Avere vent’anni: marzo 2004

BEHEXEN – By the Blessing of Satan

Griffar: L’indiscusso capolavoro dell’entità finnica è un disco di una violenza e di una malvagità allucinanti, che stordisce per la carica d’odio cristallino che contiene in ogni solco. Eppure in cotanta esplosione di brutalità trovano di frequente spazio soluzioni melodiche che spezzano la furia iconoclasta. La produzione cupa e ombrosa – molto simile a quelle predilette da Horna e Sargeist – aggiunge valore a tutte le composizioni, lo screaming è accostabile a quello di Shatraug (quindi appropriato ed eccellente), la tecnica di esecuzione dei pezzi è più che soddisfacente e i brani, scritti con maestria, non hanno un difetto che sia uno. Il tempo non ha minimamente scalfito il valore di questo incessante assalto black metal, perfido come Satana comanda. Non particolarmente prolifici, ad oggi i Behexen contano cinque full, due split ed un EP. Di loro non esce niente di nuovo dal 2016, anno dell’ultimo The Poisonous Path, anch’esso eccellente.

NECROPHAGIST – Epitaph

Edoardo Giardina: Credo che nessuno possa contestare il fatto che Epitaph dei Necrophagist è stato uno degli album che più hanno influenzato il death metal moderno, alla pari soltanto di Formulas Fatal to the Flesh. Se il precedente Onset of Putrefaction, di cui non ricordavo per nulla di aver scritto il ventennale, aveva ancora i piedi ben saldi negli anni Novanta e si lasciava influenzare anche dallo stesso FFttF, Epitaph è invece più fresco e pienamente lanciato nel nuovo millennio. Riascoltandolo dopo tanti anni si sente innanzitutto come abbia retto benissimo il passare del tempo. Riesce, inoltre, ad essere quasi radiofonico a modo suo, con quei fraseggi di chitarra e quei controtempi che sono orecchiabili almeno quanto un ritornello di Dua Lipa: canzoni come Stabwound e Diminished to B rimangono in testa e non se ne vanno più. Avevo in mente altre cose da scrivere ma mi sono accorto di averle già scritte per il ventennale di Onset of Putrefaction. Per il resto Epitaph è un album breve e intenso, quasi grindcore in questo, e si sente come la tecnica sia un mezzo e non sia ancora diventato il fine. È grazie ad album come questo se il death metal è rimasto praticamente l’unico sottogenere classico del metal a non essere morto a cavallo del nuovo millennio e a essere arrivato fino ai giorni nostri con una certa vitalità pur senza subire ibridazioni snaturanti.

NOCTURNAL RITES – New World Messiah

Cesare Carrozzi: New World Messiah purtroppo prosegue l’andazzo dei “nuovi” Nocturnal Rites, cioè la formazione rinnovata dopo i primi, fantastici tre album (specialmente Tales of Mistery And Imagination, che rimane il mio preferito). Un nuovo corso fatto di chitarre a sette corde, un altro cantante e una produzione più “moderna” e patinata, sempre uguale e in linea col millennio appena iniziato, tutte caratteristiche che, nella loro testa, avrebbero dovuto “svecchiarli” stilisticamente e distinguerli dalla miriade di gruppi power metal europei sul mercato. Che poi, se vogliamo, nel 2004 non è che il genere avesse conservato tanta popolarità: il picco c’era stato più o meno un decennio prima, il botto era finito da un pezzo e questi si erano messi in capa che suonando un po’ più contemporanei avrebbero attirato maggiore attenzione. E avevano ragione? Dopo vent’anni è ormai lecito parlare di fiasco completo: si mangiarono tutta la popolarità che avevano guadagnato con i dischi di inizio carriera e oramai ce li ricordiamo forse in quattro. Il problema principale dei dischi successivi aThe Sacred Talisman è che, più la discografia va avanti, meno pezzi interessanti per album ci sono, al punto che negli ultimi non si distinguono l’uno dall’altro, in un piattume  mortale. Ne scrissi già a proposito di Phoenix del 2017 e francamente spero che non venga loro in mente di tirare fuori un altro album, magari un Phoenix II nel 2027, tipo come hanno fatto Gamma Ray e Queensryche con Land of the Free II o Operation: Mindcrime II:  uscite commerciali fatte malissimo basate sul successo dei lavori originali, con l’eventuale aggravante, nel caso dei Nocturnal Rites, che pure il materiale di partenza fa schifo. Se proprio vi mancano, ascoltatevi qualcosa dai primi tre lavori, per il resto statene lontani.

