatici di Portnoy o Sherinian sicuramente ce l’avrete già da un po’ nello stereo e allora vabbè, buon ascolto. (Cesare Carrozzi)

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