TANKARD – Beast of Bourbon

Marco Belardi: Il problema di Beast of Bourbon era uscire dopo un inatteso “bellissimo” come B-Day. Nessuno incluso me si aspettava un album della qualità di B-Day, tantomeno dai Tankard, nel 2002. Così l’asticella si alzò al punto che Beast of Bourbon avrebbe dovuto almeno pareggiare il livello raggiunto dal suo fortunato predecessore. Die with a Beer in Your Hand, assoluto inno del bevitore, ci mise del suo, anticipando l’uscita del disco con un singolo che era a tutti gli effetti al pari di quelli di B-Day. Il resto dell’album era semplicemente carino, con qualche picco come Under Friendly FireSlipping From Reality e The Horde. Insomma i Tankard erano rapidamente tornati a svolgere il compito dei Tankard, gregari del thrash metal tedesco sul gradino più alto del podio della simpatia.

ALTAR THE SKY – Plight of the Vomit Eagle

Griffar: In pochi si ricordando di questo progetto black/death tecnico di Andrew LaBarre, già cantante/chitarrista degli Impaled di Medical Waste, Mondo Medicale e dello split con gli Haemorrhage, nonché dei primi due album dei Ghoul, alter ego thrashcore degli stessi Impaled che vede coinvolti anche Ross Sewage e Raul Varela. LaBarre è stato un musicista eccezionale in ambito estremo e questo piccolo gioiellino ne è la lampante dimostrazione. Teso, schizzato, caratterizzato da un riffing accorto e fantasioso, da una predilezione per complicate partiture ritmiche con costanti cambi di tempo e dalla ricerca di soluzioni distanti dal canone. In bilico tra il black di scuola americana e un death contorto, a tratti acido e dissonante, i pezzi sono nervosissimi e affascinanti, menzione d’onore per Hell is Today e Aircrash, i due brani conclusivi. Da recuperare senza dubbio, anche perché è il testamento sonoro dello sfortunato artista, che non ha più pubblicato nulla dopo Plight of the Vomit Eagle (rimasto dunque opera a sé stante) ed è venuto a mancare nel 2022 a soli 43 anni per la fottutissima SLA. La terra ti sia lieve, Andrew, e grazie di tutto.

GRIP INC. – Incorporated

Marco Belardi: Canzoni come Hostage to Heaven ancora me le ricordo, eppure non ascolto Power of Inner Strenght almeno da vent’anni. Ogni disco dei Grip Inc. ha una o due canzoni che ricordo a una distanza di tempo che definirei siderale, perfino Nemesis, che fu acclamato ma bellissimo non era per niente. Ognuno, dicevo, tranne Incorporated, l’ultimo che hanno pubblicato. Credo che il gruppo di Waldemar Sorytcha e Gus Chambers, e, perché no, di Dave Lombardo, fosse semplicemente finito fuori tempo massimo. Il metal si era evoluto a grandi passi all’incirca fino al 1996, massimo 1998. E, finché era maturata questa evoluzione, i Grip Inc. ne erano stati come degli alfieri riconosciuti a tutto tondo. Una volta che l’innovazione non è stata più ritenuta necessaria da discografici e consumatori, penso che i Grip Inc. non avessero più alcun senso d’esistere. Dave Lombardo oltretutto era rientrato negli Slayer. Non che Incorporated avesse qualcosa di storto: lo risento adesso e l’accelerazione improvvisa di Curse (of the Cloth) è un qualcosa di assolutamente sublime. Molto bella anche (Built to) Resist. Semplicemente gli preferisco in tutto e per tutto gli altri tre, e forse lo faccio perché erano collocati in una striscia temporale nella quale i Grip Inc. erano più funzionali e utili al genere d’appartenenza. O forse perché con Solidify erano riusciti a stupire e straniare chiunque si aspettasse un “semplice” album di thrash metal moderno, e a quel punto alzare ulteriormente l’asticella era divenuto impossibile.

WOODTEMPLE – The Call from the Pagan Woods

Griffar: Secondo disco della one-man band austriaca facente capo ad Aramath, che si occupa di tutto (a parte un session alla batteria) e mostra una passione smodata per i Graveland più datati. Pagan black metal epico e battagliero, pure troppo fedele alla tradizione, giacché un po’ più di personalità non avrebbe guastato, vista la lunghezza poderosa dei tre brani propriamente detti (10, 14 e 17 minuti), tutti impostati sulla ripetizione dei medesimi riff e tutti influenzati significativamente dal progetto di Rob Darken. Non che questo sia un male, i pezzi presi singolarmente non dispiacciono affatto ma se fossero stati tirati meno per le lunghe l’album ne avrebbe beneficiato in modo cospicuo. Anche una registrazione meno impastata avrebbe giovato alla causa, e magari anche qualche tempo meno cadenzato per scuotere un po’ l’ascoltatore dal torpore che questa musica, così impostata sull’effetto ipnotico, inevitabilmente provoca. Più che l’emozione di trovarsi nel fragore dell’infuriare della battaglia, The Call from the Pagan Woods evoca la sensazione di passare un paio di giorni dopo a contemplare le rovine e i superstiti che seppelliscono i cadaveri dei caduti con movimenti lenti e compassati sempre uguali a sé stessi. Un album discreto che soddisferà i palati di chi ama questo tipo di black metal, un ascolto superfluo per tutti gli altri.

ENTWINE – DiEversity

Michele Romani: Quando penso a un gruppo che incarna alla perfezione quello che qui a Metal Skunk viene definito gotico pipparolo,  il primo che mi viene in mente sono sempre gli Entwine. La band di Lahti nel corso degli anni ha incarnato alla perfezione questo particolare sottogenere del gothic metal, che si distingue per poche semplici regole: brani che non superano mai i 3 minuti e mezzo, suono a metà tra il danzereccio e il rockeggiante, produzione nitidissima, ritornelli facili da assimilare e, cosa più importante, liriche che fondamentalmente parlano solo di due cose: amore e suicidio. Se non rispetti queste semplici regole non ti puoi definire gotico pipparolo, questo è tutto. DiEversity possiamo definirlo come il piccolo momento di gloria per il gruppo finlandese, grazie soprattutto all’azzeccatissimo video di Bitter Sweet che dev’essere piaciuto particolarmente ai tizi della defunta VIVA (una sorta di MTV tedesca), visto che lo passavano in continuazione. Musicalmente il disco ha un fortissimo appeal commerciale e una serie di brani molto catchy con ritornelli che ti si stampano in testa sin da subito, e la differenza rispetto al più cupo Times of Despair (che resta il mio preferito) si sente eccome, anche se fondamentalmente la proposta è sempre la stessa. Parlo di piccolo momento di gloria perché, dopo questo disco, gli Entwine sono caduti nel dimenticatoio come del resto un po’ tutto il genere, fino allo scioglimento nel 2015.

ANVIL – Back to Basics

Marco Belardi: Certamente ricorderete che gli Anvil sono tornati in voga a partire di Juggernaut of Justice. Il fatto è che tre anni prima, ossia nel 2008, avevano pubblicato il celebre documentario, che fece luce sulla reale situazione dell’heavy metal classico e nella fattispecie del gruppo canadese. L’anno ancora precedente era uscito This is Thirteen, la cui orrenda copertina non rendeva giustizia a un album tutto sommato più che sufficiente. I problemi degli Anvil, dico quelli di natura creativa, arrivarono proprio a ridosso di quel periodo. Nel 2004 era stato il turno di Back to Basics, che ritornava a un suono completamente ottantiano centrando – ahimè – il solo risultato di suonare più fiacco possibile. Il precedente Still Going Strong, tutt’altro che riuscito, perlomeno disponeva di un’energia di fondo su cui ben sperare per il futuro. Qui i giochi si fermavano all’iniziale Fuel for the Fire, che assieme a Fuel for Hatred dei Satyricon certificava come il genere in quegli anni andasse per la maggiore presso i benzinai.

ABAZAGORATH – Sacraments of the Final Atrocity

Griffar: Secondo full di una band sottovalutatissima, Sacraments of the Final Atrocity contiene nove brani di più che apprezzabile black metal in stile statunitense, ben scritti, ben suonati e ben prodotti (eccellente il basso, che conferisce una pienezza e una corposità di suono propria di band con ben altro blasone). Il grande risalto dato alla costruzione dei riff, spesso lunghi ed elaborati, è l’unico punto di contatto con la scuola death nazionale; il resto è classico, mefitico e satanico black metal molto evil e parecchio necro, sebbene sostenuto da una notevole preparazione tecnica, con continui stacchi e cambi di tempo che non fanno mai venir meno la furia. L’unico appunto è che 54 minuti sono un pochino troppi, una decina in meno e staremmo parlando di un disco privo di difetti. Dopo questo album, il gruppo diradò sensibilmente le uscite: in dieci anni si ricordano una partecipazione a un tributo ai Mayhem, uno split coi Bloodstorm, un EP eponimo e un terzo Lp (The Satanic Verses) uscito nel 2014. Dopodiché il silenzio, anche se risultano ancora attivi e su Youtube si trova qualche concerto tenuto in tempi non troppo remoti. Passati sotto le forche caudine dei numerosi cambi di formazione e divenuti un terzetto, i ragazzi sono coinvolti in svariati altri gruppi, cosa che mi fa supporre che gli Abazagorath non siano più una loro priorità. Peccato.

RAGNAROK – Blackdoor Miracle

Michele Romani: I Ragnarok sono il classico gruppo di seconda fascia proveniente da quella che viene definita la seconda ondata del black metal norvegese. Pur non avendo mai raggiunto lo status di colleghi più famosi, hanno sempre sfornato dischi medio-buoni, con l’apice assoluto che resta il secondo Arising Realm (lo metto davanti all’esordio perché di quest’ultimo non ho mai sopportato la registrazione troppo ovattata). Blackdoor Miracle è la quinta fatica della band di Sarpsborg capitanata da Thomas “Jontho” Bratland e fa parte di quella schiera di dischi, cominciata con In Nomine Sathanas, che mostra una notevole brutalizzazione del suono, che rimane sempre un black di classica matrice norvegese ma senza quelle tipiche atmosfere che avevano fatto la fortuna dei primi lavori, complice anche la decisione di bandire le tastiere. Il disco comunque (copertina oscena a parte) scorre piacevolmente, con alcuni picchi notevoli come Recreation of the Angel, Murder e Kneel (la migliore), anche se a mio parere lo scream di Hoest (una delle sue tante ospitate) non mi pare proprio azzeccatissimo per il sound dei Ragnarok.

MASTER – The Spirit of the West

Marco Belardi: L’unica formazione dei Master che abbia avuto un senso fu quella comprendente Bill Schmidt e Chris Mittelbrun, nonostante tutti i casini che caratterizzarono l’embrione della band e la sua parentesi Death Strike. Dopodiché niente ha avuto alcun senso. La Nuclear Blast era partita con i Righteous Pigs e i Rostok Vampires. Nel momento in cui il colosso discografico tedesco cominciò a fare le cose sul serio, e pubblicò gli Atrocity, i Benediction, e appunto i Master, questi ultimi cominciarono a migrare da un’etichetta a un’altra precisamente negli anni in cui le major s’azzardavano a mettere sotto contratto i gruppi death metal e a riservar loro produzioni di assoluto prestigio. Non so se la carriera dei Master sia stata un susseguirsi di sliding doors andate tutte nella direzione più sfigata, ma so con certezza che con The Spirit of the West, il secondo avente base in Repubblica Ceca – chiedere ai Krabathor per ulteriori delucidazioni – la loro carriera cominciò a rimettersi sul binario giusto. Non giudicatene la copertina. L’album non era affatto trascendentale e il suono puzzava di demotape da lontano un miglio, ma i Master erano tornati a praticare il loro mestiere e in un certo senso me ne accontentai. The Serpents Tongue forse la più gradevole in una scaletta i cui titoli, leggasi Pistols, Whips and Coyotes, ambivano alla bizzarria più fulminante.

TV ON THE RADIO – Desperate Youth, Blood Thirsty Babes

Lorenzo Centini: Avevo tradito il metal, anche se non tutti me ne avrebbero scambiato per un adepto acritico. Non lo ero. Comunque: me la facevo con gli hipster all’epoca. Non ne conoscevo, o non moltissimi, di persona. Più che altro ne ascoltavo la musica. La migliore veniva fuori dall’America. E la migliore di quella americana veniva da New York. Cominciavano a girare nomi che diventavano grossi di botto. I TV On The Radio sono diventati grossi di botto di lì a poco e durati per davvero poco più di una stagione, a partire da qui. Arriveranno al disco successivo ad essere benedetti da David Bowie e ad andare in giro con Trent Reznor e Peter Murphy dei Bauhaus. Insomma, gente che piace alla gente che piace. All’epoca di questo disco qui sono ancora chiusi in una cameretta a Brooklyn. In tre. Due voci nere, uno pure alla chitarra, e un polacco pingue con gli occhiali a fondo di bottiglia a dirigere il suono. Terzetto improbabile. Mischiavano musica elettronica e suonata, ma soprattutto soul e post punk. Dream pop e quei ticchettii di Aphex Twin o altri, non me ne intendo. Stax e 4AD. Musica bianca e nera. Ma quando suonavano neri non erano gangsta. Quando suonavano bianchi non erano efebici. Non dei damerini. L’aria da sfigati non gliela toglieva nessuno, ma cazzo che sfigati. Musica buia e pulsante. C’è tantissimo sesso, desiderato, ricordato. Evocato. Goduto. Wear You Out irresistibile, sotto questo aspetto. Staring at the Sun, inquieta, sempre sul punto di esplodere e non esplode mai. La migliore, King Ethernal, ovvero: i Joy Division nella savana. Li adoravo e per tantissimo tempo li ho considerati il mio gruppo preferito tra quelli contemporanei (avevo tradito il metal, poi fui perdonato). Ancora un disco capolavoro, uno bello, due meh. Strade divise, cosa facciano i due cantanti non lo so, li ho persi di vista. Ma il polacco, David Sitek, dopo essere stato produttore di un certo grido per un po’ (Kelis, Scarlett Johansson) è rimasto nell’ombra. E nell’Ombra pare trovarsi bene: la responsabilità dei suoni dell’ultimo Chelsea Wolfe è sua.

NACHTMYSTIUM / XASTHUR – Split 7’EP

Griffar: L’interesse per questo lavoro è prettamente collezionistico, essendo un vinile 7 pollici limitato a 1000 copie uscito per l’allora neonata Autopsy Kitchen records, ma è comunque interessante parlarne in quanto opera figlia del suo tempo. Fu proprio nei primi anni 2000 che i gruppi, conquistata la fama anche grazie alla diffusione sempre più vasta di internet (laddove in precedenza ci volevano anni per ottenere dei risultati concreti, se si riusciva ad ottenerne), iniziarono a cambiare metodo nella gestione delle uscite. Era al tramonto l’era della sequenza disco/tour nazionale/tour europeo/tour americano/disco nuovo etc: la nuova impostazione era far uscire più titoli possibile per mantenere vivo l’interesse sul nome. Nel 2004 Xasthur pubblicò 7 titoli, Nachtmystium 5. Allora sembrava uno sproposito, oggi ci sono gruppi che pubblicano anche 25 dischi l’anno. Gli split smisero di essere cosa rara, per lo più opera di band emergenti all’esordio, e diventarono usuali, quasi necessari, onnipresenti. Qui troviamo due brani che ricalcano in tutto e per tutto lo stile delle due band partecipanti, senza alcuna sperimentazione. I Nachtmystium offrono Desolation (con la sua coda ambient intitolata Outro, in pratica un brano unico), depressive black cadenzato a 60 di metronomo, tre riff minimali in tutto, un buon pezzo, non un capolavoro. Xasthur in Spell Within the Wind propone il suo solito black slabbrato, sfrangiato, con una ritmica distortissima su cui vengono incastrati arpeggi ancora più riverberati, il tutto sorretto da tastiere spaziali che acuiscono la sensazione di desolazione e straniamento, mentre Malefic si sgola col suo classico screaming acutissimo. Se già conoscete i due gruppi è una chicca da collezione, ma se non li avete mai calcolati prima non sarà certo questo Ep a farvi cambiare idea.

IMPELLITTERI – Pedal to the Metal

Cesare Carrozzi: Uno non dovrebbe mai giudicare un disco dalla copertina, però Pedal to the Metal si presentava davvero male, con una roba rabberciata fatta con photoshop in due minuti da Derek Riggs (sì lo stesso dei Maiden, spero sia in pensione, si sia dato all’ippica o si sia dato direttamente fuoco) che faceva davvero pensare malissimo di quello che sarebbe poi potuto passare per le casse dello stereo. I precedenti Crunch e System X mi erano piaciuti abbastanza, sicché ero ben disposto verso Pedal To the Metal, copertina a parte, e alla fine non rimasi troppo deluso, per quanto si tratti di un lavoro incoerente che sembra voler andare contemporaneamente in almeno tre o quattro direzioni diverse. Ci sono canzoni che vanno in un senso, altre che vanno in un altro. Una in particolare (Punk), tra rap, nu metal e neoclassico, è la stella polare dell’album, con tutte le varie influenze che convivono in un’unica canzone. Che fa cacare. Il resto dell’album no, o meglio certi pezzi sono più riusciti (The Writings on the Walls, Dance with the Devil, Judgement Day, The Fall of Titus), altri meno o molto meno, però per Impellitteri ho sempre una certa simpatia, quindi comunque tendo a vedere il bicchiere mezzo pieno. Certo, come solista non mi piace troppo, l’album è dispersivo ma è prodotto molto bene, soprattutto per quanto riguarda le chitarre ritmiche, sempre fiore all’occhiello del nostro. I grossi problemi, secondo me, furono a) il fatto che Impellitteri vivesse in California e si trovasse quasi tutto il movimento nu metal sotto casa; b) la voglia di distinguersi sempre e comunque da Yngwie, che a volte ti fa fare cose belle, a volte la merda, anche solo per fare “altro” rispetto al canovaccio. Mettete insieme le due cose ed otterrete la schizofrenia di cui è purtroppo affetto Pedal to the Metal. Insomma se già vi piace Impellitteri qualcosa di buono ce lo troverete, basta cercare bene. Altrimenti lasciate perdere.

KATAKLYSM – Serenity in Fire

Marco Belardi: Serenity in Fire chiuse un filotto di quattro album consecutivi accolti in maniera particolarmente positiva dal mondo metallaro. Il primo fu The Prophecy, uscito nel 2000. Epic (The Poetry of War) fu con certezza il più riuscito, dopodiché Shadows & Dust e il qui recensito consolidarono la popolarità dei Kataklysm presso un pubblico death metal generalista. Stranamente conoscevo amanti del black metal e del brutal death più oltranzista che uscivano pazzi per quei Kataklysm, e non ho saputo spiegarmi se, a quel tempo, il fatto avesse o meno una natura semplicemente mediatica. Con certezza Serenity in Fire era leggermente inferiore al suo predecessore, che, a sua volta, non legava nemmeno le scarpe a Epic (The Poetry of War). La marea stava quindi scendendo. Apprezzai tuttavia in particolar modo For All Our Sins, una paraculata a metà fra black melodico e il death/thrash svedese più svenduto al mercato. Inoltre si trattò di uno degli album pubblicati senza lo storico batterista Max Duhamel prima della sua definitiva dipartita, un membro, quest’ultimo, assai fondamentale per lo sviluppo del suono della band canadese: se conoscete le mie fisse comprenderete la mia relativa riluttanza ad amare questo titolo.

DARGAARD – Rise and Fall

Michele Romani: Rise and Fall è l’ultima fatica dei Dargaard, duo austriaco composto da Tharen (cantante nei primi demo degli Abigor nonché factotum dei validissimi Amestigon) e quella gran gnocca di Elisabeth Toriser, nota soprattutto per la sublime voce angelica che ogni tanto faceva capolino nel capolavoro Nachthymnen (From The Twilight Kingdom) sempre degli Abigor. I collegamenti con i blackster austriaci in realtà finiscono qui, visto che in Rise and Fall (come del resto nei precedenti tre lavori) di metal non c’è nulla. Siamo infatti in territori marcatamente darkwave dai toni neoclassici, che fa largo uso di partiture folk medievali che ricordano un po’ gli Arcana e anche i connazionali Pazuzu. Nei Dargaard sono ancora più predominanti le tastiere, vere protagonista del disco in questione. Personalmente reputo Rise and Fall uno dei migliori dischi dark ambient che mi sia mai capitato di ascoltare (la title track è da brividi) pur se trattasi ovviamente di una proposta ultra settoriale che consiglio solo a chi ha già dimestichezza con questo tipo di sonorità, altrimenti il rischio abbiocco è più che concreto.

THY PRIMORDIAL – Pestilence upon Mankind

Griffar: Nel 2004 esce anche il sesto ed ultimo Lp dei Thy Primordial, autori in precedenza di gemme straordinarie di puro black svedese alla Dark Funeral/Setherial del calibro di Where Only the Seasons Mark the Paths of Time (1997), Under iskall trollmåne (1998) e At the World of Untrodden Wonder (1999), anche se per il sottoscritto il loro miglior lavoro di sempre rimane l’EP Kristallklar Vinternatt, che precede la triade citata. Pestilence upon Mankind ci presenta una band dalle idee confuse, incerta se continuare con il fast black metal tipico della loro patria oppure tentare di evolvere verso cose meno standardizzate. Incastonate nelle sfuriate classiche in blast beat eseguite alla perfezione dall’eccellente batterista Morth (suonò anche nei fenomenali Dawn, nei violentissimi Niden Division 187 e in molti altri nomi meno noti) troviamo partiture riconducibili al death svedese: con rallentamenti cospicui e parti molto cadenzate dove vengono introdotte armonie estranee alle consuete coordinate sonore del gruppo. Tutt’altro che un brutto disco, il problema fu che chi seguiva i Thy Primordial dagli esordi si aspettava ogni volta qualcosa ai limiti del capolavoro, con riff glaciali e tempestosi coi quali sferzare i propri timpani. In questo caso non fu così. La band si sciolse l’anno seguente, forse accortasi della deriva alla quale stava andando incontro.

2 commenti

  • Avatar di weareblind

    Hostage to Heaven. Un thrash di violenza inarrivabile.

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  • Avatar di Tullio

    E niente, i mesi passano e piu’ vado avanti a leggere questi (ottimi) “avere vent’anni”, piu’ mi rendo conto che era tutto finito, già piu’ di vent’anni fa. Mese dopo mese si scende sempre piu’ nell’inutile e nel trascurabile.

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